Equivoci sulla separazione delle carriere

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di Giovanni Di Cosimo

Si torna a parlare di separazione delle carriere dei magistrati. La Commissione affari costituzionali della Camera ha avviato l’esame di quattro proposte di legge costituzionale che prevedono concorsi separati e due consigli superiori per la magistratura requirente e per la magistratura giudicante.

L’’idea è che per realizzare una effettiva separazione delle carriere occorra modificare il testo costituzionale. In realtà, la Corte costituzionale ha da tempo chiarito che la Costituzione «non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni» (sentt. 37/2000 e 58/2022). E infatti la recente legge 71/2022 ha ridotto ancora e drasticamente la possibilità di passare da una funzione all’altra.

Le proposte all’esamedella commissione muovono dal presupposto che la separazione delle carriere sia necessaria per completare il disegno del giusto processo introdotto nel 1999, e per rendere il giudice davvero terzo. Tuttavia, questa tesi non tiene conto che la parità di cui parla l’art. 111 Cost. non richiede riforme ordinamentali ma casomai funzionali. Inoltre, la tesi sottovaluta che la costituzionalizzazione del modello della separazione rischia di condurre al ben diverso risultato di rendere autoreferenziale il corpo dei pubblici ministeri.

Secondo i proponenti, la separazione delle carriere spingerebbe altresì il giudice ad attenersi alla “cultura del limite”, consentendo alla politica di assumere «nuovamente su di sé la responsabilità del governo della società» (relazione alla pdl 23). In realtà, il protagonismo del potere giurisdizionale non dipende dalla carriera unica, ma ha ben altre e complesse cause, a cominciare dalla nota circostanza che da tempo i giudici sono chiamati ad applicare anche il diritto europeo.

Al rapporto con la politica va ricondotto anche il tema della composizione dei consigli superiori. Nel 1990 la commissione Paladin rilevava che aumentare la quota di membri laici del Consiglio superiore della magistratura avrebbe significato «rendere ancor più prevedibile ed agevole – rispetto alla prassi già in atto – la spartizione dei seggi tra i gruppi parlamentari: secondo una logica che colliderebbe con l’obiettivo della ‘spoliticizzazione’».

Oggi la riforma all’esame della commissione va nella direzione opposta, alzando fino alla metà la componente laica dei consigli, che nel CSM è pari a un terzo. Se si optasse per la composizione paritaria fra togati e laici occorrerebbe almeno prevede garanzie assai stringenti in merito alla competenza e all’indipendenza dei membri laici.

Le proposte di revisione costituzionale intervengono infine sull’obbligo dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero previsto dall’art. 112 Cost., aggiungendo che l’obbligo vale «nei casi e nei modi previsti dalla legge». L’aggiunta viene giustificata in base alla considerazione che «non è possibile perseguire tutti i reati, anche in ragione della crescita del penalmente rilevante» (relazione alla pdl 23).

A ciò è facile obiettare che la via più diretta per affrontare il problema passa per il legislatore, che ben potrebbe decidere una significativa depenalizzazione.

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