di Salvatore Curreri
La Commissione Affari costituzionali del Senato sta esaminando un disegno di legge presentato dai capigruppo della maggioranza (S. n. 1451) per modificare la legge elettorale sull’elezione del Sindaco al primo turno nei Comuni con popolazione superiore ai 15 mila abitanti.
Esso prevede la riduzione dal 50 al 40 per cento del quorum per eleggere il Sindaco al primo turno e l’abrogazione della condizione per cui il premio di maggioranza non viene attribuito se la lista o il gruppo di liste a lui collegata/e non ottengono almeno il 40 per cento dei voti validi.
Tale riforma rischia di passare sotto silenzio perché offuscata dalle altre ben più importanti – non foss’altro perché di natura costituzionale – al centro dell’attenzione politica e mediatica: premierato, separazione delle carriere, autonomia differenziata; per non parlare del decreto sicurezza. Eppure, ritengo che essa meriti attenzione, non solo perché i Comuni sono gli enti più prossimi ai cittadini ma anche perché solleva seri dubbi d’incostituzionalità.
Con tale proposta di riforma si vorrebbe evitare il fenomeno, asseritamente ritenuto frequente, dell’elezione al secondo turno di Sindaci con meno voti rispetto a quelli del suo avversario al primo turno. Ciò è esattamente il caso che si è verificato a Udine nell’aprile 2023 dove, anche a causa della minore affluenza al voto nel secondo turno, il Sindaco eletto ha preso meno voti al ballottaggio rispetto a quelli ottenuti dal candidato in testa al primo turno. Per questo motivo nel 2024 il Friuli Venezia Giulia (come già la Sicilia nel 2016) ha ridotto il quorum per eleggere un Sindaco al primo turno dal 50 al 40 per cento. Riforma che i promotori, dunque, vorrebbero estendere a livello nazionale.
Eppure, se si guardano i numeri, ci si rende conto che la premessa da cui muove il disegno di legge in questione è errata perché i casi, come quello verificatosi a Udine (oltreché a Campobasso nel 2024), sono sporadici e quindi costituiscono l’eccezione e non la regola. Nelle 147 elezioni comunali svoltesi dal 1993 nei 21 capoluoghi di regione o di provincia autonoma c’è di fatto parità tra i Sindaci eletti al primo (73) o al secondo (74) turno; di queste ultime, sono stati appena 12 (contro 64) i casi in cui il ballottaggio è stato vinto dal candidato piazzatosi secondo al primo turno e, tra questi, appena sei sono stati i casi in cui il vincitore al ballottaggio ha preso meno voti rispetto a quelli ottenuti dal suo avversario al primo turno (precisamente a Bologna nel 1999, a Perugia e l’Aquila nel 2014, a Campobasso nel 2024, a Potenza nel 1999 e nel 2014). Peraltro, paradossalmente, di questi sei casi quattro hanno riguardato il centro destra (Bologna nel 1999), uno il centro sinistra (Campobasso nel 2024) e uno il centro (Potenza nel 1999).
Sotto il profilo strettamente politico, la riforma produrrebbe rilevanti effetti:
a) in primo luogo, essa premierebbe le forze politiche che sin dal primo turno siano in grado di presentarsi unite dinanzi agli elettori; che tale schieramento politico sia di solito quello di centro destra cui appartengono i firmatari del disegno di legge non è ovviamente casuale;
b) le maggiori probabilità di essere eletti al primo turno potrebbe premiare i candidati più radicali ed estremi, dato che il secondo turno, come hanno dimostrato da ultimo le presidenziali rumene, premia i candidati meno divisivi e più trasversali, cioè capaci di andare oltre i confini del proprio schieramento politico per intercettare, mobilitare e attrarre gli elettori dei candidati rimasti esclusi dopo il primo turno;
c) non è detto che tale riforma diminuisca, come sostengono i presentatori, il potere interdittivo (o, più schiettamente, di “ricatto”) delle forze politiche minori, le quali, al contrario potrebbero in cambio del loro decisivo appoggio un peso politico maggiore rispetto alla loro effettiva consistenza elettorale, peraltro presunta anziché basata sull’effettivo riscontro elettorale come il doppio turno consente.
Invero, gli esiti politici di tale riforma sono difficilmente pronosticabili, perché a mio parere l’elezione diretta del Sindaco al primo turno con appena il 40% dei voti validi introdurrebbe non una semplice variante ma un vero e proprio tertium genus rispetto ai due modelli di formule maggioritarie previsti per l’elezione di cariche monocratiche.
Per un verso, infatti, tradisce la finalità delle formule majority, definite tali proprio perché fanno dipendere la legittimazione elettorale del candidato eletto dall’aver raggiunto più della metà dei voti validi, al primo o al secondo turno.
Per altro verso, non può essere annoverato nell’ambito dei sistemi plurality dato che per essere eletti non basterà prendere un voto in più rispetto agli altri candidati (come avviene in particolare per l’elezione dei Presidenti di Regione), ma occorrerà inoltre raggiungere la soglia del 40%, pena il ricorso al secondo turno di ballottaggio che tali sistemi per loro natura escludono.
In entrambi i casi, dunque, potremmo dire che si avrebbe un sistema majority o plurality “a doppio turno eventuale”. Un’eventualità intrinsecamente contraddittoria rispetto alle finalità perseguite dai due sistemi, e cioè premiare con l’elezione, rispettivamente, chi ottiene la maggioranza o la maggiore minoranza di voti validi.
Il punto di maggiore criticità sotto il profilo costituzionale non sta tanto o, meglio, non solo nella riduzione dal 50 al 40 per cento del quorum per eleggere il Sindaco al primo turno, quanto nella contestuale abrogazione della soglia del 40% per cento dei voti validi per l’attribuzione del premio di maggioranza alle liste a lui collegate (condizione invece prevista sia in Sicilia che in Friuli Venezia Giulia).
Che le liste ottengano un risultato elettorale diverso da quello del Sindaco cui sono collegate è oggi possibile grazie al voto disgiunto per cui l’elettore può votare solo per un candidato Sindaco oppure nella stessa scheda per un candidato Sindaco e per una lista a lui NON collegata (una schizofrenia politica spiegabile solo con il fatto che a livello locale ormai si vota per le persone anziché per i partiti, quasi scomparsi a livello locale, assorbiti dalle moltissime liste c.d. civiche). Ebbene, se la riforma proposta venisse approvata, potrebbe accadere che le liste collegate ad un Sindaco eletto, non più a maggioranza ma al primo turno con appena il 40% dei voti validi, potrebbero ottenere comunque il 60% dei seggi, indipendentemente dalla percentuale di voti ottenuti. Così, per fare un esempio, le liste collegate con il 30% dei voti prenderebbero il 60% dei seggi! Un’eventualità che le leggi di Sicilia e Friuli Venezia Giulia, richiamate come esempi dal disegno di legge in questione, non a caso non prevedono.
La riforma, quindi, propone una doppia manovra a tenaglia contro i principi democratici: da un lato, abbassa il quorum per essere eletti Sindaci al primo turno dall’attuale 50 al 40 per cento; dall’altro, attribuisce alle liste collegate sempre e comunque il 60% dei seggi. In tal modo, si renderebbe l’effetto trascinamento della maggioranza consiliare a seguito dall’elezione del Sindaco ancor più determinante di quanto oggi sia ai fini della configurazione della composizione politica del consiglio comunale.
L’unica condizione per cui il Sindaco potrebbe non avere la maggioranza in consiglio comunale (c.d. anatra zoppa) resterebbe dunque quella per cui una lista o un gruppo di liste avverse avesse ottenuto – anche a seguito di apparentamenti tra il primo e il secondo turno – più del 50% dei voti validi.
L’abrogazione della soglia minima del 40% per l’attribuzione del premio di maggioranza alla lista o al gruppo di liste collegate al Sindaco eletto al primo turno renderebbe dunque possibile ciò che sinora è stato giudicato incostituzionale, e cioè la sovra-rappresentazione delle liste collegate al Sindaco ben oltre quel range del 14-15 per cento che la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibile in forza delle ragioni di governabilità. Il non subordinare l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti, con il conseguente rischio di trasformare una maggioranza relativa di voti, anche modesta, in una maggioranza assoluta di seggi, finirebbe per determinare un’alterazione della rappresentanza democratica.
Né varrebbe obiettare che l’attribuzione del premio di maggioranza alla lista o alle liste collegate al Sindaco eletto indipendentemente dalla percentuale di voti ottenuta è esattamente quanto si verifica in caso di elezione del Sindaco al secondo turno di ballottaggio. Infatti, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 275/2014, richiamando la 107/1996, ciò che giustifica l’attribuzione del premio di maggioranza alla lista o alle liste collegate al Sindaco eletto al secondo turno, indipendentemente dal consenso elettorale ottenuto, è il fatto che il turno di ballottaggio non è, per così dire, il secondo tempo della stessa partita (come la stessa Corte, nella sentenza n. 35/2017, ha giudicato il turno di ballottaggio previsto dalla legge elettorale nazionale n. 52/2015, il c.d. Italicum), ma un’altra partita, perché manca il voto di lista e, dunque, il voto disgiunto, ed è possibile, come detto, tra i due turni la possibilità che alle originarie coalizioni si possano aggiungere altre liste. Nel votare il candidato Sindaco, dunque, l’elettore vota le liste a lui collegate per cui la maggioranza assoluta ottenuta dal primo legittima la maggioranza consiliare delle seconde.
La riforma proposta determinerebbe dunque una eccessiva sovra-rappresentazione delle forze politiche di maggioranza a scapito di quelle di minoranza, quando invece, in democrazia, le leggi elettorali devono sempre cercare di conciliare stabilità di governo e rappresentanza delle forze politiche. Essa, invece, sacrificherebbe eccessivamente la seconda sull’altare della prima, esaltando oltre ogni ragionevole misura l’elemento personalistico-maggioritario dell’elezione diretta del sindaco su quello della rappresentatività dell’assemblea elettiva comunale.
Se a tutto questo aggiungiamo che si vorrebbe per la prima volta modificare unilateralmente una legge elettorale, quale quella per i Comuni, che in questi più di trent’anni ha funzionato bene, dando stabilità e coerenza politica all’azione amministrativa dei Comuni, ci sono abbastanza argomenti per concludere che siamo dinanzi ad una proposta di riforma basata su presupposti errati, politicamente inopportuna e costituzionalmente illegittima.