“Legislatura costituente”: uso e abuso di una formula vuota

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di Federica Fabrizzi

8 settembre 2019, Giuseppe Conte alla Camera dei deputati: “Il mio impegno sarà massimo affinché questa sia una legislatura costituente”; 4 luglio 2018, Fraccaro (M5S) su Twitter: “Sarà una legislatura costituente con l’obiettivo di favorire la partecipazione come mai prima d’ora”; 7 settembre 2017, Giorgetti: “Sì a una legislatura Costituente, no a un governo di larghe intese insieme a chi vuol seguire i diktat dell’Europa”; Matteo Renzi alla Direzione Pd, 13 marzo 2014: “Siamo di fronte a un bivio: procedere con la chiusura della legislatura, attraverso il voto anticipato, o trasformarla in una legislatura costituente”; “Quella che si apre a marzo deve essere una legislatura costituente”, Enrico Letta, Europa, 12 febbraio 2013; Mario Monti: “La prossima dovrà essere una legislatura costituente e per questo occorre una larga maggioranza più ampia di quella che servirà per governare”, La Stampa, 02 gennaio 2013; “La prossima legislatura sarà costituente”, Pierluigi Bersani a Il Sole 24h, 30 ottobre 2012; “Auspico che si cominci a realizzare una legislatura costituente” Renato Schifani (allora Presidente del Senato), 30 luglio 2009; “Ci sono le condizioni per una legislatura costituente”, Gianfranco Fini (allora Presidente della Camera), 29 luglio 2008.

A giudicare da queste dichiarazioni, che corrono trasversali da destra a sinistra, le ultime 3 legislature avrebbero dovuto essere tutte “legislature costituenti” e non ci sono ragioni per ritenere che anche la XIX, che si aprirà ad ottobre, non possa e debba essere targata come tale.

A chi ha un minimo di dimestichezza con la materia, il refrain produce non poca insofferenza. Come ben sanno gli addetti ai lavori, infatti, la locuzione “legislatura costituente” di per sé non vuol dire nulla; o meglio, nell’accezione giornalistica e massmediatica con cui viene utilizzata, essa fa riferimento ad una generica attività di riforme istituzionali, peraltro non necessariamente di rango costituzionale, alle quali il Parlamento dovrebbe porre mano. Questo è però un significato non solo parziale, ma anche inesatto.

L’aggettivo chiama in causa evidentemente il “potere costituente”, concetto che sottende ben altra pregnanza e ben altra incisività: senza poter qui richiamare le teorie di filosofia del diritto o le principali interpretazioni giuspubblicistiche (a partire da Costantino Mortati), è sufficiente ricordare come il potere costituente si collochi sempre al di là della Costituzione, in quanto potere extralegale, posto al di fuori dell’ordinamento che intende sostituire. Nei processi di instaurazione di nuovi ordinamenti ed in particolare di quelli democratici deve esservi una forza o un gruppo di forze trainanti che non soltanto operi la decisione fondamentale nel momento della rottura, ma che la implementi nella fase di redazione del testo costituzionale e che la sostenga nel tempo per la sua tendenziale applicazione (F. Lanchester, Mortati e la “legislatura costituente”, in Nomos, n. 2/2016).

Ora, le modalità di attivazione e di esercizio del potere costituente possono essere molteplici e la comparazione offre un ampio catalogo che spazia dall’elezione di un’Assemblea costituente cui può far seguito un referendum popolare confermativo (Costituzione francese del 1793, del 1795 e del 1946 e spagnola del 1978) oppure i cui lavori non necessitano di ratifica popolare (come è il caso italiano), alla formazione di un’apposita Assemblea formata, ad esempio, dai delegati degli Stati membri di una federazione, con il compito di redigere un testo, poi sottoposto a ratifica da parte degli Stati membri, come il caso della Costituzione statunitense del 1787 o della Legge fondamentale tedesca del 1949.

A prescindere dalle diverse procedure, quel che contraddistingue il momento costituente è l’instaurazione di un nuovo ordinamento con la redazione di un nuovo testo costituzionale, dove le caratteristiche fondamentali del fenomeno sono da rintracciarsi nell’elemento della rottura – anche traumatica – rispetto al regime precedente, in quello della fondazione di un nuovo “patto” tra associati, la cui stesura viene affidata a rappresentanti appositamente scelti.

Ciò posto, ha senso parlare di “legislatura costituente”, considerato anche i risultati pressoché nulli (eccezion fatta per la riduzione del numero dei parlamentari, sulla quale torneremo) raggiunti negli ultimi decenni? Evidentemente non ha senso: perché non siamo al cospetto di nessuna rottura traumatica rispetto al periodo precedente, perché non si tratta di istituire o di fondare un nuovo ordinamento e perché i rappresentati che siederanno in Parlamento non saranno stati scelti a questo scopo.

Fosse solo questo, tuttavia, saremmo semplicemente al cospetto di una delle tante sgrammaticature istituzionali, sulla quale si potrebbe anche faticosamente soprassedere.

Il problema è che, in realtà, questo richiamo continuo alla legislatura costituente solleva questioni diverse e più profonde. In primo luogo, finisce con lo svilirne il valore: una sorta di “al lupo al lupo” al contrario, per cui a fronte dell’evocazione alta che il termine “costituente” porta con sé, ci si riduce a proposte di riforma della seconda parte della Carta costituzionale più o meno incisive della forma di governo e della organizzazione degli organi costituzionali che puntualmente, peraltro, restano lettera morta. E – sia chiaro – non si intende con questo dire che gli interventi di riforma sull’assetto dei poteri sia poca cosa: le modifiche, anche puntuali e apparentemente “circoscritte” possono avere conseguenze di sistema molto significative. Lo si è visto con la riduzione del numero dei parlamentari, così come con la riforma dell’art. 81 Cost. sul principio del pareggio di bilancio ed i vincoli europei. Incisive e cariche di conseguenze sì, ma che non hanno stravolto l’impianto del patto costituzionale.

Allo stesso modo si può discutere sulla latitudine che l’intervento riformatore può e deve avere (interventi chirurgici? Interventi organici?), ma non già mettendo in discussione la legittimità costituzionale dei secondi rispetto ai primi, dal momento che la presunta distinzione tra “riforme costituzionali” (di sistema) e “revisioni costituzionali” (puntuali) non trova in realtà fondamento (E. Catelani, Riforme costituzionali: procedere in modo organico o puntuale?, in federalismi.it, 15 aprile 2020).

Occorre allora porsi una domanda: quando vengono richiamati tutti i difetti, taluni presunti, di cui il nostro sistema istituzionale soffre (un ingiustificabile bicameralismo perfetto, scarsa stabilità degli esecutivi, emarginazione del Parlamento, mancanza di raccordi tra centro e periferia…), vengono elencate questioni per risolvere le quali è necessario un nuovo patto costituente tra consociati? In altri termini, cambiare la forma di governo significa stravolgere il patto costituente?

La risposta, a parere di chi scrive, è no. Qualsiasi forma di governo che rispetti i principi supremi, a partire dagli artt. 1 e 2 Cost. e il sistema di pesi e contrappesi, rientra nel quadro delle soluzioni possibili. E d’altra parte, la stessa esistenza di una procedura – aggravata, certo – per modificare il testo costituzionale sta a significare che quel testo non è un monolite intoccabile e che è possibile revisionarlo/riformarlo.

Il punto è allora che non il potere costituente, ma il potere costituito dovrebbe avere la capacità, la maturità e la forza di autoregolarsi, di correggere eventuali storture emerse nel corso degli anni, di adeguare, in sostanza, la macchina istituzionale ai cambiamenti endogeni ed esogeni intervenuti nel frattempo.

Per usare un paragone assai frequente, non si tratta di cambiare automobile, si tratta di fare la revisione a quella che abbiamo. E per farlo è “sufficiente” il potere di revisione costituzionale, appunto, e non occorre invocare alcun potere costituente.

E allora, perché insistere sulla narrazione della “legislatura costituente”?

Una spiegazione può essere rintracciata nella messa in atto di una sorta di tentativo di “spostare la responsabilità”: sembra quasi che si voglia far credere che la necessità delle riforme è talmente pressante e condivisa che non si potrà non farle. E se non si troverà un accordo, si potrà sempre dare la colpa a qualcun altro. Senza considerare, tuttavia, che una classe politica matura e consapevole dovrebbe ben sapere che le soluzioni tecniche possono essere le più diverse e occorre confrontarsi su di esse e trovare un compromesso. Il principale pericolo nel quale possono incappare le riforme è quello di essere (o essere percepite) come riforme “di parte”: Renzi docet. E questo perché, come già Mortati sottolineava ,anche la più “scaltrita capacità tecnica” non può supplire all’assenza di quella che definiva la “coscienza costituente” che, appunto, non può essere “di parte”.

Questo peraltro non significa, a sua volta, che l’impulso alla modifica non possa venire da quella che, in quel momento contingente, è la maggioranza di governo.  

L’eventuale coinvolgimento del popolo previsto dall’art. 138 Cost. certamente rappresenta un baluardo rispetto a decisioni improvvide che dovessero essere assunte dalle Camere con la sola maggioranza assoluta, ma non può essere considerata garanzia di “qualità” delle riforme: l’esempio della riduzione del numero dei Parlamentari è, di nuovo, in questo senso emblematico.

Al contempo, non deve neppure eccessivamente spaventare l’idea che, a causa magari di una inusitata esplosione di consenso o di tecnicismi elettorali o di accordi politici, una maggioranza dei 2/3 ponga mano alla Costituzione e questo per la semplice ragione che, nel sistema di checks and balances che caratterizza il nostro stato di diritto, la Corte costituzionale ben potrebbe intervenire a censurare violazioni dei principi supremi sui quali si fonda il nostro patto costituente: è quanto fissato nella sent. 1146/88, secondo cui “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali […], pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, [perché] appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”.

Ed è proprio quest’ultima considerazione che dovrebbe eventualmente spingere quelle forze politiche che dovessero trovarsi nella condizione di poter mettere mano alla Carta a cercare comunque una strada condivisa: il potere di revisione costituzionale è anch’esso un potere costituito e, quindi, è un potere vincolato a restare all’interno dell’ordine “legale” proprio della Costituzione originaria, che la Corte costituzionale è chiamata a salvaguardare. E’ al supremo organo di garanzia che, in assenza di elementi testuali certi per identificare tali principi costituzionali supremi, è rimessa la loro individuazione, che pure scaturisce da una giurisprudenza pluridecennale a tutela della sovranità popolare, dell’unità e indivisibilità della Repubblica, della laicità dello Stato, dell’unità della giurisdizione costituzionale, del diritto alla tutela giurisdizionale in ogni stato e grado di giudizio, dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, dei diritti inviolabili dell’uomo e, in particolare, delle libertà personale, domiciliare, di corrispondenza.

Ecco perché invocare da un lato improbabili “legislature costituenti” e creare dall’altro allarme attorno alla possibilità di modifiche degli assetti tra parlamento e governo, non solo è inutile, ma è anche dannoso perché distoglie l’attenzione dal rischio vero: quale che sia la composizione della prossima legislatura – come di qualsiasi legislatura! – occorre vigilare affinché siano proprio i meccanismi di checks and balances a non essere messi in discussione, a partire dalla composizione della Corte costituzionale. Tutto il resto fa parte del gioco democratico e subisce, dunque, tutti i pregi (ed i difetti) che questo comporta.

Postilla: La strada, invocata in questi ultimissimi giorni, della commissione bicamerale per le riforme non esula da quanto scritto sopra. Anche a non voler richiamare i precedenti italiani (Commissione Bozzi, Commissione De Mita-Iotti, Commissione D’Alema), l’esempio recentissimo del Cile dovrebbe ammonire circa il fatto che ”regole adeguate  rappresentano  soltanto  un  punto  di  partenza,  che deve trovare, per prosperare, una cultura politica adeguata e soprattutto una vera e propria, leale, volontà di costituzione (richiamando il Wille zur Verfassung di Konrad Hesse) da parte di tutti gli attori” (T. Groppi, Il Cile da un “plebiscito” all’altro. Il rechazo del nuovo testo costituzionale nel referendum del 4 settembre 2022, visto dall’Italia, in federalismi.it, n. 23/2022). Anche a voler cercare bene, il clima sociale e politico italiano non pare presentare al momento queste caratteristiche.

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