Nomina del primo ministro e nomina dei ministri: quali sono le differenze?

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di Omar Chessa
In un articolo precedente ho scritto che il Capo dello Stato non è tenuto a nominare i ministri proposti dal neo-nominato Presidente del Consiglio; e che il rifiuto non ha bisogno di essere motivato in base a principi costituzionali “sostanziali”, bastando a tal fine la norma di competenza prevista dell’art. 92 della Costituzione, secondo la quale «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri».

Tuttavia in queste ore il dibattito impazza e in parecchi sostengono che il Capo dello Stato non possa contrapporsi alle indicazioni della maggioranza politica (se non per salvaguardare principi costituzionali in pericolo: ipotesi che in questo caso, a ben vedere, non sussisterebbe). È dunque opportuno ritornare sul tema, per aggiungere qualche precisazione.

La prima riguarda la differenza tra nomina del primo ministro e nomina degli altri ministri. Per il Presidente della Repubblica i margini di scelta non sono i medesimi. Nel primo caso c’è poco da fare: poiché occorre trovare un nome che abbia il consenso sicuro di una maggioranza parlamentare, il Presidente dovrà orientarsi giocoforza sulla personalità indicata dai partiti che dispongono dei numeri parlamentari. Per certi versi l’interlocutore istituzionale del Capo dello Stato è, in questo caso, lo stesso Parlamento: dovrà recepirne la volontà maggioritaria, quale risulta dalla fase delle consultazioni.

Invece nell’altro caso – la nomina dei ministri su proposta del Presidente del Consiglio – si apre una nuova fase, che è rimessa alla dialettica istituzionale tra Capo dello Stato e primo ministro e che amplia i margini di scelta del primo, tanto che per la guida di un dicastero può esigere la proposta di un nuovo nome se non lo convince quello avanzato in prima battuta. In termini tecnici si dice che il decreto di nomina è un atto “complesso”, il cui compimento richiede l’incontro di due volontà distinte, quella del Presidente del Consiglio e quella del Presidente della Repubblica. In particolare, il primo ha il potere di proporre il nome, il secondo ha il potere di accogliere o respingere la proposta. Se non si raggiunge l’accordo, il primo ministro deve avanzare una nuova proposta: rimane fermo, infatti, che il Capo dello Stato non possa nominare una persona che non sia stata comunque proposta dal Presidente del Consiglio (e che, per ciò stesso, abbia la sua fiducia). Lo puntualizzava già Costantino Mortati nei lavori dell’Assemblea Costituente: «la nomina del Primo Ministro ha un carattere pregiudiziale rispetto a quella dei Ministri, che dovrebbero, quindi, godere della fiducia tanto del Presidente della Repubblica che del Primo Ministro».

Può obiettarsi che pure in questo caso dietro il nome fatto dal primo ministro per la guida di un ministero ci sarebbe la volontà di una maggioranza parlamentare, sicché nella sostanza il Capo dello Stato dovrebbe anche stavolta attenersi ai “numeri parlamentari”. Ma invero sarebbe un ragionamento troppo rigido, che oltre a tradire la lettera della Costituzione mette sullo stesso piano d’importanza il Presidente del Consiglio e gli altri ministri. In base al dettato costituzionale prima si individua la (sola) personalità che, disponendo dei numeri parlamentari, possa guidare il Governo; dopodiché il Presidente del Consiglio incaricato definisce, in accordo col Capo dello Stato, la lista dei ministri, mettendo in conto l’eventualità di dover offrire un ventaglio di più nomi per alcuni ministeri particolarmente “sensibili”.

Detto con altre parole: in una prima fase il Capo dello Stato, attraverso le consultazioni delle forze politiche, “prende atto” di quale sia l’orientamento parlamentare maggioritario e incarica il primo ministro, con pochissimi o nessun margine di scelta; in una seconda fase forma l’elenco dei ministri, col consenso necessario del Presidente del Consiglio incaricato (e quindi, si presume, della stessa maggioranza parlamentare), ma pur sempre esercitando anch’egli un potere di scelta che non è costituzionalmente inferiore o subordinato a quello del primo ministro.

In definitiva, quando si tratta di scegliere il primo ministro, il Capo dello Stato deve “scendere a patti” con la maggioranza parlamentare e recepire il nome che questa indica; ma quando si tratta di scegliere i singoli ministri, la maggioranza parlamentare (per il tramite del primo ministro incaricato) “deve scendere a patti” col Capo dello Stato e accettare l’idea (nonché la regola costituzionale) secondo cui pure il consenso di quest’ultimo è ugualmente necessario.

Questo, e non altro, prevede la nostra Costituzione. E non sarebbe politicamente e costituzionalmente responsabile pretendere che il Presidente della Repubblica rinunci a questa sua importante prerogativa costituzionale sotto la minaccia del “muoia Sansone con tutti i Filistei”.

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