“Tassi di classe”: la lotta della BCE all’inflazione

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di Andrea Guazzarotti

Dopo la FED, finalmente anche la BCE ha rotto gli indugi e ha alzato il tasso d’interesse di ben 75 punti base. Non sappiamo se si tratta della ripetizione dell’errore fatale di Trichet nel 2011 (rialzare i tassi, dinanzi a chiari segnali di recessione in Europa, per placare le ansie tedesche sull’inflazione: Mody). Quello che è certo è che non si tratta di una politica monetaria favorevole ai lavoratori. Per questi ultimi, continua a vigere l’anatema della scala mobile (Brancaccio), oggi tanto più ideologico quanto più risulta chiaro che non solo l’inflazione attuale non ha nulla a che fare con la spirale salari-prezzi, ma che il settore manifatturiero è da anni stagnante in Europa ed è destinato a rimanere tale. Le ragioni per cui i prezzi crescono non hanno nulla a che fare con quel tipo di inflazione ciclica che le autorità monetarie sarebbero chiamate a combattere (Flassbeck). Dunque, intervenire con aumenti brutali del costo del denaro renderà la recessione in corso ancora più intensa, con conseguente aumento della disoccupazione (Cesaratto).

La mossa delle Banche centrali sembra ripercorrere i sentieri della stretta monetaria del 1979, voluta dalla FED di Volcker. Ma non bisogna «(c)onsiderare gli anni settanta come un insieme di dati da cui trarre insegnamenti tecnici»: scambieremmo «per un esperimento in laboratorio quella che, in realtà, è stata una guerra di potere (…) che si concluse con la vittoria decisiva delle forze della disinflazione» (Tooze). In quella guerra, le banche centrali “indipendenti” «erano solo il prolungamento della politica conservatrice con mezzi tecnocratici e non democratici» (ibidem).

E, difatti, ci ricorda il giornale della Confindustria (Longo) che anche nella lotta all’inflazione – come in guerra – c’è chi vince e c’è chi perde: tra i vincitori stanno sicuramente le banche private, la cui redditività è finalmente tornata a crescere. E chi se ne importa se ciò accade al prezzo di strangolare le giovani coppie con un mutuo a tasso variabile!

Sarebbe ora di raccogliere questi segnali altamente contraddittori, se non proprio autodistruttivi per una comunità già segnata da inesorabile declino demografico, per provare a invertire il flusso dei pensieri condizionati (“l’inflazione è una tassa che colpisce tutti indiscriminatamente!”) e magari osare reclamare una banca pubblica e un serio programma di “socializzazione degli investimenti” in grado di rendere lo Stato (il settore pubblico) un datore di lavoro di ultima istanza (Minsky). Invece i nostri rappresentanti sembrano al massimo disposti a ulteriori elargizioni di una tantum per calmierare i costi energetici delle famiglie, o peggio a promettere ecumeniche flat tax sul reddito dei lavoratori. Insomma: la riedizione di quel “keynesismo bastardo” che si diffuse negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (Minsky).

Il dato più sconfortante, però, è il silenzio del sindacato. Segno che, ormai, come per il voto popolare disertato dai giovani, anche nel sindacato a pesare sono i pensionati, cui interessa più la remunerazione dei propri depositi bancari che la lotta alla recessione e alla disoccupazione. I nostri Padri costituenti si girerebbero nella tomba a sapere che la Repubblica non è più fondata sul lavoro ma sulla rendita e che l’art. 47 della Costituzione sulla tutela del risparmio ha ormai oscurato l’obbligo di perseguire il pieno impiego dell’art. 4.

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