L’espulso dal gruppo alla ricerca del suo giudice

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di Salvatore Curreri

La Commissione contenziosa del Senato, con decisione dello scorso 13-26 aprile, ha dichiarato improcedibile il ricorso presentato da sei senatori (Lezzi, Lannutti, Abata, Angrisani, Corrado e Di Micco) contro il Presidente del Senato per averli assegnati al gruppo misto dopo la loro espulsione dal gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle.

Secondo la Commissione, infatti, quello del Presidente del Senato non è un provvedimento amministrativo impugnabile dinanzi ad essa ma un mero annuncio, imposto dal Regolamento, che “assolve ad una funzione meramente ricognitiva e notiziale”. Con esso, infatti, il Presidente si limita semplicemente a prendere atto ed a rendere nota l’appartenenza al Gruppo misto dei “senatori che non abbiano dichiarato di voler appartenere ad un Gruppo” (art. 14.4, V periodo).

Ma al di là di tale profilo, era ampiamente prevedibile che il ricorso sarebbe stato respinto non solo e non tanto per ragioni di merito, quanto piuttosto per l’ardito tentativo di considerare il provvedimento di espulsione dal gruppo (presupposto dell’annuncio del Presidente) un atto amministrativo sindacabile dinanzi agli organi di autodichia interna del Senato.

Non tanto nel merito perché solo chi ritiene la disciplina di gruppo un attentato alla libertà di mandato del parlamentare (art. 67 Cost.) può sostenere che questi abbia diritto, in nome addirittura della propria libertà d’espressione, d’infrangerla impunemente, financo in occasione delle votazioni fiduciarie che non a caso l’art. 94 Cost. vuole per appello nominale. Argomentazioni così unilaterali e forzate, frutto di una visione individualista del mandato parlamentare, da non meritare a mio parere ulteriori confutazioni.

Allo stesso modo, frutto di una interpretazione ardita era il tentativo di sottoporre alla competenza della Commissione contenziosa il provvedimento di espulsione dal gruppo, annoverandolo tra “gli atti e i provvedimenti amministrativi adottati dal Senato non concernenti i dipendenti o le procedure di reclutamento del personale” impugnabili dinanzi ad essa ai sensi dell’art. 1.1 della deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 180 del 2005. È evidente infatti che tale disposizione, modificata per permettere agli organi di autodichia di pronunciarsi anche sulle controversie che oppongono l’amministrazione del Senato non solo ai propri dipendenti ma anche a quanti ambiscono a diventarlo o ai terzi fornitori di beni e servizi non può estendersi fino al punto da ricomprendere le controversie sugli atti di natura politica adottati dai gruppi parlamentari, che “sono soggetti interni alle Camere che svolgono funzioni parlamentari, meramente politiche, e non anche amministrative”.

Era, dunque, ampiamente prevedibile che la Commissione avesse gioco facile nell’affermare la propria carenza di giurisdizione.

Piuttosto la sentenza merita attenzione perché pone il problema di chi sia il giudice competente a risolvere simili controversie. Come è noto, infatti, la Cassazione (sez. un. civili, ordinanza n. 6458/2020) ha sancito che le controversie tra parlamentari espulsi ed ex gruppo politico d’appartenenza (anche in quel caso del M5S) non sono di competenza del giudice comune ma delle Camere. Esse, infatti, vertono “in una sfera che, attenendo ad una articolazione fondamentale dell’Assemblea parlamentare, non sfugge al cono d’ombra che gli interna corporis e il diritto parlamentare frappongono alla giustiziabilità delle situazioni giuridiche individuali dinanzi al giudice comune dei diritti soggettivi”.

Il ricorso quindi può trovare una sua giustificazione perché costituisce, come dire?, il primo tentativo d’individuare quale sia l’organo interno alle Camere che possa dirimere tali controversie. Sotto questo profilo, la decisione della Commissione contenziosa del Senato è perfettamente allineata alla non a caso coeva (22 aprile) decisione del Consiglio di giurisdizione della Camera dei deputati che ha parimenti dichiarato inammissibili i ricorsi presentati da cinque deputati a seguito della loro espulsione dal gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle (per non aver votato la fiducia al governo Draghi) e della conseguente loro assegnazione al gruppo misto da parte del Presidente della Camera.

Entrambe le sentenze, infatti, pongono alle rispettive Presidenze il problema di come raccogliere l’invito della Cassazione secondo cui rientra nel potere delle camere “decidere autonomamente e secondo le modalità da esso stabilite le controversie che possono investire le attività interne allo stesso Senato nei rapporti tra Gruppo parlamentare e senatore espulso dal Raggruppamento stesso”.

Una pronuncia scontata quindi ma che costituisce forse un passaggio obbligato perché le camere, uscendo dall’attuale situazione che esclude la competenza sia del giudice ordinario che degli organi di autodichia, decidano presupposti, procedure e soggetti competenti a risolvere le controversie tra gruppi parlamentari e loro iscritti.

Compito non facile, vista l’incandescenza della materia, ma ineludibile se non si vuole violare quella “tutela giustiziale” (come scritto nella sentenza, al posto di “giurisdizionale”) cui anche i parlamentari espulsi hanno diritto ex art. 24 Cost. e che potrebbe segnare un primo importante passo per la democrazia all’interno dei partiti politici, visto la sempre maggioranza importanza (talora quasi esclusiva) della loro dimensione parlamentare.

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