La politica estera dell’UE rispetto all’Ucraina: fine dell’illusione del soft power?

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di Andrea Guazzarotti

 Nella conferenza stampa che ha fatto seguito alla Relazione sull’attività della Corte costituzionale nel 2021, il Presidente Giuliano Amato ha adombrato il tramonto della strategia dell’UE incentrata sul soft power, anziché sull’hard power: «in tempi di lupi, quanto è efficace esercitare il soft power

Il problema starebbe, dunque, nei mezzi: rischierebbero di divenire inadeguati quelli incentrati sul potere di persuasione, convinzione e cooptazione, contrapposto al potere militare ed economico.

Ma siamo sicuri che il problema sia solo quello della scelta dei mezzi (vedi: passare a una difesa comune europea) e che non si tratti anche di un problema di fini? Era davvero compatta l’UE e i suoi Stati membri nelle scelte di politica estera relative all’Ucraina?

L’incoerenza più vistosa e più nota è quella relativa alla politica energetica tedesca e all’accordo tra la Germania di Angela Merkel e la Russia di Putin sul gasdotto Nord Stream 2, progettato per tagliare fuori l’Ucraina dal transito del gas russo verso i Paesi dell’Europa occidentale, Germania in testa. Un gasdotto percepito fin dall’origine dall’Ucraina come una minaccia alla propria sicurezza, non solo economica (perdita di almeno 1, 2 miliardi di euro all’anno), ma anche esistenziale, posto che perpetuare la centralità strategica della rete energetica in Ucraina avrebbe dovuto tutelarla da attacchi militari russi a tali infrastrutture. Per cui, non pare arbitrario ritenere che la scelta tedesca di completare il Nord Stream 2 abbia indebolito la leva della Germania e dell’Europa sulla Russia.

Si tratta di una visione condivisa anche da alcuni Paesi orientali dell’UE, primo tra tutti la Polonia, ove il gasdotto è stato ribattezzato “gasdotto Ribbentrop-Molotov” e dove a usare parole dure contro la scelta tedesca non sono stati solo i vertici dell’attuale partito nazionalista polacco, bensì lo stesso ex Presidente del Consiglio UE Donald Tusk, di specchiata fede europeista.

Non solo. Ma tale visione critica è condivisa dalla stessa Commissione UE, la quale però ben poco ha potuto contro la decisione tedesca.

Tuttavia, se l’Ucraina si è sentita abbandonata dall’UE sulla politica energetica quale leva di negoziazione con la Russia, non così è stato per un’altra politica, che pure non passa sotto l’etichetta di “politica estera”. Si tratta dell’accordo di associazione siglato dall’UE con l’Ucraina nel 2017, contenente fra l’altro l’abolizione dell’obbligo del visto per i cittadini ucraini che intendano recarsi nell’UE per un periodo compreso entro i novanta giorni. Abolizione del visto che avrebbe fatto enfaticamente affermare all’allora Presidente ucraino Poroshenko che si trattava per l’Ucraina della «scissione dall’impero russo»!

Si badi, è stata proprio tale abolizione dei visti ad aver agevolato la fuga dai bombardamenti russi dei civili ucraini verso gli stati europei confinanti, oltre al diverso grado di xenofilia dimostrato da Polonia, Ungheria, ecc., verso questa categoria di rifugiati.

Dunque, se con la politica estera dell’UE tradizionalmente intesa non si è riusciti a perseguire obiettivi unitari, tesi in particolare a indurre la conclusione degli accordi sul Donbass e/o a perseguire una politica energetica coerente con l’obiettivo di ridurre la dipendenza europea dall’autocrazia di Putin, con la politica dei visti l’UE ha pur sempre compiuto una scelta geopolitica. Si tratta di un mezzo che privilegia le scelte individuali e private dei cittadini (in questo caso ucraini), lasciando magari ambiguamente intravedere nella concessione della libertà di circolazione lo spiraglio di una futura adesione dell’Ucraina all’UE.

Una strategia che rispecchia l’intima natura dell’UE.

La politica estera di un “non-Stato” come l’UE rispecchia la sua identità: non può fondarsi “in positivo” su potere militare, territorio, popolazione, risorse (tutte prerogative detenute, più o meno debolmente, dai suoi Stati membri), bensì “in negativo”, su apertura dei confini nazionali, libertà di circolazione degli individui, non discriminazione di questi ultimi, anche se privi di cittadinanza di uno Stato membro, ecc. La visione “micro” ha però offuscato quella “macro”, posto che la scelta di favorire la libera circolazione degli ucraini in occidente ha comportato il costo geopolitico di rafforzare la visione russa dell’ineluttabile deriva dell’Ucraina verso ovest assieme con l’ossessione della gestione della periferia dell’impero.

L’accordo sui visti per i cittadini ucraini del 2017 ha rappresentato un tassello della politica estera dell’UE in Europa, che è appunto quella dell’allargamento ad Est, nell’illusione che le condizionalità cui è subordinata l’adesione comportino la capacità di influire concretamente sugli altri ordinamenti nazionali e sulla loro “costituzione materiale”. Illusione che sembra ancora più azzardata rispetto alla malcerta cultura costituzionale dell’Ucraina.

L’esito è stato ambiguo: il travaso di valori sembra ora invertito, con alcuni Stati membri dell’ex blocco sovietico impegnati a contrastare i decadenti valori occidentali e i fondamenti costituzionali dell’UE (rifiuto del primato del diritto UE, in primis, ma anche dell’indipendenza della magistratura in Polonia, controllo dei media in Ungheria, ecc.).

Ora quell’inversione sembra profilarsi anche sul piano dell’identità della politica estera europea: non più soft power, bensì hard power; non più ricerca di una terza via, alternativa al confronto muscolare tra USA e Russia, bensì adesione alla visione statunitense, da tempo sposata da Polonia e Paesi baltici, di un contrasto iper-ideologizzato alle mire neo-imperiali della Russia.

Prima del cambio di paradigma sui mezzi (da soft ad hard), sarebbe dunque da indagare quali siano i fini della politica estera dell’UE e, soprattutto, se siano perseguibili da tutta l’Europa a 27.

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