Sulla cittadinanza onoraria e sull’irresistibile forza sgusciante dell’atto politico

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di Fulvio Cortese

La Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sull’ambigua e discussa categoria degli atti politici. Lo ha fatto in un caso singolare, che da tempo richiama l’attenzione dei media. Si tratta della curiosa vicenda della concessione della cittadinanza onoraria all’ex Presidente del Brasile Jair Bolsonaro da parte del Comune di Anguillara Veneta: un atto già controverso alla sua origine e nuovamente contestato anche negli ultimi mesi. Tanto più dopo l’assalto al Parlamento brasiliano nel gennaio di quest’anno, episodio che ha scatenato una serie di voci – presto smentite dalla Farnesina – sul fatto che Bolsonaro avrebbe richiesto la cittadinanza italiana tout court.

La concessione di quella onoraria, ad ogni modo, era stata riconosciuta dal Consiglio comunale nell’ottobre del 2021, su proposta del sindaco, “per l’esemplare affezione ed interessamento del Presidente del Brasile verso le sue origini e verso tutta la comunità di Anguillara Veneta, a riconoscimento e rispetto dei suoi avi partiti nel 1888 proprio da Anguillara Veneta” (questa la motivazione, ripresa dalla Cassazione).

Il provvedimento in questione, tuttavia, è stato presto oggetto di un giudizio civile, attivato da alcuni cittadini del Comune, che hanno promosso l’azione popolare prevista dall’art. 9 del TU degli enti locali. Essi hanno dichiarato, in particolare, di agire a difesa dell’identità personale e dell’immagine del Comune: beni che, in ipotesi, sarebbero stati violati dall’abbinamento al Comune medesimo della figura dell’ex Presidente brasiliano, quale noto portavoce di idee e dichiarazioni assai “forti” (e discriminatorie) su diritti umani, diritti civili, parità di genere e orientamenti sessuali.

Nel corso del giudizio uno degli attori e la Federazione Europa Verde-Verdi (che nel frattempo era intervenuta nella causa) hanno proposto regolamento preventivo di giurisdizione, rivolgendosi, così, alla Cassazione, allo scopo di accertare la possibilità del giudice ordinario di pronunciarsi ovvero, all’opposto, la sussistenza della giurisdizione amministrativa. L’iniziativa è stata motivata dalla circostanza che il Comune di Anguillara – in ciò affiancato anche dal sindaco e da alcuni consiglieri comunali, costituitisi personalmente – aveva sostenuto, nella sua memoria, che la concessione della cittadinanza onoraria non fosse in alcun modo sindacabile, perché atto politico (in base a quanto statuito dall’art. 7 del Codice del processo amministrativo).

Di fronte a queste argomentazioni, i giudici di legittimità si sono espressi con una decisione che in parte può salutarsi con favore.

La Corte, innanzitutto, rigetta la tesi che la concessione della cittadinanza onoraria possa dirsi prodotto dell’esercizio di un potere politico, come tale sottratto a qualunque forma di controllo giurisdizionale.

La Cassazione, nello specifico, ricorda che l’individuazione di questo genere di atti è doverosamente soggetta a un criterio interpretativo del tutto restrittivo (pena, del resto, la violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione); elenca alcune ipotesi, assai conosciute (e pur dibattute), di atti politici, distinguendoli (seguendo un orientamento ugualmente consolidato) dai cc.dd. atti di alta amministrazione, che sono, viceversa, sindacabili dal giudice; evidenzia che la concessione della cittadinanza onoraria “non è un atto riconducibile alle supreme scelte in materia di costituzione, salvaguardia e funzionamento dei pubblici poteri”.

Il punto è, secondo la Cassazione, che la concessione della cittadinanza onoraria non sarebbe comunque sindacabile da alcun giudice, ma per un’altra ragione. Ossia per il fatto che ci troveremmo di fronte ad un’attività dal “valore meramente simbolico”, che non è soggetta ad una specifica disciplina legislativa capace di vincolarne l’esercizio, non radica alcuna conseguenza giuridica in capo al suo destinatario e, allo stesso modo, neppure è idonea a ledere interessi giuridici di altri soggetti. In una circostanza come questa – continua la Corte – i “meccanismi di controllo” sono affidati alla “discussione libera e democratica”.

Secondo la Corte, inoltre, non sarebbe possibile dolersi di una simile attività simbolica neanche per mezzo del rimedio peculiare che i cittadini hanno esercitato nel caso di specie, perché l’azione popolare disciplinata dal TU degli enti locali ha carattere “sostitutivo” e non “correttivo”: in altri termini, ai cittadini elettori del Comune non è dato utilizzare lo strumento previsto per far valere interessi del Comune contro le determinazioni degli organi di governo del Comune stesso, pena “un evidente vulnus del principio democratico”.

Se questo secondo passaggio può considerarsi corretto, qualche perplessità deve sollevarsi con riguardo al primo.

Da un lato perché è la stessa Cassazione a dimostrare di non esserne del tutto convinta.

Tanto che – con una tecnica che ricorda, sia pure alla lontana, un espediente decisionale (o una pruderie) che si è avuto modo di verificare anche in altri casi (v. sent. n. 1/2013 della Corte costituzionale) – l’ordinanza qui commentata conclude precisando che un’esigenza concreta di giustiziabilità potrebbe riemergere “in casi estremi”, come sarebbe, “ad esempio”, quello in cui la cittadinanza onoraria venisse conferita “ad una persona assolutamente indegna perché condannata per gravi crimini”.

In una situazione di questo genere, la Cassazione ritiene che l’accesso alla giurisdizione, con intervento del giudice comune, dovrebbe garantirsi, allo scopo di “sanzionare le conseguenze di un fatto illecito, perché offensivo di quel comune sentimento di giustizia rappresentato dal tessuto di principi attraverso i quali si esprimono, secondo la Costituzione, le condizioni della convivenza, in relazione ai valori della persona e delle libertà democratiche”.

Ciò vorrebbe dire, dunque, e tirando le somme, che non è del tutto vero che la concessione della cittadinanza onoraria non è sindacabile, visto che da parte del cittadino residente nel Comune la sindacabilità si potrebbe recuperare per avere ristoro (in via risarcitoria, sembra di capire) di fronte all’offesa che egli riceverebbe da un atto che, pur simbolico, colpirebbe al cuore i simboli della cittadinanza costituzionale.

Se così stanno le cose, però, la pronuncia entra un po’ in contraddizione con sé stessa, giacché: 1) non è vero che non esisterebbe, in tema di cittadinanza onoraria, un “canone di legalità” effettivamente invocabile, come invece la Cassazione sembra affermare a più riprese; 2) esisterebbe, anzi, se non un’azione popolare innominata, una sorta di legittimazione straordinaria altrettanto innominata, e come tale sui generis, che per l’appunto renderebbe accessibile ai cittadini la possibilità di far valere quel “canone”.

Proseguendo in questa direzione, tuttavia, si potrebbe andare oltre. Si potrebbe, cioè, constatare che il “canone di legalità” che la Corte evoca solo come extrema ratio non è altro che un modo giuridicamente afferrabile per attribuire un senso non puramente retorico alle disposizioni regolamentari approvate dal Comune circa la procedura e le motivazioni da seguirsi in tema di cittadinanza onoraria (disposizioni che anche la Cassazione riprende testualmente e che ben possono integrare il “canone di legalità” tanto enfatizzato).

Se la cittadinanza onoraria si può concedere, in buona sostanza, allorché vi sia qualcuno che ha procurato “lustro” alla comunità locale (così si esprime la clausola di chiusura delle menzionate norme secondarie), si può senz’altro concordare sul fatto che quel “lustro” non vi potrà essere nei casi di conclamata, assoluta indegnità, quale quello citato anche dalla motivazione dell’ordinanza. E pertanto non si potrebbe proprio dire – come invece sostiene la Cassazione – che la discrezionalità del Consiglio comunale non presenti alcun limite.

Ma a chi compete, allora, agire in giudizio? E dove lo si può fare?

Qui veniamo al punctum dolens della vicenda esaminata: alla circostanza, cioè, che il giudice di legittimità, nonostante la radicale, formale negazione che si tratti di un atto politico, tende a recuperare per altra via la presupposizione – tanto sgusciante quanto irresistibile – sulla esclusiva politicità della fattispecie, salvo percepire che una valvola di sicurezza dev’esserci. Una soluzione, all’evidenza, poco cristallina, che non si distingue per geometrica persuasività e che, piuttosto, offre la sensazione, per un verso, di suggerire cripticamente un intervento da parte di una qualche fonte primaria, per altro verso, di voler dare un’indicazione materialmente pedagogica (della cittadinanza onoraria non si può abusare) ai potenziali protagonisti di conflitti futuri.

Al lettore attento, d’altra parte, non sfuggirà che la Cassazione tende a indugiare sulla politicità dell’atto anche expressis verbis, visto che – nella preoccupazione (comprensibile) che, in questi frangenti, aprire uno spiraglio alla giustiziabilità significhi riempire le aule dei tribunali di controversie puramente ideali e astratte, oltre che a ricorrenti strumentalizzazioni partitiche – giustifica il rilievo sulla presunta assenza di un canone positivo di “legalità” avvalendosi di un rinvio ad un precedente (la sent. n. 52/2016 della Corte costituzionale) che essa stessa, poche righe sopra, ha annoverato nell’elenco delle poche, acclarate ipotesi di atto politico.

Non è per nulla stigmatizzabile l’intenzione della Corte di sottrarre alla giurisdizione le battaglie astrattamente ideali e civili, o (se si preferisce) di opinione, e di enfatizzare, di converso, l’importanza delle sedi pubbliche di discussione, di critica e di confronto, anche acceso (sedi in cui può coltivarsi pacificamente anche l’istanza al ritiro del provvedimento adottato). L’eccessiva giurisdizionalizzazione delle relazioni sociali è uno dei grandi mali dei nostri tempi.

Ciò premesso, sarebbe stato preferibile battere altre strade: o invertire dichiaratamente l’approccio, e affermare da subito – coerentemente con le premesse generali, contrarie all’accertamento della politicità dell’atto – che la cittadinanza onoraria non è sempre un atto meramente simbolico e che, quando il simbolo contraddice radicalmente la sua vocazione, il suo conferimento non è legittimo; o non temere di fare i conti con gli atti politici, svelando che, in casi come questo, la politicità è lo schermo fisiologico della garanzia di una manifestazione di opinione, che in tanto può reggere, ed essere insindacabile, in quanto non travalichi i suoi naturali confini e non si esponga, dunque, all’assunzione formale e pro-attiva, da parte dell’amministrazione come istituzione, di contegni intrinsecamente adesivi nei confronti di dis-valori pubblici normativamente riconosciuti come tali.

È chiaro che, nella prospettiva aperta da entrambe le piste, la Corte avrebbe dovuto spiegare a chi spetti la legittimazione ad agire (a soggetti esponenziali di interessi collettivi, ad esempio?) e in quale sede essa possa essere esercitata (forse dinanzi al giudice amministrativo o sempre di fronte al giudice civile?). Qualche precedente, forse, potrebbe anche invocarsi, ad esempio nella giurisprudenza sulle autorizzazioni e/o sui dinieghi comunali alle affissioni di pubblicità capaci di esprimere messaggi discriminatori. Ma questo è un altro, diverso (e pure sensibilissimo) tema.

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