Concessioni balneari: stessa spiaggia stesso mare?

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di Giuseppe Tropea

Vorrei partire prima di tutto dalla quantificazione del fenomeno.

L’Italia possiede circa 7600 chilometri di coste naturali, cui si affiancano altri 700 chilometri di coste artificiali che sono, peraltro, in costante aumento a causa dei fenomeni di erosione e di alterazione della qualità ambientale dei litorali nonché all’innalzamento del livello del mare.

Sui litorali italiani insistono circa 21.500 concessioni di spiaggia che occupano, orientativamente, 4.000 chilometri di costa e comportano la presenza di strutture ogni 400 metri.

1. Le frizioni con l’UE: il regime giuridico tradizionale delle coste e del loro affidamento a terzi. Il disinteresse dell’UE in tema di beni pubblici ma, al contempo, la liberalizzazione delle attività economiche disposta dalla cd. direttiva Bolkestein.

Alla direttiva UE concessioni del 2014 interessano soltanto i casi in cui la p.a. acquisisce lavori o servizi, elemento che rappresenta un importante denominatore comune tra le concessioni (di lavori e servizi) e gli appalti. Di contro la direttiva, e il successivo Codice dei contratti del 2016, non intende occuparsi delle ipotesi in cui le p.a. riconoscano ad un soggetto il diritto di gestire un bene senza che da tale gestione le stesse si attendano la realizzazione di opere o l’erogazione di servizi pubblici.

Il passo successivo nella disciplina delle concessioni di beni è rappresentato dalla direttiva 2006/123/CE, relativa ai «servizi nel mercato interno» (cd. direttiva Bolkestein). La direttiva Bolkestein si proponeva come scopo quello di garantire la piena effettività ai principi di libertà di stabilimento dei prestatori di servizi e di libera circolazione di questi ultimi.

Sulla scorta dell’art. 12 della direttiva Bolkestein:

«Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento»;

«Nei casi di cui al paragrafo 1 l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami»;

«Fatti salvi il paragrafo 1 e gli articoli 9 e 10, gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario».

Bisogna dire che taluni hanno espresso dubbi sull’applicabilità della direttiva Bolkestein al tema in questione, direttiva che formalmente non si riferisce ai beni ma alla libertà di stabilimento e di circolazione. Tuttavia, questa tesi è stata superata dalla giurisprudenza nazionale ed europea, che ritiene ormai pacificamente applicabile la direttiva Bolkestein sulla base di un’interpretazione funzionalistica e sostanzialistica.

Un gustoso aneddoto sul punto: il sig. Bolkenstein, invitato ad un convegno delle donne titolari di stabilimenti balneari, fa una dichiarazione breve e lapidaria, con grande stupore dell’uditorio: la mia è una direttiva che riguarda la circolazione dei servizi, non l’assegnazione dei beni pubblici.

 

  1. Le riforme degli ultimi anni: i tentativi del legislatore nazionale e regionale per sottrarre l’affidamento del demanio balneare alle procedure competitive che la direttiva Bolkestein sembrerebbe imposte. Il ruolo della Corte costituzionale.

L’art. 12, par. 2, della Bolkestein si scontrava con un istituto prima accettato e diffuso nell’ordinamento italiano: il cd. «principio di insistenza» (art. 37, comma 2, Codice navigazione: «Al fine della tutela dell’ambiente costiero, per il rilascio di nuove concessioni demaniali marittime per attività turistico-ricreative è data preferenza alle richieste che importino attrezzature non fisse e completamente amovibili. È altresì data preferenza alle precedenti concessioni, già rilasciate, in sede di rinnovo rispetto alle nuove istanze».

La Commissione, quindi, ha avviato una procedura di infrazione (n. 2008/4908) nei confronti dell’Italia, lamentando la contrarietà dell’art. 37, comma 2 Codice della Navigazione rispetto al diritto UE (in special modo rispetto alla libertà di stabilimento).

La sua abrogazione non è stata gestita con una organica riforma del sistema di assegnazione dei titoli concessori bensì attraverso una sorta di pericoloso surrogato del defunto diritto di insistenza, surrogato rappresentato da una catena di proroghe e rinnovi disposti per legge, l’ultimo dei quali (quello del 2018) avrebbe dovuto portare un’estensione generalizzata della durata delle concessioni fino al 2033.

Interviene innanzi tutto Corte Cost. n. 180 del 2010 (v. anche Corte cost. n. 118/2018: le Regioni non possono tutelare l’affidamento), occupandosi di una legge delle Regione Emilia-Romagna che attribuiva ai titolari di concessioni demaniali marittime il diritto a una proroga della durata della concessione fino a un massimo di 20 anni. Viene quindi dichiarata l’illegittimità di leggi regionali che avevano previsto, pur se a talune condizioni, la proroga automatica delle concessioni del demanio marittimo a favore del soggetto già titolare, evidenziando come la proroga o il rinnovo automatico, determinando una disparità di trattamento tra operatori economici mediante preclusioni o ostacoli alla gestione dei beni demaniali oggetto di concessione, violino, in generale, i principi del diritto comunitario in tema di libertà di stabilimento e tutela della concorrenza. La disposizione impugnata viola, dunque, la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza.

  1. Le posizioni della giurisprudenza: le posizioni pro-concorrenziali della Corte di giustizia. La giustizia amministrativa nazionale schierata (quasi) unanimemente in favore della disapplicazione delle norme nazionali che prorogano/rinnovano le concessioni in essere. Da ultimo: l’Adunanza Plenaria e la moratoria al dicembre 2023 per lo svolgimento delle gare.

La Corte di Giustizia ha quindi bocciato le proroghe ex lege al 2020 (C.G.U.E., sentenza 14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C/67/15, Promoimpresa srl e a. contro Consorzio dei comuni della Sponda Bresciana del Lago di Garda e del Lago di Idro e a.), in merito al meccanismo di proroga ex lege fino al 2020, poiché il meccanismo costituisce una violazione dei principi di libertà di stabilimento, non discriminazione e tutela della concorrenza ex artt. 49, 56 e 106 T.F.U.E., nonché dell’art. 12 Direttiva Bolkestein (e del correlativo obbligo di svolgimento di una gara per il rilascio di concessioni).

La giurisprudenza amministrativa (v. ad es. Cons. Stato, sez. VI, n. 3412/2018), e alle spalle di questa quella europea, continua a ribadire agli enti pubblici coinvolti nei contenziosi il dovere di disapplicare la proroga/rinnovo di fonte legislativa. Quindi ogni concessionario ha vissuto questi anni, con la consapevolezza che un eventuale contenzioso amministrativo (relativo, ad esempio, ad un diniego amministrativo di rinnovo) lo avrebbe visto soccombente, e quindi esposto al rischio di perdere il titolo.

Si aggiungano a ciò i rischi di tipo penale: alla disapplicazione del titolo concessorio rinnovato, disapplicazione pretesa dal giudice amministrativo, si è talvolta accompagnata l’avvio di indagini, con annesse condanne da parte della cassazione penale, per il reato di occupazione abusiva del bene, condanne ricordiamo a carico di un soggetto che pur deteneva un titolo amministrativo cui la legge attribuiva una scadenza successiva a quella della condanna (v. Cass. penale, sez. III, 9 aprile 2013, n. 33170).

In questo contesto si collocano le Adunane Plenarie nn. 17 e 18 del 2021, nonché la conseguente legge concorrenza per il 2021 (l. n. 118/2022), che hanno rappresentato un autentico shock, fissando lo sbarramento temporale al 31 dicembre 2023.

Non siamo ingenui, tutti – operatori e non – sapevamo di questa situazione di conflittualità con l’UE e la direttiva in particolare, ma nessuno si aspettava che il problema fosse affrontato in modi così bruschi e particolari (ergo: nomopoietici), ossia con la fissazione di un termine di scadenza da parte di un giudice.

  1. Il tentativo “estremo” del milleproroghe. La procedura di infrazione che incombe.

Dopo le Adunanze Plenarie del 2021, c’è stato l’estremo tentativo “di breve periodo”, l’inserimento nel milleproroghe (d.l. n. 198/2022) di una norma che posticipava di un anno, al 2024, il termine scadenza dei titoli concessori.

È stata confermata anche la possibilità di un ulteriore anno di deroga, fino al 31 dicembre 2025, per le amministrazioni comunali che dovessero riscontrare difficoltà oggettive a espletare i bandi a causa di contenziosi o carenza di risorse umane.

Inoltre, in base a un altro emendamento approvato, i Comuni non potranno indire nessun bando di gara per riassegnare le concessioni fino al prossimo 27 luglio, data limite affinché il governo completi la mappatura del demanio marittimo per appurare la quantità di spiagge libere e occupate.

 Tale tentativo è stato fatto fallire prontamente dal Consiglio di Stato con una sentenza del 1° marzo scorso, sez. VI, n., 2192/2023, che in un obiter ne ha preteso la disapplicazione per giudici e amministrazioni.

Ora, è chiaro l’intento politico che ha animato il milleproroghe, ma altrettanto interessanti sono le motivazioni ufficiali di questa tentata proroga:

–             la mappatura delle spiagge, per capire se c’è quel presupposto di scarsità del bene (spiaggia da affidare in concessione) che è esplicitato dalla direttiva Bolkenstein;

–             istituire un tavolo tecnico che si occupasse di fornire una traccia lungo la quale costruire in concreto le procedure di assegnazione e anche di corresponsione degli indennizzi e della premialità agli uscenti.

  1. Il problema del tipo di procedure dovranno essere effettuate per l’affidamento del demanio balneare con gara, e il tema dell’indennizzo per i concessionari uscenti

La legge concorrenza dell’estate del 2022, nel ratificare il contenuto delle Plenarie, ci ha lasciato orfani dei decreti legislativi. Dobbiamo capire come affidare le aree in questione senza riattivare la spirale di conflittualità con giurisprudenza e dall’altro senza rischiare la paralisi della attività economiche e di buona parte del comparto turistico italiano.

Bisogna prima di tutto evitare la retorica semplicistica che vorrebbe nel diritto europeo e nella direttiva Bolkestein la fonte degli obblighi per le amministrazioni comunali di celebrare gare sostanzialmente equivalenti, per struttura e complessità, alle gare per l’affidamento di un appalto.

Ci dovranno essere ovviamente procedure imparziali, ma su questo non ci voleva l’UE, bastava la Costituzione e l’articolo 12 della l. 241/90 e 37 cod. nav.; il paradigma della gara pubblica non è quello obbligato e nemmeno il più opportuno.

Su questo aspetto, ossia sul fatto che il dovere di imparzialità non implica dovere di celebrare gare segnalo la sentenza n. 11664/2022 del Consiglio di Stato: «non c’è monopolio del modello della gara», è necessario che le procedure diano «garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda(no), in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento», tutte garanzie riscontrabili in quella disciplinata dall’art. 37 cod. nav. poc’anzi richiamato.

Anche nell’art. 4 della legge delega sulla concorrenza, non a caso, fra i criteri relativi alla gare si parla di “adeguata considerazione degli investimenti, del valore aziendale dell’impresa e dei beni materiali e immateriali, della professionalità acquisita anche da parte di imprese titolari di strutture turistico-ricettive che gestiscono concessioni demaniali, nonché’ valorizzazione di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori, della protezione dell’ambiente e della salvaguardia del patrimonio culturale”.

Come secondo punto, oltre a questo relativo al superamento del monopolio culturale della gara d’appalto, sottolineerei anche il fatto che le sentenze europee e nazionali con cui ci confrontiamo non vietano la proroga in sé, ma la proroga ex lege, in quanto tale disposta in modo generalizzato e non in funzione delle caratteristiche concrete della fattispecie considerata.

Questo aspetto non è molto valorizzato nel dibattito, sempre per via di un cortocircuito assimilazione scorretta con il mondo degli appalti. La proroga non è vietata se assume la forma di un motivato e non discriminatorio provvedimento individuale. Ecco perché da molti si richiama l’esigenza della mappatura delle coste: non è detto che vi sia sempre e in ogni caso scarsità delle risorse, che è il presupposto dell’affidamento con gara.

Oppure, sempre nell’ottica della motivazione della proroga individuale, nel caso di concessioni nell’ambito delle quali sono state realizzate opere o attività di utilità sociale e inclusive (che hanno comportato peculiari investimenti), siamo sicuri che la proroga non sia uno strumento legittimo? Tante domande, ma l’unica certezza è che ad essere sicuramente vietata è la proroga generalizzata – legislativa – ma la stessa perentorietà non mi sembra che colpisca le ipotesi di proroghe individuali, discrezionali e ovviamente motivate con la massima prudenza.

Quanto al tema dell’indennizzo, di esso parlano sia le Plenarie del 2021, a tutela dell’affidamento dell’imprenditore uscente che ha effettuato investimenti, sia la legge concorrenza, prescrivendo che il legislatore delegato debba definire criteri uniformi per la quantificazione dell’indennizzo da riconoscere al concessionario uscente, posto a carico del concessionario subentrante.

Tuttavia, ho alcuni dubbi sulla via di far pagare all’entrante l’indennizzo a favore dell’uscente. Ce lo ha spiegato la Corte costituzionale, insistendo su due ragioni: sia perché non è materia di legislazione regionale (concorrenza) ma di legislazione statale, sia perché, più in generale, detta somma non può gravare su chi legittimamente acquisisce un titolo, e con esso un’obbligazione pecuniaria la cui fonte deriva dal comportamento poco responsabile e coerente del legislatore nazionale. Per non parlare del fatto che evidentemente l’indennizzo rappresenta una barriera in entrata nel mercato, in contrasto con il tanto decantato principio di concorrenza.

Interessante anche la questione del canone concessorio, cui forse può riconnettersi anche la questione dei criteri di assegnazione della concessione.

Nonostante a livello di fatturato le imprese balneari generino annualmente un volume d’affari superiore ai 2 miliardi di euro (come, ad esempio, avvenuto nel 2016), le entrate nelle casse statali ammontano ad appena 103 milioni di euro, peraltro con uno scarto amplissimo tra accertato e riscosso.

E, ancora, nel 2019, su un totale di 29.689 concessioni demaniali marittime, 21.581 erano soggette ad un canone inferiore a 2.500 euro per un anno. Inoltre, per lo stesso anno, l’ammontare complessivo dei canoni concessori è stato pari a 115 milioni di euro.

Sul punto, sempre l’art. 4 della legge concorrenza prevede la definizione di criteri uniformi per la quantificazione di canoni annui concessori che tengano conto del pregio naturale e dell’effettiva redditività delle aree demaniali da affidare in concessione, nonché dell’utilizzo di tali aree per attività sportive, ricreative, sociali e legate alle tradizioni locali, svolte in forma singola o associata senza scopo di lucro, ovvero per finalità di interesse pubblico.

Sarebbe interessante immaginare la possibilità di concorrere anche sul canone concessorio come base d’asta, favorendo in tal modo la concorrenza e aggredendo il grave problema della sperequazione tra volume d’affari del settore ed entrate derivanti dai canoni concessori.

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