Il “caso Petrocelli”, ovvero la possibile decadenza dei Presidenti di Commissione

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di Salvatore Curreri

Benché in fase di risoluzione (almeno così sembra) la vicenda del Presidente della Commissione Esteri del Senato Vito Petrocelli, di fatto sfiduciato da tutti (o quasi) i suoi componenti per le posizioni espresse a favore dell’invasione russa dell’Ucraina, merita comunque una riflessione, anche eventualmente ai fini dell’introduzione di soluzioni strutturali più lineari di fronte a simili, e sempre più ricorrenti, casi.

In primo luogo va evidenziata la differente disciplina in materia di decadenza dei Presidenti di Commissione esistente tra le due Camere.

Alla Camera dei deputati non è prevista la decadenza dei Presidenti di commissione, ipotesi piuttosto riservata ai segretari aggiuntivi dell’Ufficio di Presidenza “qualora venga meno il Gruppo cui appartenevano al momento dell’elezione, ovvero nel caso in cui essi entrino a far parte di altro Gruppo parlamentare già rappresentato nell’Ufficio parlamentare” (art. 5.7 R.C.). Per rimediare a tale assenza, l’art  20.1 del Testo di riforma del Regolamento della Camera predisposto dai relatori Baldelli e Fiano depositato nella seduta della Giunta per il regolamento del 17 febbraio 2022 prevede che il Presidente, i due vicepresidenti e i due segretari che compongono l’Ufficio di presidenza di ciascuna Commissione permanente decadono dalla carica “se chiamati a far parte del Governo” (art. 5.9-bis) oppure (art. 5.7) entrino “a far parte di un Gruppo parlamentare diverso da quello al quale appartenevano al momento dell’elezione”, a meno che la loro “cessazione sia stata deliberata dal Gruppo di provenienza” (cioè in caso di espulsione dal gruppo), oppure “in caso di scioglimento o fusione con altri Gruppi parlamentari o in caso di iscrizione, all’atto della costituzione, ad un Gruppo formato ai sensi dell’articolo 14, comma 2” [costituzione in corso di legislature di un nuovo Gruppo o per fusione di gruppi precedenti oppure perché costituito da almeno quattordici deputati – il doppio di quelli ordinariamente previsti – tutti provenienti da un unico Gruppo parlamentare e che  rappresentino, in forza di elementi certi ed inequivoci, un partito o un movimento politico organizzato nel Paese anche formatosi successivamente alle elezioni]. In definitiva, la decadenza del Presidente, e degli altri membri dell’ufficio di presidenza della Commissione, sarebbe frutto di una scelta volontaria (l’adesione ad un altro gruppo), e non conseguenza di una decisione del Gruppo o delle sue vicende politiche.

In tal modo la Camera vorrebbe avvicinare la propria disciplina sul punto a quella prevista dal Senato, dove, al pari di quanto previsto per i Vice-Presidenti ed i Segretari membri del Consiglio di Presidenza (art. 13.1-bis R.S.), i componenti degli Uffici di Presidenza delle commissioni decadono se “entrano a far parte di un Gruppo diverso da quello al quale appartenevano al momento dell’elezione. Tale disposizione non si applica quando la cessazione sia stata deliberata dal Gruppo di provenienza, ovvero in caso di scioglimento o fusione con altri Gruppi parlamentari” (art. 27.3-bis R.S.). Costoro, dunque, decadono solo se decidono volontariamente di entrare a far parte di un gruppo diverso (misto escluso) da quello cui appartenevano quando hanno assunto l’incarico, ma non se ne vengono espulsi. Anche il Senato, com’è noto, sta rivedendo il proprio regolamento, per far fronte alle conseguenze organizzate e procedurali derivanti dalla (drastica) riduzione del numero dei suoi componenti dalla prossima legislatura. In questa prospettiva, il testo base allegato alla seduta della Giunta per il regolamento del 18 gennaio 2022, modifica il citato art. 27.3-bis prevedendo che i componenti dell’Ufficio di Presidenza decadano dalla carica non più se “entrano a far parte di un Gruppo diverso” ma se “cessano di far parte del Gruppo al quale appartenevano al momento dell’elezione”. In altri termini, se la proposta di modifica regolamentare venisse approvata, il componente dell’Ufficio di Presidenza decadrebbe per il sol fatto di abbandonare il gruppo cui apparteneva al momento dell’assunzione della carica, senza che sia più necessario, come ora, aderire ad altro gruppo (ovviamente diverso dal misto cui, in mancanza di diversa scelta, si viene iscritti d’ufficio). Il che peraltro trova spiegazione anche a seguito della proposta abrogazione del gruppo misto, al posto del quale il senatore che abbandona il proprio gruppo acquisirebbe lo status di senatore non iscritto ad alcun gruppo.

Fatta questa doverosa premessa, il caso Petrocelli ha una specificità. Qui non si tratta, infatti, di un Presidente di Commissione non più appartenente alla maggioranza parlamentare (come già accaduto in molti casi; ne ho scritto qui) oppure addirittura impossibilitato ad esercitare le sue funzioni per non commendevoli vicende personali (v. il caso de Presidente della Commissione cultura della Camera dei deputati Giancarlo Galan, rimasto in carica nonostante agli arresti domiciliari, su cui v. la lettera della Presidente della Camera Boldrini al Corriere della sera del 13.12.2014). Qui si tratta del Presidente di una Commissione che, a seguito delle sue prese di posizione, oltreché essere sottoposto a procedimento d’espulsione da parte del gruppo d’appartenenza (M5S), è stato oggetto di aspre critiche da parte di tutti (o quasi) i componenti della commissione i quali ne hanno reclamato le dimissioni o, in difetto, la sostituzione ritenendo le sue posizioni radicalmente incompatibili con l’ufficio ricoperto in una commissione peraltro in questo momento strategica perché chiamata ad occuparsi della gravissima crisi internazionale innescata dalla politica di Putin.

Siamo quindi dinanzi ad un caso affatto particolare per la cui risoluzione sono state avanzate diverse ipotesi. Tra queste, almeno inizialmente, quella per cui la Presidente del Gruppo parlamentare del M5S al Senato potrebbe di fatto far decadere Petrocelli da Presidente semplicemente designandolo ad altra Commissione (art. 21.1 R.S.). Per quanto indubbiamente ingegnosa, considero tale tesi infondata per due motivi:

1) innanzi tutto il regolamento non prevede lo spostamento definitivo di un senatore da una commissione ad un’altra, quanto piuttosto la più limitata sostituzione di un commissario con un altro. Per regolamento infatti la composizione delle commissioni viene rinnovata dopo il primo biennio della legislatura (art. 21.7);

2) come visto, i membri dell’Ufficio di Presidenza delle commissioni decadono soltanto se entrano volontariamente a far parte di un altro gruppo parlamentare (misto escluso) (art. 27.3-bis R.S.). Si tratta dell’unica ipotesi di decadenza prevista che, quale norma speciale, prevale su ogni tentativo d’interpretazione estensiva delle altre diretta ad ottenere il medesimo risultato. Inoltre, nel prevedere la decadenza del Presidente solo nel caso in cui entri a far parte di un nuovo gruppo (o, se fosse approvata la riforma, l’abbandoni) e non qualora ne venga espulso, è evidente che l’art. 27.3-bis voglia proteggere il Presidente da qualunque provvedimento (sostituzione o trasferimenti inclusi) con cui il Gruppo originario possa determinare di fatto lo stesso risultato. Ciò, evidentemente, allo scopo di evitare che il Presidente, eletto dalla Commissione, possa essere costantemente tenuto sotto scacco del proprio Gruppo minacciandolo in qualunque momento di provocarne la decadenza, invece prevista nel solo caso sia il Presidente a scegliere volontariamente di aderire ad altro gruppo.

È evidente che l’ipotesi della decadenza solo in caso di adesione ad altro gruppo, per quanto intesa a tutelare l’autonomia e indipendenza del Presidente della Commissione, si espone alla fin troppo facile critica circa la natura irrealistica. Come infatti lo stesso caso Petrocelli conferma, il Presidente di Commissione si guarda bene dal dimettersi spontaneamente dal gruppo e, tanto più, dall’aderire ad un altro, preferendo piuttosto farsi espellere così da poter continuare a ricoprire la carica.

Proprio per questo motivo, l’unica soluzione a mio parere praticabile è quella già seguita in occasione del caso Villari, e cioè le dimissioni di tutti (o quasi tutti) i membri della commissione Esteri, in segno di tangibile ed ampia sfiducia di costoro nei confronti del Presidente, così da porre in essere quel “fatto concreto” che costringa la Presidente del Senato, preso atto della mancato funzionamento della Commissione e in forza del suo dovere di assicurare il “buon andamento” dei lavori parlamentari, a scioglierla e ricostituirla ex novo, stavolta escludendo Petrocelli, con l’elezione di un nuovo Presidente. Soluzione alla quale la stessa Presidente si è dichiarata disponibile, evidentemente dismettendo l’atteggiamento pilatesco assunto, con il suo omologo della Camera, in relazione della sostituzione del Presidente del Co.pa.sir. con un esponente della opposizione, così come prescritto dalla legge.

Visto che però siamo in piena stagione di revisione regolamentare, forse sarebbe il caso di chiedersi se, anziché una simile soluzione, di per sé arzigogolata e farraginosa, non sia più opportuno introdurre l’espressa possibilità di sfiduciare il Presidente della Commissione da parte di una maggioranza così elevata (ad esempio i quattro quinti) che ragionevolmente dimostri l’esistenza di un consenso bipartisan in tal senso, ben al di là della maggioranza governativa e comunque superiore alla maggioranza (dei due terzi o assoluta) richiesta per la sua elezione.

È stato obiettato che una simile possibilità di revoca del Presidente di Commissione contrasterebbe con il suo ruolo imparziale. A parte però che, al contrario del Presidente di Assemblea, quello di Commissione ha un ruolo organico alla maggioranza di governo (non a caso è previsto il rinnovo biennale), forse sarebbe il caso di considerare che in democrazia “laddove c’è potere, ci deve essere responsabilità” per cui non si comprende il motivo per cui, se è financo possibile mettere in stato di accusa il Presidente della Repubblica per attentato alla Costituzione o alto tradimento, non si possa revocare dalla carica un Presidente di Commissione.

Il Presidente Petrocelli, per motivare la propria scelta di non dimettersi, ha invocato la libertà di mandato che gli deriva dal “rappresentare la Costituzione e la volontà degli italiani”. Ora, a parte che secondo l’art. 67 Cost. ogni parlamentare non rappresenta la Costituzione ma la Nazione (che è cosa ben diversa, come sa ogni studente di primo anno di giurisprudenza), pare evidente che qui non si vuole mettere certo in discussione il diritto del senatore Petrocelli di poter, nel libero esercizio del suo mandato, esprimere qualunque opinione, foss’anche la più spregevole, senza esserne chiamato a rispondere in qualunque sede (art. 68 Cost.), quanto il diritto di potere continuare a presiedere un organo collegiale, non avvertendo la sensibilità istituzionale di presentare spontaneamente le proprie dimissioni, anche quando non goda della fiducia e della stima di tutti (o quasi tutti) i suoi membri.

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1 commento su “Il “caso Petrocelli”, ovvero la possibile decadenza dei Presidenti di Commissione”

  1. Ad adjuvandum del ragionamento, va ricordato che ad inizio legislatura l’elezione dei presidenti delle commissioni permanenti avviene dopo la fiducia al governo, vale a dire dopo che è parlamentarmente costituita una maggioranza. I presidenti delle commissioni permanenti, cioè, devono essere omogenei alla maggioranza (diversamente da quelle di controllo) il che implica la decadenza se non votano la fiducia (come ha fatto Petrocelli) indipendentemente dal gruppo a cui appartengono.

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