Non è mai indifferente il modo in cui la sovranità popolare si atteggia in una carta costituzionale e in una legge elettorale. Il modo di manifestarsi della sovranità incide sulla forma di governo e sulla struttura democratica dello Stato.
Ciò riguarda anzitutto la scelta dei membri degli organi legislativi: la legge elettorale potrebbe infatti incentivare un sistema parlamentare di tipo maggioritario o di tipo compromissorio, a seconda del suo carattere più o meno proporzionale o più o meno maggioritario.
È noto che i costituenti, pur scegliendo di non dedicare alcuna disposizione alla legge elettorale (se si eccettuano i principi generali sanciti agli artt. 56, 57 e 58 Cost.), guardassero ad una legge di tipo proporzionale come la più adatta a riflettere la complessità della società italiana.
È altresì noto, però, che gli stessi costituenti, consci dei difetti del parlamentarismo che avevano fiaccato fin lì l’esperienza dell’Italia unitaria, adottarono il 4 settembre 1946 l’ordine del giorno proposto dall’onorevole Perassi, che così recitava: «La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del governo presidenziale, né quello del governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».
Come sappiamo, questo ordine del giorno è rimasto una inattuata petizione di principio.
Fra le manifestazioni più discutibili di un certo parlamentarismo vi è sicuramente quella che la cronaca definisce “ribaltone” (ai tempi di Depretis, Crispi e Giolitti, quando lo stesso linguaggio rimaneva più elevato, si parlava di “trasformismo”). La Costituzione italiana non vieta, però, i ribaltoni. Anzi, la mancanza di un vincolo di mandato e l’interesse della Nazione scelto dall’art. 67 Cost. come parametro esclusivo, legittima rimescolamenti delle maggioranze che sostengono il governo.
Al contempo, possiamo dare per certo che il gran numero di crisi di governo e di cambi di maggioranza che ha caratterizzato l’esperienza repubblicana non abbia giovato al rapporto fra istituzioni e corpo elettorale.
Un possibile accorgimento per evitare quelle che l’ordine del giorno Perassi definiva “degenerazioni del parlamentarismo” è la clausola simul stabunt, simul cadent, in forza della quale la cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio comporta anche lo scioglimento delle Camere e l’indizione di nuove elezioni. Un chiaro deterrente per l’assemblea parlamentare a non far cadere il governo.
Una clausola del genere può avere diverse declinazioni, può lasciare più o meno spazio alla discrezionalità del Capo dello Stato (oggi unico titolare del potere di scioglimento) e, per contro, attribuire più o meno forza al Presidente del Consiglio nell’adozione di una simile decisione. Naturalmente, la maggiore deterrenza si ottiene rimettendo nelle mani del Presidente del Consiglio la titolarità sostanziale del potere di scioglimento, come faceva, ad esempio, la riforma costituzionale del Governo Berlusconi del 2005, poi bocciata dal referendum del 2006.
Quale che sia l’ampiezza della discrezionalità che si voglia attribuire al Presidente del Consiglio nello scioglimento delle Camere, è certo che una sua investitura popolare non sia affatto necessaria.
La riforma costituzionale proposta dal Governo Meloni, invece, prende le mosse proprio dall’elezione diretta a suffragio universale del primo ministro, che diventa il “Presidente eletto”.
Da tale premessa la riforma introduce una incerta clausola simul stabunt, simul cadent, declinandone l’operatività in maniera diversa rispetto all’atto di fiducia originario e rispetto alla fiducia che deve mantenersi nel corso della legislatura.
La norma prevede che qualora il Governo formato dal Presidente eletto non ottenga la fiducia, il Presidente della Repubblica rinnovi l’incarico allo stesso Presidente di tentare la formazione di un altro Governo e che, qualora la fiducia non venga ottenuta nemmeno in questo secondo tentativo, il Capo dello Stato proceda allo scioglimento delle Camere.
In caso di crisi di governo nel corso della legislatura, la riforma prevede, invece, che il Presidente della Repubblica possa conferire l’incarico di formare un nuovo Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare già candidato nelle liste collegate al Presidente eletto, che dovrà mantenersi entro i confini programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ottenne la fiducia originaria. Qualora il Governo così nominato non ottenesse la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procederà nuovamente allo scioglimento delle Camere.
Tralasciamo qui di discutere dell’opportunità di vincolare in tal modo l’azione del Capo dello Stato e dell’effetto paradossale di una norma che attribuisce una leva per forzare il voto di fiducia al Presidente subentrante non eletto, anziché a quello eletto. Quello che ci interessa in questo momento è proprio l’elezione.
Come dicevamo in apertura, non è mai indifferente il modo in cui la sovranità popolare si manifesta in una carta costituzionale.
L’investitura popolare del Presidente del Consiglio si inserirebbe in maniera disomogenea in quello che è un sistema dotato di circolarità perfetta, al quale la sovranità popolare dà l’innesco con il voto per il Parlamento: voto al Parlamento > designazione da parte del Parlamento del Capo dello Stato > incarico e nomina dei ministri da parte del Capo dello Stato > fiducia del Governo così formato in Parlamento e chiusura del cerchio.
La riforma attribuirebbe alla sovranità popolare un altro innesco (l’elezione del Presidente del Consiglio) che però crea disomogeneità nella distribuzione dei poteri e toglie al Capo dello Stato una delle sue prerogative principali: l’individuazione del soggetto che più di altri risulti in grado, in base al voto popolare e alla formazione della maggioranza, di guidare il governo.
Nel voto per il Parlamento trova infatti rappresentanza (certo, più o meno estesa in considerazione del tipo di legge elettorale) l’intero corpo elettorale, mentre nel voto per il Presidente eletto solo parte del corpo elettorale darebbe impulso al processo di formazione dei pubblici poteri. Per meglio dire, mentre nel voto al Parlamento la sovranità viene interamente filtrata e si distribuisce, nel voto per il Presidente eletto troverebbe affermazione netta una parte soltanto della sovranità popolare.
Ebbene, che ragione c’è, se l’obiettivo è quello di inserire una clausola simul stabunt, simul cadent, di mettere in contrasto due manifestazioni di sovranità popolare non omogenee? Culturalmente – e costituzionalmente – un salto non da poco, che appare, però, immotivato. Si tratta infatti di un’investitura popolare che toglie prerogative al Parlamento e al Capo dello Stato, senza attribuirne di nuove al protagonista del cambiamento (che non viene dotato di alcun nuovo potere, perché la stessa prerogativa dello scioglimento rimane nelle mani del capo dello Stato, seppur vincolandone discrezionalità).
Presidente eletto. Ma per fare cosa?
La vignetta è di Altan