Sul potere di rinvio del Presidente della Repubblica delle leggi di revisione costituzionale

di Salvatore Curreri

Gli interventi di Sergio Bartole (dello scorso 27 agosto, riproposto in questo blog il 13 settembre) e di Nicolò Zanon (L’Altravoce-Il Quotidiano nazionale del 13 e 16 settembre) pongono entrambi, seppur da diversi punti di vista, il tema del possibile rinvio alle Camere del disegno di legge costituzionale sulla c.d. separazione delle carriere da parte del Presidente della Repubblica.

Ciò nel presupposto, sostenuto da Bartole, che l’estrazione a sorte dei componenti dei proposti due Consigli superiori della magistratura (rispettivamente per quella giudicante e per quella requirente) violerebbe il principio supremo dell’ordinamento costituzionale, secondo cui tutte le cariche pubbliche devono essere elettive.

Si tratta di un tema sul quale la migliore dottrina si è sempre confrontata, nel tentativo di trovare un punto di equilibrio tra la necessità di salvaguardare uno strumento fondamentale di garanzia costituzionale e l’opportunità di evitare il più possibile che il ricorso ad esso possa innescare uno scontro politico-istituzionale, soprattutto nel caso in cui il testo di revisione costituzionale sia stato confermato in sede di referendum costituzionale. Motivazione, quest’ultima, che aveva indotto il deputato Preti a proporre in sede costituente un emendamento per inserire in Costituzione l’esplicito divieto di rinvio alle Camere delle leggi costituzionali.

Da qui il florilegio di posizioni espresse, con varie motivazioni, dalla dottrina, divisa tra: chi esclude il potere di rinvio delle leggi costituzionali; chi, pur ammettendolo, lo ritiene di difficile applicazione; chi, infine, lo ammette, subito dopo però a sua volta dividendosi sia sulla sua estensione – solo vizi procedurali; violazione del limite della forma repubblicana ex art. 139 Cost.; ipotesi altrimenti di attentato alla Costituzione da parte del Presidente della Repubblica ex art. 90 Cost. come giustappunto nel caso di violazione dei suoi principi supremi -, sia sul quando tale potere di rinvio possa esercitarsi – dopo la prima o seconda deliberazione e, in quest’ultimo caso, prima o dopo che sia decorso il termine di tre mesi entro cui chiedere il referendum e lo svolgimento di quest’ultimo.

Tutte queste ipotesi devono oggi misurarsi con quanto chiaramente stabilito dall’art. 1 della legge n. 352/1970 secondo cui “quando le Camere abbiano approvato una legge di revisione della Costituzione o altra legge costituzionale, i rispettivi Presidenti ne danno comunicazione al Governo indicando se la approvazione sia avvenuta con la maggioranza prevista dal primo comma o con quella prevista dal terzo comma dell’articolo 138 della Costituzione”. Pertanto, contrariamente a quanto pur sostenuto (v. l’articolo di Alberto Cisterna su Il Dubbio del 12 settembre) non è possibile che il Presidente della Repubblica eserciti il suo potere di rinvio subito dopo la seconda deliberazione delle Camere, “impedendo o ritardando l’eventuale referendum popolare” (Zanon, Giustizia, salvare la riforma da sé stessa, in L’Altravoce del 13 settembre). Infatti, il testo approvato da entrambe le Camere viene trasmesso non a lui ma al Governo, anche nel caso in cui sia stata raggiunta la maggioranza dei due terzi; tale ipotesi, infatti, precludendo com’è noto la possibilità di richiedere il referendum costituzionale, consentirebbe l’immediata sottoposizione del testo alla promulgazione (e al possibile rinvio) del Capo dello Stato, senza interposizione del Governo.

Il Presidente della Repubblica, dunque, si trova ad esercitare il proprio potere di promulgazione (o di rinvio) in condizioni di estrema difficoltà politica, poiché il testo della riforma costituzionale o ha avuto un ampio consenso parlamentare (per quanto il quorum dei due terzi fissato dai costituenti presupponeva un consenso più ampio di quello che potrebbe raggiungersi grazie a formule elettorali quantomeno miste) oppure è stata approvata dal corpo elettorale.

Si tratta di una scelta legislativa forse in quell’epoca non sufficientemente meditata nelle sue possibili future conseguenze politico-istituzionali. Di essa, però, in ogni caso al momento va preso atto, salvo ipotizzare future modifiche che, magari anticipando il giudizio del Presidente, lo espongano meno a potenziali inediti e gravi conflitti, non desiderati e non desiderabili. Tanto più ove si consideri che il problema potrebbe riproporsi in relazione alla riforma costituzionale sul c.d. premierato, della quale una parte delle opposizioni parimenti contesta, talora in modo pavloviano, la conformità ai principi costituzionali.

In questo contesto politico mi pare evidente, condividendo in parte le conclusioni di Zanon (Giustizia, inutile tirare la giacchetta a Mattarella, in L’Altravoce del 16 settembre) che non si può sovraccaricare il Presidente della Repubblica del compito di opporsi ad una riforma costituzionale che, per quanto non condivisibile – perché dal mio punto di vista, sostanzialmente inutile se non deleteria – non sollevi profili d’illegittimità così gravi e manifesti sui supremi principi costituzionali, in presenza dei quali, peraltro, il Presidente della Repubblica, proprio in ragione delle difficoltà qui evidenziate, avrebbe certamente avuto modo d’intervenire in via riservata.

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