di Sergio Bartole*
La forma di governo della Repubblica italiana è pluralista, non solo in quanto recepisce e proietta a livello di poteri il pluralismo della nostra comunità nazionale, ma anche perché è composta di un complesso di istituzioni fra loro separate e destinate a coordinarsi attraverso la collaborazione nonché il bilanciamento delle rispettive attribuzioni e orientamenti. Con l’eventuale accoglimento della proposta separazione delle carriere di magistrati giudicanti e requirenti il numero di quelle istituzioni aumenterebbe con la divisione di un solo ordine di magistrati in due ordini distinti – appunto, uno dei giudicanti ed uno dei requirenti – governato ciascuno da un suo consiglio superiore. Già Nicolò Zanon ha censurato questa duplicazione di organi collegiali laddove meglio si sarebbe potuto fare dividendo in due sezioni l’attuale Consiglio superiore. Il che avrebbe consentito di conservare l’unicità della magistratura rendendo più agevole la implementazione della garanzia della sua autonomia e indipendenza. Aldilà delle vuote parole nel nuovo testo del primo comma dell’art. 104 riformato, la soluzione attualmente proposta non solo duplica, con i rischi per la posizione costituzionale dei due ordini di magistrati, le responsabilità e i problemi connessi alla accennata garanzia, ma anche pone la questione del ruolo della nuova istituzione dell’ordine dei magistrati requirenti e delle sue relazioni con gli altri poteri dello Stato.
La relazione governativa al disegno di legge costituzionale definisce indirettamente le funzioni dei magistrati requirenti in vista della separazione delle loro carriere ragionando di una “struttura più coerente con le regole fondamentali del processo penale”, e quindi accenna ad una conformità a queste del nuovo assetto. Questo approccio lega evidentemente l’auspicata riforma al ruolo che i procuratori sono chiamati a svolgere nel processo penale, e quindi indirizza ad una definizione di quel ruolo alla luce delle normative del codice di procedura penale, dunque in chiave infra-processuale. Ma a questa possibile definizione sfuggono le altre attività delle procure, sì interne al loro ordine ma al tempo stesso potenzialmente suscettibili di un rilievo esterno in quanto toccano ambiti diversi sia per quanto ha tratto alle persone che per quanto attiene ai rapporti pubblici e privati interessati. Per cogliere una registrazione normativa di questi aspetti sembra allora naturale andare all’art. 73 della martoriata legge sull’ordinamento giudiziario, il cui testo non è mai stato oggetto di una revisione integrale ma è sempre stato rivisto a pezzi e bocconi. L’elenco delle attribuzioni del pubblico ministero cui l’articolo citato è dedicato, si apre con l’inizio e l’esercizio dell’azione penale, ma poi annovera la sorveglianza sull’osservanza delle leggi e la pronta e regolare amministrazione della giustizia; la tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci; la repressione dei reati e l’applicazione delle misure di sicurezza; l’esecuzione ed osservanza delle leggi d’ordine pubblico e interessanti i diritti dello Stato.
Si tratta di un plesso molto ampio di attribuzioni definite in termini molto vaghi e generici, per cui una loro più concreta definizione è rinviata al loro concreto esercizio. Ciò vale in particolare per le attività che non sfociano necessariamente in un percorso giudiziale quale quello che demanda ai giudici investiti dalle azioni penali promosse dalle procure l’ultima parola sulla loro ammissibilità. E’ sulle attribuzioni meno puntualmente definite che conviene volgere l’attenzione in quanto la loro enumerazione si presta ad interpretazioni molto elastiche che finiscono per essere sottoposte principalmente ai riscontri interni alla per nuovo separata e indipendente istituzione delle procure e sfuggono quindi ad un riesame giudiziale (si tratta di un testo che agevolmente potrebbe essere utilizzato per saggiare le considerazioni svolte da G. Pino nel capitolo sui problemi semantici e pragmatici del linguaggio giuridico nel volume L’interpretazione del diritto, Torino 2021, 115 ss.).
Per valutare questa prospettiva giova tenere presente che, a seguito dell’eventuale approvazione del disegno di legge costituzionale di cui andiamo ragionando, verrà appunto ad esistenza un ordine separato e indipendente delle procure cui in ultima istanza è rimessa l’individuazione del loro ruolo nel quadro del disegno complessivo dei poteri dello Stato e nei termini che i principi costituzionali lo consentano. Vi è il rischio che, prendendo lo spunto da pratiche operative extra–processuali dell’istituzione o ordine delle procure, libere dal restraint della convivenza in un unico ordine con i magistrati giudicanti, esse siano guidate non da una finalità di giustizia come vorrebbe la pur conclamata loro appartenenza alla magistratura, ma da una sotterranea vocazione inquisitoria, la individuazione dei cui confini resti demandata alle procure medesime. Ci troveremmo di fronte all’epifania di un potere anomalo la cui esistenza sconfesserebbe le logiche che guidano oggi il governo a proporre la separazione delle carriere giudiziarie ad evitare il supposto strapotere dei magistrati requirenti in riguardo degli organi giudicanti.
Nonostante la presenza di passati interventi inquisitori che da taluno sono stati visti come vere e proprie rotture del principio di separazione dei poteri, non ci sono nella tradizione giuridica italiana elementi che lascino temere l’avvento di un fenomeno del tipo di quello ora accennato. Non vi sono cioè nella storia della Repubblica italiana precedenti comparabili a quel sistema delle prokurature che caratterizzava l’Unione sovietica e gli Stati suoi satelliti. Quelle istituzioni avevano competenze che andavano oltre la persecuzione dei reati difronte alle autorità giurisdizionali e venivano sommariamente descritte come poteri generali di supervisione. Il che consentiva loro di monitorare gli atti prodotti dai livelli inferiori di governo, di investigare sulle illegittimità addebitabili a pubblici poteri e, infine, di scrutinare le stesse decisioni giudiziali anche nella fase preprocessuale e delle attività penitenziarie. Seguendo le indicazioni della Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale (2000 – 19), la Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, organo tecnico del Consiglio d’Europa, meglio nota come Commissione di Venezia, ha ripetutamente censurato e bloccato i tentativi di alcuni Stati dell’Europa orientale di riproporre in forme aggiornate le antiche Prokurature osservando che una ripresa delle antiche competenze “considerably exceed the scope of functions performed by a prosecutor in a democratic, law abiding state” (si vedano, per tutte, le opinioni della Commissione CDL-AD(2006)029, CDL-AD(2009)048 e CDL-AD(2017)028.
Se il rischio degli indesiderabili sviluppi ora accennati dipende anche dalla generica ed equivoca definizione delle attribuzioni delle procure contenuta nell’art. 73 ordinamento giudiziario, o forse meglio dalla mancata individuazione chiara e precisa di quelle attribuzioni nel progetto di legge costituzionale in discussione, converrebbe che il Parlamento si interroghi sul futuro dell’ordine delle procure e sull’eventuale necessità di emendare il testo oggi all’esame fornendo elementi dettagliati per la definizione del ruolo delle procure nel sistema di governo, ad evitare di dare troppo spazio agli organi interessati nell’individuazione dei loro compiti, sempreché si intenda dare corso all’iniziativa del Governo. L’esposizione ai pericoli accennati può portare ad esiti indesiderati. Ove le procure si atteggiassero in termini assimilabili al ruolo svolto nei Paesi dell’Europa orientale dalle prokurature, qualcuno potrebbe porre il problema di evitare un loro strapotere e di predisporre un loro controllo esterno ovvero una loro dipendenza dal raccordo Governo – Parlamento con conseguente superamento dell’autonomia ed indipendenza del loro ordine. Per porre riparo alle possibili degenerazioni del sistema potrebbe avverarsi, cioè, la previsione di quanti temono che la separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti conduca passo dopo passo alla dipendenza delle procure dall’esecutivo anzitutto o dal concorso di Governo e Parlamento.
Il diritto comparato europeo conosce esempi di nomina parlamentare o ad opera del Capo dello Stato del vertice delle procure, di norma definito procuratore generale, con osservanza dei requisiti legislativi etici e professionali. Per quanto l’adozione di sistemi siffatti sia accompagnata da garanzia istituzionali e personali degli uffici e dei loro titolari e “should be depoliticised” (Commissione di Venezia CDL – AD(2017)028), va prendendo sempre più piede la diversa via dell’affidamento dell’amministrazione delle carriere del relativo personale a organi collegiali composti da consiglieri togati e laici di derivazione elettiva (quindi non designati per sorteggio), senza che sia esclusa la possibilità che vi sia un unico consiglio (eventualmente diviso in sezioni) per magistrati togati e requirenti (vedi BARTOLE, The internationalisation of constitunional law, Oxford – London – New York 2020, 82 – 83).
* professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università di Trieste