La “leggenda” del “danno non significativo” all’ambiente

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di Giorgio Trivi

Sul PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, si ripongono grandi speranze per il futuro dell’Italia. Non mancano discussioni sulla fondatezza o meno di questo ottimismo (si v. per esempio, il recente studio di Viesti, Riuscirà il Pnrr a rilanciare l’Italia?, 2023). Nel contempo, l’ultimo Rapporto sullo stato di implementazione di questo dispositivo di ripresa e resilienza, da poco pubblicato dalla Commissione europea, offre non pochi elementi di comparazione fra Italia e altri paesi beneficiari dei finanziamenti.

Un profilo, tuttavia, permane in ombra nel panorama del dibattito e degli studi italiani in argomento: l’analisi dei modi e delle forme di utilizzo del principio «Do No Significant Harm» (DNSH) da parte degli utilizzatori finali del Piano.

Infatti, come si legge sul portale ufficiale “Italia Domani”, uno dei pilastri portanti del PNRR risiede nel «sostenere interventi che contribuiscano ad attuare l’Accordo di Parigi sul clima e gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, in coerenza con il Green Deal europeo», rispettando il principio DNSH affinché «gli interventi previsti dai PNRR nazionali non arrechino nessun danno significativo all’ambiente».

Il DNSH è disciplinato da due Regolamenti europei del Green Deal: il n. 2020/852 (vincolante le imprese private beneficiarie dei finanziamenti) e il n. 2021/241 (vincolante le amministrazioni erogatrici dei finanziamenti). La sua funzione è di supportare il principio di precauzione, garantendo il perseguimento di sei «obiettivi ambientali», nessuno dei quali, per l’appunto, deve subire un “danno significativo” dagli interventi finanziati. I sei «obiettivi ambientali» sono: mitigazione dei cambiamenti climatici; adattamento ai cambiamenti climatici; uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine; transizione verso l’economia circolare; prevenzione e riduzione dell’inquinamento dell’aria; prevenzione e ripristino della biodiversità.

Come concretamente si realizzi la funzione DNSH, è stato precisato tanto dalla Commissione europea, da ultimo con la Comunicazione dell’11 ottobre 2023, quanto, per l’Italia, dalla Ragioneria Generale dello Stato, con le due Circolari nn. 32/2021 e 33/2022.

La Comunicazione della Commissione è fondamentale su due fronti.

a) Da un lato, essa dichiara e chiarisce che l’applicazione del DNSH non coincide con le normali valutazioni ambientali, di impatto (VIA) o strategiche (VAS), sicché l’ottenimento amministrativo di queste ultime non implica l’assenza di “danni significativi” negli interventi sottostanti. Ne deriva che qualsiasi valutazione ambientale, per quanto formalmente ottemperata, non assurge a prova materiale del DNSH: non dimostra l’assenza di danni. Detto in termini ancora più tecnici, nel PNRR viene scolpita la distinzione giuridica tra “conformità” (formale) e “adeguatezza” (materiale) degli impatti ambientali; una distinzione, in passato quasi sempre sfuggita alla giurisprudenza, soprattutto italiana (cfr., in merito, Geninati Satè, La tutela dell’ambiente come strumento necessario per la protezione dei diritti individuali e il sindacato giurisdizionale sulla sua inadeguatezza, 2019)  

b) In secondo luogo, a corollario della suddetta distinzione, la Commissione ha disegnato il c.d. “albero delle decisioni DNSH”, ovvero il flusso decisorio da seguire per superare appunto la mera conformità formale della valutazione ambientale: qualsiasi intervento risulta materialmente adeguato al DNSH, se e solo se soddisfa contemporaneamente tre requisiti: produrre, con l’attività finanziata, un impatto «nullo o trascurabile» sui sei «obiettivi ambientali»; realizzarne almeno uno al «100%» o «in modo sostanziale»; garantire il monitoraggio intertemporale dell’effettivo conseguimento di quest’ultimo («ex ante, in itinere ed ex post»).

Le due Circolari della Ragioneria Generale confermano il costrutto europeo, puntualizzandolo ulteriormente sul fronte climatico, in quanto ribadiscono che il parametro fondativo del DNSH resta comunque l’Accordo di Parigi sul clima e, con esso, l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura tra 1,5°C-2°C rispetto ai livelli preindustriali. Il che rafforza i contenuti del monitoraggio intertemporale, esigendo che la valutazione intertemporale di adeguatezza venga sempre aggiornata allo scenario di attuazione o meno dell’Accordo di Parigi.

Come si vede, la realizzazione del principio del DNSH è molto complessa. Forse, proprio per questo, il suo ingresso ha visto nascere iniziative di supporto per amministrazioni e imprese sostanzialmente impreparate alla sfida, alcune delle quali promettono addirittura la “certificazione” del DNSH (si v., per esempio, GCerti Italy).

Ma come si sta realizzando in Italia la valutazione di adeguatezza intertemporale del “danno non significativo” rispetto all’Accordo di Parigi?

Per rispondere, si deve tener conto di due indicatori:

– la giurisprudenza amministrativa che si è occupata del principio DNSH;

– la considerazione dello scenario italiano di attuazione dell’Accordo di Parigi, al cui interno collocare il monitoraggio «ex ante, in itinere ed ex post».

La casistica giurisprudenziale non è ancora particolarmente ricca, ma si presenta già deludente. I giudici amministrativi tendono a inquadrare il “danno non significativo” in termini di ulteriore adempimento formale interno alle valutazioni d’impatto ambientale (cfr., tra le ultime, TAR Lazio, Sezione Terza, n. 17241/2023). Così decidendo, essi di fatto dissolvono la distinzione tra conformità formale e adeguatezza materiale, voluta, invece, dalla Commissione europea al fine appunto di non confondere l’autorizzazione amministrativa con la prova materiale del DNSH. Per i giudici italiani, tale prova non sembra risultare indispensabile e comunque non risiederebbe nell’ “albero delle decisioni DNSH” bensì nel mero rispetto del procedimento amministrativo, con l’effetto di rendere un requisito necessario ma non più sufficiente – ottenere e adempiere alla valutazione d’impatto ambientale – prevalente e assorbente rispetto a un requisito essenziale per il conseguimento degli obiettivi climatici di Parigi (verificare l’effettivo perseguimento intertemporale di sei «obiettivi ambientali» nel contesto italiano).

Il quadro giurisprudenziale, ancorché in fieri, si preannuncia gattopardesco: l’introduzione dei “danni non significativi” non cambia nulla.

Il dato, però, è preoccupante e sollecita ulteriori interrogativi, se solo si pone attenzione alle critiche che diverse Istituzioni, compresa la stessa Commissione europea, muovono al contesto italiano di attuazione dell’Accordo di Parigi nella sua proiezione intertemporale. Valgano, in merito, i più recenti riscontri.

A fine anno, il Piano Nazionale di Energia e Clima dello Stato italiano, il documento più importante per realizzare e garantire nel tempo i sei «obiettivi ambientali», è stato bocciato dall’Unione europea, perché non in linea con il Green Deal (si v. il Comunicato UE del 18 dicembre 2023).

Poco prima, Italy for Climate, centro studi della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, aveva avvisato dei ritardi italiani nell’adempimento dell’Accordo di Parigi, pronosticando – a condizioni attuali di politiche ambientali – il conseguimento della neutralità climatica, richiesta dall’Accordo di Parigi per il 2050, non prima addirittura di 200 anni.

Da ultimo, un responso simile è arrivato anche dall’OCSE, con il suo Rapporto 2024 sull’Italia, da cui si desume che le azioni italiane sono del tutto inadeguate rispetto ai target di Parigi.

Se è questo il contesto in cui calare l’effettivo perseguimento intertemporale di sei «obiettivi ambientali», costitutivi del “danno non significativo”, due domande irrompono ineludibili:

– com’è possibile considerare soddisfatto il principio DNSH, se i contenuti dell’Accordo di Parigi, base dell’adeguatezza materiale degli interventi finanziati, non sono adempiuti?

– com’è possibile affermare la non dannosità di questi interventi nella loro dimensione intertemporale «ex ante, in itinere ed ex post», per di più – come fa la giurisprudenza – in base al solo soddisfacimento della conformità formale della valutazione ambientale, se le proiezioni sull’Italia attestano l’inadeguatezza del suo scenario climatico presente e futuro?

È bene che si prenda coscienza di queste illogicità, altrimenti si rischia di fare del “danno non significativo” l’ennesima “leggenda” del diritto ambientale (sul tema delle “policy legend” nel diritto ambientale, si v. M. Giampietro, S.O. Funtowicz, From elite folk science to the policy legend of the circular economy, 2020), invece che l’occasione di una svolta coraggiosa nella politica e nel diritto, a garanzia, tra l’altro, dell’interesse delle generazioni future, come auspicherebbe il riformato art. 9 della Costituzione.

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