Nella prima metà del 2000 l’Unione Europea, mentre tentava di adottare una Costituzione, ha dovuto decidere sull’ammissione di Stati che avevano fatto parte dell’Urss: i due adempimenti non erano indipendenti e l’esperienza lo ha confermato.
Il primo trattato comunitario (CECA) fu concluso con meno difficoltà del previsto perchè, intervenendo in un settore economico limitato, evitava occasioni di contrasto franco-tedesco che erano state cause di guerra.
Nel 1952 era stato firmato a Parigi il Trattato Europeo di Difesa (CED) che prevedeva una forza armata europea, gestita da una struttura unitaria. L’integrazione avrebbe così interessato un campo, quello appunto della difesa, che all’epoca era tra i più sensibili. Il Trattato non ebbe esecuzione per l’opposizione dell’Olanda e soprattutto della Francia che, in quanto Paese vincitore, era prevedibile che non fosse disposta a diluire i suoi poteri. Rimase tagliato fuori anche il Trattato della Comunità Politica Europea (CPE) perchè nel testo predisposto, per non riaprire la discussione sulla difesa, era previsto che sarebbe stato attuato dopo l’attuazione della CED.
Per questo si ripiegò sulla Comunità economica europea e sulla Comunità europea per l’energia atomica nella convinzione che l’integrazione economica avrebbe facilitato quella politica.
Questo capitò quando i Paesi membri erano sei. In una organizzazione, nella quale per alcuni sviluppi era richiesta l’unanimità, non era difficile prevedere che le cose si sarebbero complicate con l’aumento dei membri, tanto più con l’ingresso di quei Paesi che, per avere riacquistato da poco la sovranità, difficilmente sarebbero stati disposti a rinunciarvi, sia pure in parte. Quando nei primi anni 2000 si arrivò alla redazione del progetto di Costituzione, di fronte alle difficoltà prospettate da alcuni Paesi, c’era stato il suggerimento di ammettere i nuovi membri solo dopo l’approvazione. Il ritardo avrebbe messo, chi lo provocava, in cattiva luce avanti agli Stati richiedenti che, da parte loro, avrebbero dovuto accettare una Costituzione già in vigore. Questa via non fu seguita.
I nodi sono venuti al pettine ed in un momento in cui le difficoltà non mancano. Anche per la c.d. globalizzazione sono sorti problemi nuovi ed alcuni dei precedenti si stanno proponendo in termini diversi.
Ha consentito benefici evidenti attraverso quella che è stata chiamata la nuova rete economica, rendendo possibili, o più agevoli, gli scambi commerciali. Contemporaneamente si sono create le condizioni perché Paesi poco collaborativi possano creare difficoltà producendo, o solo minacciando, fratture nei rapporti. Legare la propria economia a quella di altri Paesi presuppone una fiducia reciproca proiettata nel tempo, data per acquisita anche se non lo era.
I nuovi mezzi, oggi a disposizione, hanno cambiato alcune prospettive tradizionali. Dove non c’è movimento di beni materiali, come nei rapporti finanziari, il territorio ha perso di rilevanza. Con i mezzi attuali di comunicazione, che operano a velocità vicine a quella della luce, mettersi in contatto con chi risiede nella stessa via o a Singapore comporta un ritardo solo di qualche secondo. Nei rapporti, che attengono ai servizi, possono sorgere difficoltà di coordinamento con i diritti radicati sul territorio.
Una delle conseguenze è stata la perdita di peso internazionale di alcuni Stati rispetto a quelli con dimensioni quasi continentali. Può sembrare una contraddizione, ma non lo è. Proprio per la perdita di rilevanza, il territorio ha mantenuto valore quando, per le sue dimensioni, consente di incidere sul piano mondiale. I singoli Paesi membri non possono competere con la Russia, l’India, la Cina. Ne è consapevole anche la Gran Bretagna che finisce con l’ appoggiarsi agli Stati Uniti. Alcuni conflitti armati hanno creato pericoli contro i quali quelle dimensioni sono ormai diventate decisive.
Di fronte all’iniziativa militare della Russia, l’Unione Europea, per avere un peso internazionale corrispondente alla sua struttura economica, dovrebbe arrivare a comunitarizzare la politica internazionale e la difesa, che ne costituisce uno degli strumenti indispensabili. Il singolo Stato membro, vale la pena di ripeterlo, da solo non può avere peso sufficiente per far valere le sue ragioni; l’unanimità gli lascia poteri autonomi solo in funzione negativa, per bloccare iniziative che trovano il consenso degli altri.
Ne risente anche il principio di democrazia, sul quale l’Unione è fondata. Per evitare equivoci, che in questa materia sono frequenti, sembra il caso di richiamare alcune nozioni elementari. Una struttura associativa, se è fondata sull’unanimità, consente di facilitarne il raggiungimento; in mancanza, se anche si sono migliorati i rapporti, dal punto di vista pratico è servita a poco. Il principio maggioritario mira ad evitarlo attraverso la formazione della c.d. volontà comune che è diversa dalla volontà unanime. La comunione, da cui si parte, è quella degli interessi, vale a dire la convinzione collettiva che certi interessi vadano tutelati tutti insieme per la maggiore utilità generale. È solo sul modo di attuarli che, In mancanza del consenso generale, subentra la maggioranza per garantire il risultato. Il principio è coerente con la premessa: se da realizzare è un interesse, ritenuto comune, basta la volontà prevalente per evitare che i meno impediscano ai più di realizzare un obiettivo che, per definizione, è considerato utile per tutti. A garanzia è richiesto che la maggioranza sia verificata periodicamente.
Che l’unanimità possa costituire un pericolo dovrebbe essere evidente nelle circostanze attuali che richiedono, e richiederanno probabilmente sempre di più, iniziative rapide, oltre che coerenti. Il dissenso di un solo Paese, che rappresenta una minima parte della popolazione dell’Unione, ha bloccato iniziative su cui consentivano tutti gli altri. L’Unione, per operare con il peso che merita, dovrà essere in condizione di concorrere alla pari con Cina, Russia, India e Stati Uniti.
Un dato che sembra sfuggire, forse per la sua evidenza, è che l’unanimità ha come effetto che, per eliminarla, sarà necessaria l’unanimità. Non si è tenuto conto, o non si è voluto, che si sarebbe potuta superare con meno difficoltà in periodi di calma quando, per affrontare i problemi, c’è quel tempo che manca nei periodi difficili. Aspettare che i Paesi dissenzienti si convincano comporta un rinvio delle iniziative per un tempo non prevedibile, quasi sempre eccessivo.
Un primo mezzo per rimediare sarebbe la collaborazione rafforzata dell’art. 20 TFUE. Se ne era parlato già una trentina di anni fa, ma senza coltivare l’idea. Non è necessario fermarsi a verificare se sarebbe sempre praticabile, perché si potrebbe concludere un accordo autonomo e parallelo come a suo tempo è stato fatto con gli accordi di Schengen. I Paesi aderenti potrebbero concordare anche una cooperazione più stretta di quella della quale si è discusso sino ad ora. Il fatto che si sia ripreso a parlarne, sia pure con ritardo e con prudenza, potrebbe essere un buon segno. Se ci si arrivasse rapidamente, l’Unione ristretta potrebbe realizzare in sede internazionale politiche autonome, coerenti con i propri interessi. Non è da escludere che, prendendo questa via, i Paesi dissenzienti e la stessa Gran Bretagna rivedano la loro posizione per non rimanere isolati ed in posizione più debole.
Sono passati ormai trenta anni dalla costituzione dell’Unione e sarebbe il caso di verificare se i Trattati siano all’altezza dei tempi. Il Commissario Pandolfi, nel commentarli a suo tempo in diverse sedi, li indicò come punto di partenza per arrivare alla integrazione politica. Poi questa ispirazione si è andata spegnendo. Oggi, per quello che sta succedendo, ci si dovrebbe domandare se si intenda procedere, e rapidamente, ad una integrazione politica efficiente, limitata a chi ci sta, in modo da superare le difficoltà ed i rischi che si stanno prospettando.
La situazione sta evolvendo e non in senso positivo. Certi canoni internazionali non sono più seguiti. Si ricorre alla forza anche laddove prima era stata bandita e si esclude che in corso ci sia una guerra perché gli si cambia nome. In guerra l’obiettivo è di distruggere con la forza le dotazioni avversarie, militari o civili che siano. In questo momento sembra che quelle civili stiano diventando le prime ad essere prese di mira. In guerra non sempre l’obiettivo è la conquista di territori nuovi; talvolta si mira solo ad annientare le capacità belliche avversarie. Da come è condotta, l’obiettivo di quella in corso sembra che sia territoriale anche a costo di conquistare un territorio distrutto, con tutto da ricostruire. Non solo, dunque, è la guerra tradizionale, ma nella forma legata alle tradizioni più truci .
Cercare di collegarla alla globalizzazione, come qualcuno tenta di fare, sembra improprio. La globalizzazione non consente effetti distruttivi, ma solo di non collaborare alla realizzazione di certi obiettivi: non si distrugge quello che c’è, ma si impedisce di produrre utilità ulteriori. La globalizzazione ha solo agevolato l’intervento coordinato a favore dì chi, invaso, ne ha bisogno. Aiutare chi è in guerra non significa essere in guerra a sua volta, sempre che la guerra sia intesa in senso tradizionale.
Nella fase tecnologica attuale chi è più avanti viene a trovarsi in posizione privilegiata, peraltro soggetta al pericolo che vengano a mancare alcuni beni strumentali sui quali fino ad allora si è fatto affidamento. La globalizzazione diventa così una causa di vulnerabilità dei sistemi democratici, non disposti a ricorrere alla forza.
La guerra, nella sua nozione che si sta proponendo, diventa uno strumento al quale si ricorre quando non si è competitivi quanto sarebbe necessario sul piano della globalizzazione. E non è un caso che si dimostri prudente la Cina, anche se dal punto di vista militare è superiore alla Russia. Anche la Cina conferma, peraltro, che, per cercare di salvare l’immagine, si forzano i principi. Secondo le sue ultime tesi solo oggi ad Hong Kong si è finito di costruire un sistema veramente democratico iniziato nel 1992. Prima non ci sarebbe stato, anche se non è detto il perché.
Da qualcuno è stato fatto rilevare che la Russia è ricorsa alla guerra per riconquistare territori e non per ragioni di competitività economica. L’Unione Sovietica si è sciolta per sua decisione ed oggi la Russia dimostra di voler rimediare ad un errore che essa stessa ha compiuto e, non avendo altri mezzi, ricorre alla guerra. Ma non è detto che sarebbe stato lo stesso se fosse stata competitiva sul piano economico e tecnologico. Non sembra un caso che l’iniziativa sia stata di chi, esperto dei mezzi a cui hanno sempre ricorso i servizi segreti, ha dimostrato l’interesse prevalente alla evoluzione tecnologica prima di tutto negli armamenti. Alle armi, dunque, almeno nelle forme più incisive, sta ricorrendo chi, rimasto in dietro sul piano tecnologico, intende in quel modo reintegrare la sua posizione internazionale.
Ne dovrebbe tenere conto anche l’Unione Europea. Gli Stati autoritari centralizzati possono intervenire con una rapidità maggiore dei Paesi che, per essere democratici, debbono seguire procedimenti complessi, perchè più garantiti. Con i mezzi oggi a disposizione che, soprattutto nei settori più sensibili, consentono di abbreviare i tempi di intervento, si dovrebbe cominciare almeno a pensare all’aggiornamento dei procedimenti democratici. Tra rapidità di decisione e democraticità dei procedimenti sempre più spesso si riscontra qualche incompatibilità. Nel fare la scelta si dovrebbe tenere conto che nei sistemi democratici una garanzia sta nel fatto che, chi decide, sarà soggetto a breve al giudizio dell’elettorato del cui orientamento, pertanto, dovrà tenere conto. Probabilmente anche per questo gli Stati autoritari continuano a denunciare la debolezza di sistemi democratici. Che, per giustificare questa loro posizione, ricorrano a nozioni stravolte di diritto internazionale sta a significare che sono consapevoli che non si stanno attenendo a quelli tradizionali, generalmente accettate.