di Salvatore Curreri
La maggior parte dei commentatori politici ritiene abbastanza probabile, se non quasi certo, che la Corte costituzionale bocci l’Italicum, dichiarando incostituzionale il turno di ballottaggio (in assenza di una percentuale minima d’accesso) e i capilista bloccati.
Incerta, piuttosto, sarebbe la sorte del premio di maggioranza al primo turno alla lista più votata. È vero, infatti, che, in accoglimento della censure mosse nella sentenza n. 1/2014, è oggi prevista una percentuale minima di voti – 40% – per la sua attribuzione. Ma è pur vero che l’esito negativo del referendum costituzionale potrebbe essere un motivo in più per la Corte per dichiarare incostituzionale il premio di maggioranza alla Camere perché non in grado di garantire la governabilità in un sistema in cui comunque anche il Senato è chiamato ad esprimere o revocare la fiducia al Governo.
Avremmo, quindi, un sistema elettorale alla Camera proporzionale con (forse) premio di maggioranza alla lista e voto di preferenza mentre al Senato resterebbe in vigore il c.d. consultellum, cioè il sistema elettorale scaturito dalla predetta sentenza della Corte, senza premio di maggioranza e con voto di preferenza. Questo perché, com’è noto, in occasione della discussione della riforma elettorale, si decise improvvidamente di stralciare quella del Senato, confidando nell’approvazione della riforma costituzionale che avrebbe dovuto trasformare il Senato in camera di rappresentanza delle istituzioni territoriali, come tale esclusa dal rapporto fiduciario.
La tendenza ad armonizzare le leggi elettorali quindi si tradurrebbe nell’assimilazione della legge elettorale della Camera a quella del Senato, la quale, quindi, eserciterebbe rispetto alla prima una sorta di forza attrattiva.
Un simile scenario però dà per presupposti alcuni passaggi che non paiono così scontati.
In primo luogo, come ben osservato da Roberto Bin in questa testata, non è affatto detto che la Corte dichiari ammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti di una legge non ancora applicata.
In secondo luogo, mi permetto di aggiungere, si attribuiscono alla Corte poteri d’intervento sulla legge elettorale dimenticandosi che il giudice costituzionale, operando secondo diritto, ha margini d’intervento ben più ristretti rispetto a quelli del Parlamento. Non va dimenticato, infatti, che il precedente della sentenza n. 1/2014 è in buona parte dovuto a vizi d’irragionevolezza in certo senso così manifesti – l’attribuzione del premio di maggioranza in assenza di una percentuale minima di voti; la presenza di lunghe liste bloccate – da potersi ritenere ipotesi così estreme da aver giustificato l’intervento della Corte. Come ha ben scritto in questo sito Alessandro Morelli, la Corte costituzionale è e rimane “un giudice, anche se politico è l’oggetto del suo giudizio: la legge”. Non è affatto detto, quindi, che la Corte costituzionale voglia addentrarsi in valutazioni che possano facilmente far scivolare il suo giudizio dal piano giuridico a quello politico. Non ci sarebbe da stupirsi, quindi, se la Corte costituzionale richiudesse quella porta che forzatamente aveva aperto sul giudizio di costituzionalità delle leggi elettorali.
In terzo luogo, infine, non è affatto detto che l’unica direzione possibile sia quella di assimilare la legge elettorale della Camera al consultellum del Senato. Al contrario, si potrebbe estendere il premio di maggioranza nazionale previsto dall’Italicum alla Camera anche al Senato. È noto che l’ostacolo che viene opposto a tale prospettiva è l’elezione a base regionale del Senato (art. 57.1 Cost.), tant’è che la legge Calderoli prevedeva non un premio nazionale ma tanti premi quante sono le regioni. Ma è stata la stessa Corte costituzionale a bocciare l’attribuzione dei premi di maggioranza su scala regionale perché essa “produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea” (4° cons. dir.).
La Corte, quindi, non solo non esclude, ma sembra implicitamente ammettere che anche al Senato il premio di maggioranza possa essere aggiudicato alle liste o coalizioni di liste più votate a base nazionale, senza che a ciò sia di ostacolo la “base regionale” del Senato, che sarebbe pienamente valorizzata in sede di ripartizione dei seggi.
L’obiezione a tale soluzione è scontata: i due distinti premi di maggioranza, alla Camera e al Senato, peraltro espressione di un elettorato diverso, potrebbero essere aggiudicati da forze politiche diverse, con il risultato di “maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento” temuto dalla stessa Corte costituzionale. Tale rischio, però, potrebbe essere evitato se, ad esempio, s’introducesse una clausola per cui il premio di maggioranza nelle due camere sarebbe aggiudicato solo se ottenuto dalla lista o coalizione di liste con il medesimo contrassegno.
In definitiva, non è affatto detto che la sentenza della Corte debba necessariamente comportare un ritorno al proporzionale, ignorando totalmente l’obiettivo – ritenuto dalla stessa Corte “costituzionalmente legittimo” – di “agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale”.
Ciò sempreché la classe politica lo voglia. Ma questo è un altro discorso.