di Roberto Bin
Parlando all’Inaugurazione dell’Anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, il Sottosegretario Mantovano ha detto cose davvero gravi. Non diverse dalle sparate contro i giudici che vengono pronunciate da ministri e altri esponenti della maggioranza: ma Mantovano è un magistrato (anche se ha fatto il parlamentare per quattro legislature, prima di ritornare in Cassazione e quindi, nel 2022, essere chiamato al Governo), per cui non vale la scusa dell’impreparazione, che sembra essere il vero handicap della nostra classe di governo. Mantovano esordisce così: “sono tre le tipologie di aggiramento della volontà popolare attraverso la strada giudiziaria: la creazione delle norme per via giurisprudenziale; la sostituzione delle scelte del giudice a quelle del governo; la selezione per sentenza di chi deve governare”. Sono un po’ le solite cose denunciate ogni giorno: “la creazione della norma in via giurisprudenziale”, invocando fonti internazionali e europee, ma anche “dando una lettura ‘estensiva’ – per non dire arbitraria – delle norme costituzionali”; la sottrazione di “spazi regolativi al legislatore”, producendo così “erosione degli spazi di diretta espressione della sovranità popolare” (esempi di “leggi sistematicamente disapplicate” sarebbero quelle “in materia di immigrazione”). E poi c’è “l’interdizione per via giudiziaria dell’azione di governo su materie politicamente sensibili, dalle scelte sull’immigrazione a quelle riguardanti l’industria”. A ciò segue una lunga riflessione sul caso di Marine Le Pen, che ovviamente riguarda fatti e decisioni giurisprudenziali che non c’entrano, ma che preludono all’attacco all’establishment, cioè a coloro che si permettono di opporsi alla sovranità popolare e a chi ne è l’interprete autorizzato, avendo “vinto le elelzioni”: e si oppongono persino alle proposte di riforma costituzionale avanzate dal Governo legittimo!
Lascio perdere queste ultime considerazioni sulla sovranità popolare (però si dovrebbe ricordare a Mantovano che il governo che si appella alla sovranità popolare si regge su una maggioranza del 44% dei voti espressi dal 64% di votanti, cioè sul consenso di circa il 28% del popolo sovrano!). Quello che mi lascia sorpreso è che un giurista, che può vantare una vasta eperienza di giudice, possa esprimere – ad un consesso di altri giuristi, per giunta – l’idea che i giudici debbano “applicare” le leggi (che sono pezzi di carta scritta) e non interpretarle. Interpretare significa individuare il senso della legge scritta, cioè la “norma” da applicare – norma che deve essere conforme alle norme della Costituzione e delle fonti europee e internazionali: questo è il lavoro del giudice, spiegano tutti i manuali di diritto agli studenti del primo anno. Il vero problema che a Mantovano sfugge è che, se la politica vuole difendere lo spazio decisionale che le è proprio, deve imparare ad esprimere chiaramente e con precisione la sua volontà, cioè a scrivere le leggi. La tecnica legislativa impiegata dal legislatore italiano è pessima: le leggi sono frutto di compromessi politici che si traducono in compromessi linguistici, in disposizioni confuse, criptiche, incomprensibili. Si prenda una legge qualsiasi (sta per essere emanato il “decreto-sicurezza” che si preannuncia, a quanto comunica il Governo, come un campionario di norme del genere) e la si confronti con una qualsiasi legge inglese (si prenda ad esempio, per l’affinità di argomento, il Terrorism Act 2025). E’ da almeno quattro secoli che i legislatori inglesi si preoccupano di arginare i poteri dei loro giudici, ed hanno capito che tutto dipende anzitutto dalla qualità e precisione delle leggi che approvano: in esse non mancano mai pignole spiegazioni del significato dei termini e delle circostanze di applicazione delle norme, magari attraverso l’impiego di schede esplicative del significato dei termini impiegati. Se chi detiene il potere legislativo in Italia si preoccupasse di ciò che scrive nelle leggi, piuttosto che denunciare l’abuso di potere di chi è chiamato ad “applicarle”, forse qualche risultato lo potrebbe ottenere e ne saremmo tutti soddisfatti. Si tratta solo di fare bene il proprio lavoro, invece di criticare quello che fanno gli altri, insultandoli.
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Condivido, Prof. Bin e lo faccio con la deferenza e l’ammirazione che si devono a chi, con la sobrietà del giurista e la chiarezza del maestro, ha saputo cogliere il punto centrale del problema: non è nel potere giudiziario che si annida l’erosione della sovranità popolare, ma nella superficialità con cui chi detiene il potere legislativo rinuncia, ogni giorno, al rigore della forma, alla chiarezza della volontà espressa in norma, alla responsabilità di governare non solo con proclami, ma con parole che vincolano, che indirizzano, che fondano diritto.
Vedo anch’io, con amarezza non nuova, questo insistere, sempre più frequente e stonato, nel considerare la magistratura non più come potere autonomo e ordinato secondo il dettato costituzionale, ma come ostacolo, quasi come una deviazione, un inciampo sul percorso diretto e trionfale della “volontà popolare”, espressione evocata con tale frequenza e leggerezza da essere ormai ridotta a maschera dell’arbitrio di chi governa, come se il diritto, tutto intero, non fosse che uno strumento da piegare alla contingenza della maggioranza del momento.
Ma è proprio qui che il ragionamento si fa più urgente e doveroso: se il giudice non interpretasse, se si limitasse (come pare desiderare il Sottosegretario Mantovano ) a un’applicazione meccanica della lettera, a una sorta di automatismo cieco e muto, egli tradirebbe non solo la sua funzione, ma l’essenza stessa del diritto. Perché il diritto, come insegna ogni manuale serio, non è la norma scritta nel suo nudo apparire, ma la norma nel suo significato, nella sua armonia con l’intero sistema, nella sua coerenza con i principi superiori, in primo luogo la Costituzione, e poi le carte internazionali, europee, le convenzioni che abbiamo liberamente sottoscritto, e che non sono accessori, ma fondamento del nostro ordinamento.
E tuttavia, questo continuo lamento per la “creazione giurisprudenziale” delle norme, questo rimprovero rivolto ai giudici che “invadono” il campo della politica, appare ancora più stonato se si considera con onestà il modo in cui, da anni, le leggi vengono scritte in Italia. Norme prolisse, contraddittorie, disseminate di rimandi, spesso scritte in fretta, in risposta a urgenze mediatiche più che a reali necessità sistemiche; disposizioni che non reggono alla prova della realtà, confuse al punto da dover essere ricostruite pezzo per pezzo dall’interprete, il quale, lungi dal sostituirsi al legislatore, cerca solo di renderle intellegibili, applicabili, coerenti con l’impianto generale del diritto.
E dunque, se davvero si vuole che la sovranità popolare trovi piena ed efficace espressione nelle leggi, si cominci col rispettare il linguaggio della legge; si torni alla dignità della tecnica normativa; si riscopra l’umile fatica della scrittura giuridica, che non è esercizio retorico ma forma alta di responsabilità politica. Si guardi, come giustamente suggerisce lei, Prof. Bin, a chi ha saputo costruire, nel tempo, una cultura legislativa improntata alla chiarezza, alla precisione, alla prevedibilità (valori essenziali per la certezza del diritto, che è la prima garanzia del cittadino e insieme il primo limite al potere, anche a quello democraticamente eletto).
Non si insulti dunque il giudice per aver fatto il proprio dovere. Non si scambi il vuoto normativo per esuberanza giurisprudenziale e soprattutto, non si evochi la sovranità popolare come clava per zittire il dissenso o per disconoscere la pluralità degli organi dello Stato. La democrazia non è un assolo, ma un concerto: e il diritto è la partitura che consente alle diverse voci di suonare insieme, in armonia. Chi governa, se davvero vuole essere interprete del popolo, abbia il coraggio di scrivere leggi che parlino con voce chiara, e lasci ai giudici il compito, delicato e nobile, di farle vivere nella realtà; Così, e solo così, la volontà popolare non sarà tradita, ma compiutamente rispettata.
Lorenzo Zanellato(ex allievo del Prof. Roberto Bin)
La bassa qualità in generale, l’incoerenza o l’inadeguatezza, la frequente manipolazione impropria delle troppo numerose leggi italiane sono vizi diffusi poco contestabili.
D’altra parte l’applicazione delle leggi e il controllo di conformità dai giudici sono sempre relativi; in assoluto non è nemmeno possibile distinguere rigorosamente fra applicazione e interpretazione della legge. E se le leggi sono pessime, allora l’impossibilità di distinguere nettamente fra applicazione e interpretazione, fra potere legislativo sovrano e compito giudiziario di far rispettare le leggi, garantire ex post una certa coerenza come pure la conformità è una fortuna, in qualche modo l’ultima speranza.
Quello che davvero potrebbe servire a migliorare i testi legislativi, migliore ex ante la coerenza, la conformità e addirittura lo stile (meglio semplice, pulito, comprensibile) sarebbe una seconda Camera con proprio questo compito. Esiste in altri paesi. Penso all’Irlanda, al Lussemburgo e fino a un certo punto alla Francia.
Un Senato riformato potrebbe o dovrebbe a mio parere avere esattamente questa funzione. Bisognerebbe renderlo quanto possibile apolitico, composto da relativamente pochi esperti affermati, con mandati molto lunghi, nominati a piccole frazioni ogni anno dai deputati e con un potere di esprimere a richiesta o spontaneamente un parere pubblico preventivo e in linea di massima sospensivo, obbligatorio ma non vincolante (a parte per modifiche costituzionali per le quali sarebbbe richiesto un parere conforme). Tale organo consultivo dovrebbe logicamente avere anche il potere d’iniziativa legislativa. Il suo potere giuridico minimo sarebbe compensato da un’autorevolezza tecnica massima. Le sue decisioni potrebbero opportunamente essere chiamate Senato-consulti riallacciando così con la storia repubblicana romana (che tanto ha ispirato i pensatori classici illuministi) pur prendendo come modello istituzioni democratiche dei nostri tempi.
Ma è tanto più bello, più facile, più conveniente continuare a lamentarsi ripetendo le vecchie litanie!