Catasto: una riforma giusta che non si farà (almeno per ora)

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di Giacomo Menegus

 È bastato che nel dibattito sulla legge di delega al Governo per la riforma fiscale si pronunciasse la parola “catasto” perché si levassero gli scudi di un vasto ed eterogeneo schieramento politico, che parte da Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, per arrivare fino al M5S. Tutti schierati contro la revisione dei valori catastali.

In parallelo è partita una battente campagna di stampa, capitanata dal Corriere della Sera, volta a paventare il rischio di una “stangata” fiscale per i proprietari, che pagherebbero già troppe tasse sui propri investimenti immobiliari.

Il tutto evocando – più o meno apertamente – l’immagine scolorita dell’italiano medio che ha acquistato l’immobile di proprietà con i risparmi di una vita. Un’immagine che, da un lato, corrisponde sempre meno alla realtà del Paese, dal momento che – pur restando gli italiani in maggioranza proprietari della casa in cui risiedono – si assiste a una crescita di quanti vivono in affitto (il 18,4% delle famiglie italiane nel 2019 secondo l’Istat). Ma c’entra pure poco con gli obiettivi della riforma, se solo si considera che il Governo ha promesso di non toccare la tassazione sulla “prima casa”, esente dall’imposizione IMU ormai da tempo e con aliquote ridotte per lo stesso acquisto (salvo per le abitazioni di lusso).

La rivalutazione interesserebbe pertanto, in via principale, i proprietari di case diverse dall’abitazione principale (seconde, terze, quarte e così via) e quelli di immobili particolarmente pregiati.

Il concetto di fondo della riforma è tanto semplice, quanto giusto: gli attuali valori – sulla base dei quali si calcola una serie di prelievi fiscali (imposte di registro, catastali e ipotecarie in caso di acquisto, IMU, imposte su donazioni e successioni) – non rispecchiano affatto il valore reale degli immobili e vanno perciò rivisti, in modo che chi ha di più paghi di più e chi ha meno paghi di meno (v. in tal senso i commenti su Osservatorio CPI, laVoce.info e ilSole24Ore.com).

Le proporzioni dell’attuale scostamento le illustra lo stesso Corriere della Sera, che ci dice come un appartamento di 100 mq a Milano abbia un valore di mercato di 391.800 euro, ma l’imponibile a fini IMU (calcolato appunto sui valori catastali odierni) ammonti a soli 142.900 euro. Significa che il proprietario dell’immobile paga l’IMU – al 1,14% – su poco più di un terzo del valore reale dell’immobile: e gli altri due terzi?

Non è il caso qui di riprendere diffusamente le ragioni tecniche dell’inadeguatezza degli attuali valori (mancato aggiornamento fermo a fine anni ‘80, zone censuarie inadeguate, classificazione e metodo di computo, ecc.). Va piuttosto evidenziato come il sistema attuale sia fortemente iniquo, irrazionale e sostanzialmente non in linea con il dettato costituzionale.

Iniquo, perché accanto a molti che pagano molto meno di quanto dovrebbero, ce ne sono altrettanti che pagano molto di più di quanto dovrebbero; ce lo ricorda la sottosegretaria al MEF Maria Cecilia Guerra, che evidenzia come molti immobili, specie nelle aree interne si siano deprezzati, ma i proprietari continuino a pagare sulla base dei valori calcolati alla fine degli anni ‘80.

Irrazionale, perché l’attuale sistema di calcolo dei valori non consente di fotografare il valore reale dell’immobile e rende perciò pressoché casuale l’importo delle varie imposte misurate sugli stessi.

Incostituzionale, perché l’iniquità e l’irrazionalità descritte si traducono in puntuali violazioni della Costituzione: in primo luogo, in una violazione del fondamentale principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), nella sua duplice accezione formale e sostanziale; ma pure nella violazione dell’art. 53 Cost., per cui “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Capacità contributiva che dovrebbe essere rappresentata in questo caso dal reale valore dell’immobile.

Nonostante ciò, la campagna politica e di stampa è riuscita a raggiungere il risultato voluto. Per il momento l’intervento sul catasto si limiterà a “fotografare” lo stato attuale delle rendite, ma senza alcuna revisione della tassazione: non si pagherà né di più né di meno di prima (v. qui). L’obiettivo per ora si limita all’emersione delle “case fantasma”, che secondo alcune stime ammonterebbero a ben 2 milioni.

Si possono trarre due insegnamenti da questa vicenda.

Primo: il famoso “Ce lo chiede l’Europa” conferma ancora una volta di valere solo per quelle riforme che riscuotono il consenso delle principali forze politiche. Senza l’adesione della maggioranza di governo, i vincoli posti dall’Unione europea sembrano sbiadire. Basti pensare che la revisione dei valori catastali è indicata puntualmente dal 2013, ogni anno, nelle raccomandazioni specifiche per paese dell’Italia, strumento che dovrebbe orientare le politiche degli stati membri.

Secondo: l’Europa chiede la riforma dei valori catastali a uno scopo (anche questo ribadito da anni): spostare l’esorbitante carico fiscale dai fattori produttivi (con particolare riferimento al lavoro e all’impresa) alla rendita immobiliare. Il fatto che la riforma sia ferma al palo ci dice molto di quanto sia trasversale il “partito del mattone” e di quanto una parte consistente della cultura politica italiana – al di là delle dichiarazioni – sia lontana non solo da ideali redistributivi, ma pure dai concetti di fondo del pensiero liberale.

Un ultimo appunto pare opportuno su un tema che – salvo errori di chi scrive – non ha avuto copertura alcuna nel dibattito pubblico. Una revisione dei valori catastali, con il conseguente aumento della tassazione (pur compensata dalla revisione delle aliquote promessa dal Governo) rischia di riflettersi negativamente sulle locazioni. È facile immaginare un aumento dei canoni nelle grandi città e nei centri storici, dove si concentrano i maggiori scostamenti tra valori attuali e reali. Il pericolo è quello di una nuova espulsione della popolazione meno ricca (lavoratori dipendenti, studenti, pensionati con redditi contenuti ecc.) in favore di fenomeni di gentrification, che già interessano pesantemente i centri storici del nostro Paese (anche per la diffusione degli affitti brevi turistici su piattaforme come Airbnb). Su questo frangente, è bene che chi interverrà in futuro (se interverrà…) lo faccia con grande attenzione, adottando gli opportuni correttivi.

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2 commenti su “Catasto: una riforma giusta che non si farà (almeno per ora)”

  1. Argomentazione chiara, precisa, concisa e convincente. L’argomento della non conformità merita riflessione! Avrei solo una riserva sull’ultimo punto trattato. Bisogna accettare le regole del gioco: prezzo vero (che non cambierebbe) e affitto effettivo (a rischio di aumento in seguito ad un aumento sensibile dell’IMU) si rispecchiano. Meglio non storcere questa meccanica di mercato e di equità. Per la prima casa l’aumento non inciderebbe, ma l’IMU non esiste più! Non sarebbe più equa e più efficiente una generosa franchigia calcolata sul nucleo familiare? Ma domina ancora il pensiero neo-liberale (e poco liberale) che la tassa immobiliare è una seconda tassazione e che l’arricchimento di pochi (sgocciolando giù) alla fine giova anche ai molti.

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  2. Devo ancora capire perchè una (seconda) casa da cui percepisco un modico affitto, affitto su cui pago le tasse, avrebbe bisogno dell’ulteriore tassa di nome IMU per ristabilire i principi costituzionali. Al bar si può anche confondere la capacità contributiva con la proprietà, ma l’associazione naturale è con i redditi.
    Molto più sensato quello che diceva qualcuno: “La casa di proprietà è il bancomat delle varie amministrazioni”. Quando il comune, lo Stato, le province abolite, hanno bisogno di denaro, essi hanno sempre a portata di mano le case degli italiani.
    Se il fronte che si oppone all’aumento (si tratta di AUMENTO, non di revisione) delle rendite catastali è ampio perchè è ampia l’ingiustizia verso i proprietari di case.
    L’articolo comunque informa correttamente che l’aumento delle rendite andrà a punire soprattutto gli inquilini nelle grandi città.

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