La prima deliberazione parlamentare è intervenuta, stabilendo che i deputati diventeranno 400 e i senatori 200. La riforma sembra, perciò, andare avanti. E col consenso degli italiani. Direi che va avanti proprio perché gli italiani la desiderano, visto che i parlamentari, che pure la stanno approvando, l’apprezzano molto meno, se non per nulla.
La ragione per cui gli attuali deputati e senatori votano a malincuore la riduzione del loro numero è facilmente comprensibile: per ciascuno di loro, salvo i meglio collocati nelle gerarchie partitiche, diminuiscono le chances di rielezione futura.
Ma perché gli italiani preferirebbero avere un deputato ogni 128.000 elettori anziché uno ogni 89.500 e un senatore ogni 257.000 elettori anziché uno ogni 163.000? Riducendo così il numero dei parlamentari diminuisce proporzionalmente il peso di ciascun voto individuale poco meno della metà. Inoltre va ricordato che la rappresentanza politica è sempre, allo stesso tempo, una rappresentanza territoriale, nella misura in cui proietta nelle Camere, insieme agli eletti, gli interessi dei territori da cui provengono. Sono soprattutto le realtà territoriali più marginali, per peso demografico, economico-produttivo, culturale, ecc., ad avere tutto da perdere e nulla da guadagnare dal taglio dei parlamentari. I territori densamente popolati e fortemente produttivi, come le grandi città del Nord e non solo, non subiranno nessuna diminuzione della loro importanza politica nei processi decisionali delle Camere, ma al contrario saranno ulteriormente favoriti dalla futura sotto-rappresentazione degli altri. Per non parlare, infine, dei costi delle campagne elettorali, che leviteranno sensibilmente in ragione della necessità per ciascun candidato di “raggiungere” un più elevato numero di potenziali elettori.
E allora, da dove nasce tutto questo consenso popolare a una riforma che invece dovrebbe più scontentare che accontentare? Forse dal diffuso, ma erroneo, convincimento che si beneficerà di una sostanziosa riduzione della spesa. La battaglia contro i famigerati “costi della politica” paga sempre. Ma i risparmi previsti saranno poca cosa, considerato che la rappresentanza parlamentare misura nel suo complesso appena lo 0,007 della spesa pubblica italiana. Probabilmente, anzi sicuramente, pesa la percezione popolare radicata che la classe politica non curi gli interessi degli elettori, ma di se medesima, sicché il taglio suona come una giusta punizione e ha quasi il gusto della vendetta (sebbene perpetrata per mano degli stessi dei quali ci si vuole vendicare…).
Certo, può sostenersi che una Camera di 400 membri in luogo di 630 sia più funzionale ed efficiente, garantendo processi decisionali più pronti: è un punto di vista che sembra poggiare sul buon senso – “è più facile mettere d’accordo 400 persone che non 630!” – ma è fuorviante. A parte il fatto che la varietà delle opinioni è la ricchezza e non il problema della discussione e della decisione parlamentare. C’è di più che non è il numero dei deputati e senatori, ma sono le divisioni partitiche a complicare le attività delle Camere: divisioni sulle quali la riforma non inciderà minimamente, ma che anzi in prospettiva amplificherà, considerato che una sensibile riduzione dei membri delle Camere, quale quella che si sta introducendo, comporterà una modifica della legge elettorale in senso rigorosamente proporzionale, onde garantire almeno un diritto di tribuna alle forze più piccole.
Neanche la comparazione con altri Paesi europei sembra accreditare la bontà della riforma. Ad esempio, in Germania, che è un termine di paragone spesso evocato, il rapporto numerico tra eletti (al Bundestag, omologo alla nostra Camera dei deputati) ed elettori (da tenere distinti dagli abitanti) è di 1 per 105.000: una differenza di quasi 23.000 elettori rispetto ai rapporti numerici che si prevedono all’esito della riforma italiana! Senza considerare peraltro che la Germania è un paese socialmente più omogeneo del nostro e con una forte rappresentanza territoriale garantita dal Bundesrat, la Camera dei Länder, sicché non ha le stesse esigenze pressanti di rappresentanza delle diversità che ha invece la realtà italiana, più disomogenea socialmente e geograficamente.
Una revisione costituzionale totalmente priva di giustificazione razionale non può mai essere buona.
Di Maio ha fatto l’esempio degli Stati Uniti sbagliando il numero degli abitanti, per più di cento milioni!, ma soprattutto non ha tenuto conto che Camera dei rappresentanti e Senato si occupano solamente dello stato federale. Come dimostra la circostanza, tra le altre, che i senatori sono due per ogni stato indipendentemente dall’ampiezza del territorio e dal numero degli abitanti. Ha studiato poco!
Non bisogna confondere -come mi fa ripetutamente l’autore- una presunta preferenza degli Italiani per una riduzione del numero dei parlamentari con l’approvazione a maggioranza quasi unanime sospettata di non corrispondere all’intima convinzione dei legislatori. Sostenere che i parlamentari adottano una misura alla quale sono intimamente contrari perché non osano contraddire una presunta volontà popolare non convince. Sarebbe aberrante da parte dei parlamentari; ma non è credibile perché hanno spesso adottato misure a loro vantaggio non gradite o addirittura ostacolate da una grande maggioranza degli elettori. Perché allora i parlamentari hanno votato in quel modo? Non loro indistintamente ma alcuni loro capi-partito hanno creato nell’opinione pubblica lo slogan della riduzione per risparmiare, poi l’hanno posto e ottenuto come condizione della coalizione e ora si sentono vincolati reciprocamente alla realizzazione della misura che più nessuno osa contestare.
Non è però un partita fra parlamentari, dirigenti di partito da un lato e giornalisti, opinione ed elettori dall’altra. C’è un terzo attore, indispensabile, in carica della coerenza giuridica, logica, sistemica. Spetta agli esperti, all’accademia, alla dottrina notare, denunciare ed ostacolare errori (almeno quelli più clamorosi). E nel caso specifico si tratta indubbiamente di un errore, forse non politico, ma teorico e di metodo. 1. Come si può seriamente cambiare il numero dei parlamentari senza modificare anche (insieme o prima) la legge elettorale (serve come minimo un adeguamento tecnico)? 2. Come non tenere inoltre conto dell’impatto sulla rappresentanza politica? Con i nuovi numeri deputati e senatori non saranno più gli stessi di prima. Tutto sommato, almeno in teoria, il potere di assemblee meno numerose è maggiore. D’altra parte però più si riducono i numeri e più difficile sarà assicurare due composizioni omogenee (come ora tutti, incluso il Presidente della repubblica, vorrebbero che sia, benché i costituenti l’avessero inteso nel modo opposto). Se quello fosse davvero l’obiettivo, la riforma più coerente, per favorire una maggioranza coesa, non consisterebbe piuttosto nella rinuncia al bicameralismo? L’ordine logico della riforme inizierebbe quindi con la riforma del bicameralismo, inventando eventualmente (come sostengo altrove) un ruolo nuovo per il Senato, diverso da quello ambiguo della riforma del 2016. Poi si dovrebbe fissare il numero dei componenti dell’unica camera parlamentare rimasta, e definire assieme al loro numero una legge elettorale. Se si intende scegliere l’uninominale è preferibile non abbassare troppo il numero dei deputati, mentre con una legge proporzionale di lista trecento cambia poco rispetto al doppio. Ma spetta alla dottrina costituzionale ricordare e far valere questi argomenti in un dibattito pubblico che ha perso la bussola, da tempo.