Perché ciò che Sabino Cassese sostiene contro il referendum elettorale non può essere condiviso

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di Andrea Morrone

Sostiene Sabino Cassese (cfr. I rischi che si corrono a giocare con le leggi, in Corriere della sera dell’11 gennaio 2020), che il referendum elettorale per l’introduzione dei collegi uninominali sarebbe inammissibile, perché il “furbo architetto” della proposta avrebbe confezionato un quesito mediante un collage di norme, pensate per fini diversi e, quindi, prese a caso, facendo come “Tarzan che, per muoversi velocemente nella giungla, andava con liane da un albero all’altro”.

Sostiene Cassese, che il quesito elettorale non si limita a abrogare le disposizioni della legge per l’elezione delle Camere, ma ha ad oggetto anche una legge diversa, e cioè una “legge diretta ad uno scopo (la riduzione dei parlamentari), per adoperarla come strumento per un altro scopo (la trasformazione del sistema elettorale)”. Inoltre, sostiene Cassese, il quesito amputerebbe questa legge del dies a quo previsto per la revisione dei collegi elettorali, quale conseguenza della riduzione dei parlamentari, lasciando così indeterminato il momento della sua decorrenza.

 

Agendo in una simile maniera, sostiene Cassese, “l’ardita invenzione” avrebbe privato la legge delega sia dell’oggetto sia del tempo, con “vulnerazione dell’assetto organizzativo costituzionale”. “Le leggi non sono bon à tout faire”, perché – sostiene sempre Cassese – “bisogna rispettare la volontà del Parlamento, specialmente se si è sul crinale di un principio fondamentale, che riguarda l’assetto organizzativo costituzionale, quello della riserva di funzione legislativa del Parlamento”.

 

L’esito del ragionamento non è soltanto che “Non si può prendere una legge delega e farle dire quello che non dice, né darle un tempo a piacimento”, ma, parossisticamente, quello per cui “Se si pensa che la formula elettorale debba essere decisa dall’elettorato (una conclusione che molti ritengono non saggia, per la complicatezza della materia), lo si faccia in modo diretto a chiaro, non per vie traverse”.

Sabino Cassese è troppo saggio per non sapere che qualunque architetto di un referendum, specie in materia elettorale, non può affatto sottoporre al popolo una qualsiasi domanda, ma è costretto, se vuole proporre quesiti ammissibili, a rispettare gli stringenti criteri che vigono in questo ambito, e che sono stati elaborati dalla Corte costituzionale nel corso della sua lunga giurisprudenza. La cosa veramente indispensabile, al fine di valutare l’ammissibilità di un referendum elettorale è, per rimanere nella metafora di Cassese, focalizzare l’attenzione non sulle acrobazie di Tarzan, ma sulla circostanza se Tarzan, nelle sue contorsioni, abbia o meno rispettato le regole del gioco. Fuor di metafora, Cassese condanna senza appello il referendum elettorale perché lo considera una pomme impoisonée prodotta dall’astuzia dei promotori; ma, in realtà, ciò che conta ai fini dell’ammissibilità, e che Cassese trascura altrettanto abilmente, è esclusivamente il contenuto obiettivo della domanda referendaria, e la sua conformità alla costituzione vivente in questa specifica materia.

Com’è noto, sui referendum elettorali, il diritto vivente deriva integralmente dalla giurisprudenza costituzionale. Secondo la Corte costituzionale, le domande referendarie su leggi elettorali devono rispettare una serie di requisiti necessari: ammissibili sono solo i quesiti parziali e non quelli totali (la manipolazione può riguardare pure singole parole, “anche se prive di autonomo significato normativo”: sent. n. 32 del 1993); devono essere necessariamente omogenei, e ciò non solo nell’oggetto ma anche nella cd. normativa di risulta; e, soprattutto, i quesiti elettorali devono essere auto-applicativi, per consentire comunque le elezioni, allo scopo di evitare l’ipotesi “anche solo teorica” che il referendum abrogativo lasci sguarnito l’ordinamento di un meccanismo di rinnovo di un organo costituzionale (cfr. sentt. nn. 29 del 1987, 47 del 1991, 32 del 1993, 5 del 1995, 27 del 1997, 13 del 1999, 15 e 16 del 2008).

Ecco allora la posta in gioco, il vero thema decidendum: il referendum elettorale sui collegi uninominali deve essere valutato nella sua oggettiva struttura formale e solo alla stregua di questi criteri giurisprudenziali, e non di questo o quel punto di vista, di natura puramente soggettiva.

Quella della giurisprudenza costituzionale in materia di referendum elettorali è una storia troppo nota, soprattutto ai giuristi, per essere nuovamente ricordata. Del resto, lo stesso Cassese ne è ben consapevole: a tal punto che, nel suo articolo, non affronta nessuno di quei classici problemi di ammissibilità, ma sposta ulteriormente in avanti la soglia dell’(in)ammissibilità dei quesiti elettorali. Oggi, ad essere in questione, sostiene Cassese, sarebbe l’organizzazione costituzionale, per avere il referendum abrogativo ad oggetto una legge delega, che verrebbe deformata nella sua funzione, per essere piegata agli obiettivi politici dei promotori.

In fondo, è chiaro quel che vuole Cassese: offrire alla discussione un espediente, l’ennesimo, utile per inventare ad arte un nuovo limite di ammissibilità, che, nel nostro caso, deriverebbe dalla sua autorevole, ma altrettanto ingegnosa, proposta per una sorta di “garanzia d’istituto” come ostacolo alla proponibilità del referendum abrogativo: in particolare, la “legge di delegazione”, tutelata dall’art. 76 Cost., sarebbe un’altra fonte normativa ad essere esclusa implicitamente dall’elenco degli atti su cui, il corpo elettorale, può presentare delle richieste di referendum ai sensi dell’art. 75 Cost.

Questa tesi prova troppo, e per più d’un profilo. Innanzitutto, quel che per Cassese non sarebbe consentito al corpo elettorale, verrebbe da lui stesso permesso alla Corte costituzionale, la quale, sostiene Cassese, dovrebbe allargare ancora di più il novero delle fonti escluse dall’ammissibilità, così riscrivendo ancora il testo dell’art. 75 Cost. E, potrebbe aggiungersi ancora, in materia di legge di delegazione una simile operazione non sarebbe neppure così nuova nella giurisprudenza, dopo che, con la sent. n. 251 del 2016 (sulla cd. legge delega Madia), il giudice delle leggi ha già contribuito a deformare il volto di quell’istituto, nell’imporre l’intesa con le regioni ogni volta che lo Stato, con quella fonte normativa, incrocia competenze regionali. Singolare che Sabino Cassese non ricordi le sue severe critiche a quella decisione, che, sosteneva allora lo stesso Cassese, riscrivevano l’assetto organizzativo della Costituzione repubblicana!

Il punto più critico della teoria di Cassese è, però, un altro: non tiene conto – volutamente o meno poco conta – che l’inserimento nel quesito elettorale della legge n. 51 del 2019 non è affatto, per dirla con la sua metafora, un “cambio di liana” fatto con la disinvoltura di Tarzan nella giungla, ma un’oggettiva necessità proprio secondo la costituzione vivente, rispondendo pienamente alla giurisprudenza costituzionale, che Cassese vorrebbe non tanto richiamare (e, comunque, solo in parte), ma, soprattutto, rinforzare avanzando quel nuovo limite di ammissibilità.

La legge n. 51 del 2019 non è la legge sulla riduzione dei parlamentari, ma una legge approvata dal Parlamento per consentire l’applicazione della formula elettorale vigente anche nell’ipotesi – che era coeva al momento della sua approvazione e, poi, è diventata realtà l’8 ottobre 2019 – dell’approvazione di una legge costituzionale diretta a ridurre il numero dei rappresentanti. La legge n. 51 del 2019, innanzitutto e precisamente, modifica la legge elettorale vigente, prevedendo una diversa definizione del rapporto tra collegi uninominali e collegi plurinominali, da stabilire in rapporto al nuovo numero dei parlamentari eleggibili. A questo scopo precipuo, di conseguenza, quella legge n. 51 del 2019 dispone anche (e, quindi non ne costituisce l’oggetto specifico) una delega al governo, necessaria per disegnare la (nuova) geografia dei collegi elettorali, corrispondente alla nuova e diversa composizione del Parlamento.

Com’è noto agli studiosi di referendum abrogativo, l’ammissibilità di un quesito si regge secondo la Corte costituzionale su due criteri particolari, che ne condizionano l’ammissibilità. Il primo: la “matrice razionalmente unitaria”, ossia l’identità della domanda, che deve perseguire un fine determinato, univoco, che permetta di unificare nella sua ratio unitaria, anche la pluralità delle disposizioni incluse in un quesito parziale o manipolativo, anche quelle che al comune mortale sembrano formule prive di senso. Il secondo: il criterio della “completezza del quesito”, secondo il quale l’oggetto della domanda deve comprendere tutte le disposizioni che siano coerenti con, e funzionali alla, matrice razionalmente unitaria che lo sorregge. Senza l’una e l’altro il quesito è inammissibile.

Alla luce di questi principi, l’obiezione che sostiene Cassese è del tutto fuori tema: nel quesito elettorale in discussione non viene affatto operato uno sviamento del fine originario della legge n. 51 del 2019 verso un diverso obiettivo (legge n. 51 del 2019 che, come detto, non è tanto la forma di una delega al governo ma, soprattutto, l’atto introduttivo di una diversa disciplina della formula elettorale vigente). Il quesito elettorale ha ad oggetto anche la legge n. 51 del 2019 perché esso, secondo la costituzione vivente in materia di referendum abrogativo, non poteva e non può non estendersi – e precisamente nel modo esatto in cui il ritaglio è stato in concreto svolto – anche alla legge n. 51 del 2019.

La domanda referendaria, sorretta da una inequivoca e oggettiva matrice razionalmente unitaria, è quella di abolire i collegi plurinominali attribuiti con metodo proporzionale, per estendere a tutti i seggi disponibili il metodo di assegnazione sulla base dei collegi uninominali. Questo risulta chiaramente dall’oggetto del quesito, e non è affatto in questione, neppure nella tesi che sostiene Cassese nel suo articolo.

Ma se questa è la ratio del referendum elettorale, il quesito non può non ricomprendere nell’oggetto della domanda anche le disposizioni della legge n. 51 del 2019, laddove si riferisce alla formula elettorale vigente, che contempla tanto i collegi uninominali, quanto i collegi plurinominali: solo espungendo questi ultimi dall’ordinamento vigente il quesito è completo, perché altrimenti ne verrebbe frustata proprio la ratio unitaria, che, se rimanessero i collegi plurinominali nel testo della legge n. 51 del 2019, avrebbe contraddittoriamente natura ancipite (dato che la volontà referendaria sarebbe diretta, da una lato, ad eliminare alcune disposizioni sui collegi plurinominali e, dall’altro, a lasciare in vigore i collegi plurinominali previsti dalla legge n. 51 del 2019).

Dunque, solo l’inserimento, nell’oggetto della domanda, anche di quelle specifiche disposizioni della legge n. 51 del 2019 che si sono indicate, permette al quesito abrogativo d’essere un quesito oggettivamente coerente con la ratio unitaria di rendere generale la formula elettorale del collegio uninominale e, altresì, un quesito completo materialmente, nell’eliminare dall’ordinamento vigente ogni disposizioni che prevede l’assegnazione di seggi parlamentari mediante i collegi plurinominali con metodo proporzionale.

Ma non è tutto. Proprio la matrice razionalmente unitaria del quesito esige, poi, una congruente manipolazione dei contenuti della delega legislativa di cui all’art. 1 della legge n. 51 del 2019. Il quesito elettorale deve essere auto-applicativo, ossia mantenere vigente una normativa di risulta che permetta il rinnovo dell’organo costituzionale che si tratta di eleggere (diversamente). Amputare, con il quesito elettorale, la disposizione che lega la delega all’approvazione della riduzione dei parlamentari, discende linearmente proprio dal requisito giurisprudenziale della auto-applicatività.

Non è ignoto, neppure a Cassese, che la legge n. 51 del 2019 sia stata proposta da quel “furbo architetto” che ha escogitato il presente quesito elettorale, proprio per corrispondere, con il suo contenuto normativo, al requisito giurisprudenziale della auto-applicatività. Stratagemma, peraltro, non nuovo nella storia dei referendum elettorali: il precedente più importante è stato la leggina che, nel 1992, ha permesso al quesito sulla legge elettorale del Senato di diventare auto-applicativo, superando le obiezioni contenute nella sent. n. 47 del 1991, ai fini della sua ammissibilità, pronunciata apertamente nella sent. n. 32 del 1993 della Corte costituzionale (cfr. A. Barbera e A. Morrone, La Repubblica dei referendum, Bologna, Il Mulino, 2003, 133 ss.).

Fatto si è, ancora una volta oggettivamente, che al di là di quella diabolica trovata la legge n. 51 del 2019 è ora una legge vigente, e che l’amputazione, nel presente quesito, del riferimento all’approvazione della riduzione dei parlamentari, consente al referendum di soddisfare proprio il requisito dell’auto-applicatività, rendendo utilizzabile la delega al riordino dei collegi anche nel caso di approvazione del referendum sui collegi uninominali. “Anche”, ho detto: ossia non viene meno affatto, per effetto del referendum, la ratio originaria della legge delega, come sostiene Cassese. La delega, per così dire, da speciale diventa generale e, quindi, non c’è nessun cambio di ratio legis, che era e rimane intatta nella sua essenza.

Ancora: è proprio la matrice razionalmente unitaria del quesito referendario che impone, per la necessità di renderlo auto-applicativo, di rivolgersi – così come è oggettivamente contenuto nel quesito – al testo della legge n. 51 del 2019. Se l’estensione del collegio uninominale a tutti i seggi disponibili è il fine del referendum abrogativo, la possibilità di renderlo auto-applicativo esige di disporre di una disciplina vigente sul riordino dei collegi. E, nel nostro caso, proprio di quella disciplina contenuta nella legge n. 51 del 2019, che, a differenza di quanto accadeva nei passati quesiti elettorali (bocciati, di contro, per la mancanza di qualsivoglia regola sul riordino dei collegi: cfr. sent. n. 5 del 1995, confermata nella sent. n. 26 del 1997), mette a disposizione lo strumento per fare corrispondere i collegi elettorali al numero dei seggi assegnati a Camera e Senato.

Il ritaglio referendario nella sua formulazione testuale, infatti, ha ad oggetto la previsione di una delega sul disegno dei collegi elettorali, nella parte in cui si riferisce all’approvazione della revisione sulla riduzione dei parlamentari, per essere conseguentemente estesa, a seguito dell’amputazione di quell’ipotesi, a qualsiasi caso in cui tratteggiare una diversa geografia dei collegi diventi necessario in concreto. Anche qui, però, il risultato è oggettivo, e in linea, com’è arcinoto, con quanto il giudice delle leggi richiede nella sua giurisprudenza. Il referendum manipolativo, per rimanere entro le colonne d’Ercole del giudizio di ammissibilità, entrando nel mare aperto di una domanda plebiscitaria inammissibile, deve disegnare la normativa di risulta secondo le traiettorie consentite dall’ordinamento vigente. Il risultato referendario, infatti, non può essere il frutto della fantasia creativa dei promotori, il risultato, cioè, di un artificioso collage di disposizioni eterogenee prive di connessione, fatto per raggiungere qualsiasi scopo il comitato abbia a mente; la normativa di risulta, tutto all’opposto, deve essere esclusivamente l’effetto della naturale ri-espansione di una regola generale, implicita nel testo normativo inciso dal quesito, la cui efficacia normativa è, però, da quel testo limitata ad alcuni casi determinati (cfr. sentt. nn. 36/1996, 13 del 1999, 15 e 16 del 2008). Ed è proprio questo che come ho detto, in maniera oggettiva, fa il presente quesito elettorale.

L’unica risposta che parrebbe rimanere priva di riferimenti testuali – questa l’unica concessione, ma molto limitata, per quello che dirò, alla tesi che sostiene Cassese – è il dies a quo di decorrenza dei sessanta giorni per l’esercizio della delega (nel testo vigente, a partire dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale sulla riduzione dei parlamentari). Ciò nonostante, come ho dimostrato in un altro scritto (In controtendenza. Note sull’ammissibilità del referendum elettorale per i collegi uninominali, in Federalismi.it, 18 dicembre 2019), si tratta di un mero inconveniente, che nulla ha a che vedere con la configurazione costituzionale della legge di delegazione, almeno secondo quel che sostiene Cassese.

La delega è e resta, anche dopo il referendum abrogativo, una delega per un “tempo limitato”, appunto, sessanta giorni. Il venir meno della decorrenza dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale sulla riduzione dei parlamentari, in ogni caso, non lascia nudo l’interprete. Per effetto della manipolazione referendaria sul testo della legge n. 51 del 2019, la decorrenza dei sessanta giorni non potrà che coincidere con la data di vigenza dell’effetto abrogativo: il dies a quo, conseguente linearmente all’ablazione referendaria, è quello in cui entrerà in vigore il decreto del Presidente della Repubblica che dichiara l’esito positivo della consultazione popolare (o il giorno in cui il decreto del Capo dello Stato avrà eventualmente differito quegli stessi effetti ablativi).

Dovrebbe costituire un canone di giudizio generale, assodato per i giuristi di vaglia, che un inconveniente è tale proprio quando per scioglierlo sussistono soluzioni ragionevoli consentite dall’ordinamento; e, all’opposto, un inconveniente diventa un problema insormontabile, quando non c’è nell’ordinamento vigente una via interpretativa che permetta di rimuoverlo in concreto. Del resto, per riprendere le osservazioni critiche che Riccardo Guastini muoveva alla malferma decisione che dichiarò inammissibile il quesito sulla reviviscenza del Mattarellum (sent. n. 13 del 2012, redatta dal giudice Sabino Cassese), proprio quando la risoluzione di un problema giuridico è, come nel nostro caso, dall’ordinamento “interamente affidata alle costruzioni dei giuristi”, “sarebbe bene che le costruzioni dogmatiche dei giuristi fossero valutate non per la loro eleganza e armonia concettuale, ma per i loro effetti pratici” (cfr. la nota tranchant di R. Guastini, Senza argomenti. La Corte sulla reviviscenza (e dintorni), in Giur. Cost., 2012, 111, pag. 115 per la citazione).

Per concludere. Sabino Cassese sostiene una tesi che prova troppo e che ha, essa stessa, l’unico incauto merito di deformare la costituzione vivente in materia di referendum abrogativo contro un diritto politico fondamentale del cittadino. In materia di diritti fondamentali, insegna la Corte costituzionale, occorre privilegiare la massima espansione dei diritti, con conseguente messa al bando di tutte quelle interpretazioni che, invece, si pongono contro i diritti, a difesa di astratti e ipotetici poteri, che, o sono legittimi perché serventi gli interessi dei componenti di una polis, o sono essi stessi illegittimi. E nella giurisprudenza costituzionale non v’è il minimo dubbio che la Corte costituzionale si sia mostrata attenta alle domande (e alle relative ragioni) provenienti dalla società civile (basti pensare alla coppia delle decisioni contenute nelle sentt. nn. 16 e 68 del 1978), anche se questa premura non sempre negli esiti si è rivelata favorevole ai referendum elettorali. E ciò, guarda caso, è accaduto proprio quando Azzeccagarbugli ha prevalso su Dike.

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5 commenti su “Perché ciò che Sabino Cassese sostiene contro il referendum elettorale non può essere condiviso”

  1. A prescindere dalle mie convinzioni e preferenze in materia di legge elettorale, sono perfettamente d’accordo con l’analisi della questione dell’ammissibilità del referendum abrogativo in materia elettorale fornita nell’articolo. L’autore smonta i deboli argomenti formali e disperatamente pretestuosi di Sabino Cassese il quale ha solo ragione quando insiste sulla delicatezza o, come dice lui, su “la complicatezza della materia” elettorale, mentre il professor Morrone invoca giustamente la natura fondamentale dei diritti in gioco che non può non incidere sulla questione dell’ammissibilità (cf. la sentenza 1/2014). Chi dovrebbe decidere in ultima istanza su una questione così delicata, complicata e fondamentale? Non convince né il tentativo di screditare il referendum come strumento di un “furbo architetto”, per inventare e giustificare sempre nuovi limiti giurisprudenziali all’ammissibilità, né l’argomento “che bisogna rispettare la volontà del Parlamento, specialmente se si è sul crinale di un principio fondamentale, che riguarda l’assetto organizzativo costituzionale …” A chi si vorrebbe opporre tale “riserva di funzione legislativa del Parlamento”? All’astuto “architetto” del referendum o al “popolo sovrano” che si esprime nelle forme dell’articolo 75 e nei limiti fissati dalla Corte? Non è piuttosto l’eccesso di formalismi invocati ad arte dai giudici supremi per sindacare a seconda delle loro preferenze di merito chi decide legittimamente, il legislatore eletto o il corpo elettorale? Tutto il discorso mal cela la battaglia donquichottesca sul merito: proporzionale o maggioritario? Ma è davvero quella l’alternativa? Un’analisi dottrinale debole e un’opinione pubblica accecata da preconcetti (spesso interessati, se non cinicamente manipolati) che ha portato i dibattito, o piuttosto il discorso pubblico, fuori rotta. Se il maggioritario include i modelli iper-maggioritari, con maggioranze predeterminate non più discutibili per la durata della legislatura, inutilmente rigidi e obiettivamente in conflitto con il libero mandato, allora ha ragione Sabino Cassese: bisogna resistere con tutti i mezzi. Ma l’uninominale (meglio se fosse a doppio turno) in numerosi collegi è tutt’un’altra cosa. Venne promosso negli anni 40 dell’ottocento addirittura come parata “proporzionale” ai sistemi iper-maggioritari, spesso indiretti, allora in uso. D’altra parte, il proporzionale in più o meno grandi circoscrizioni con liste bloccate, pluri-candidature e finte scelte nominative è peggio del peggior maggioritario. E se fosse proprio la giurisprudenza accentratrice, incerta, imprecisa, succube di ordinamenti stranieri non proprio fra i più scrupolosi (nella materia) e succube delle analisi descrittivi dei politologi, poco attenta ai diritti elettorali attivi e passivi, che ha permesso al legislatore di mettere il paese nella situazione assurda in cui si trova: la legge più importante per la legittimazione del potere pubblico (parlamento, e governo, e tutte le autorità pubbliche e organi costituzionali da loro nominati), è retto dal 2005 da una legge elettorale dichiarata o sospettata incostituzionale, comunque nuovamente contestata, riformulata almeno una volta in ogni legislatura con stratagemmi sempre più ingegnosi? Basta la battaglia ai mulini, tutta l’Europa ride dell’Italia (fin quando non si rendono conto che ci sarebbe da piangere, per tutti).

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  2. Addendum post-sentenza. Secondo la Corte il quesito è (troppo) manipolativo, cioè -si può presumere- prevede l’abrogazione articolata di un certo numero di disposizioni legali, ritenuta complessivamente eccessiva, troppo complessa, difficile a capire per chi deve scegliere. Sabino Cassese ha sostenuto che la materia è di per sé troppo complicata per essere utilmente decisa attraverso un verdetto popolare. Di fronte a questi argomenti l’autore dell’articolo sostiene che la materia è fondamentale, cioè di primaria importanza per la corretta definizione dell’architettura costituzionale e non dovrebbe quindi troppo alla leggera essere esclusa dalle materie ammesse all’iniziativa referendaria. Si pone la questione a chi spetta la decisione in tale materia complessa e delicata, ma di cruciale importanza. Nessun dubbio che un’assemblea rappresentativa è più attrezzata del popolo sovrano (Seguendo le indicazioni di qualche astuto promotore) per definire una soluzione adeguata. Ma si trova in una situazione di conflitto d’interessi. Nessun dubbio che una soluzione adeguata deve pure rispondere ai principi supremi di coerenza costituzionale che nessuno in teoria sa far valere meglio dell’Alta Corte. Nel caso concreto siamo però davanti alla seguente alternativa: 1. ammissibilità voleva dire rinviare al verdetto popolare (al quale sarebbe servito comunque oltre la maggioranza anche il quorum) dopo ampio dibattito pubblico (esperti, attori politici, commentatori, media) la scelta fra 1.1. un sistema elettorale ultra-semplice e conforme (a di là delle preferenze politiche non c’è dubbio circa la legittimità di un sistema uninominale secco) alla costituzione, ottenuto attraverso delle abrogazioni “manipolative”, cioè complesse ed articolate pensate da un “astuto architetto”, e 1.2. una legge di segno opposto, ma incerta (ancora da definire), molto complessa (pluri proporzionale a cascata, formule, rischi di incoerenza) e di dubbia costituzionalità (liste bloccate, pluricandidature, etc) abbozzata dalla maggioranza parlamentare, o 2. inammissibilità (poco importano le ragioni, ou n ogni caso create dalla Corte e a priori molto discutibili come spiegato dal prof. Morrone) e scelta sovrana del Parlamento, cioè dell’attuale maggioranza (= soluzione 1.2.). I giudici hanno deciso. La Corte del 2020 è più conservatrice di quella del 2014, che aveva osato infrangere il muro dell’inammissibilità (di creazione propria) giustamente perché erano in gioco i diritti politici più fondamentali …

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  3. Non c’è due senza tre: la Corte ha confermato che le condizioni di richiesta di referendum confermativo ex art. 138 sono soddisfatte. Una minoranza parlamentare ne ha fatto domanda contro la legge costituzionale, approvata a maggioranza semplice, che riduce ad il numero dei componenti di entrambe le camere. Formalmente tutto regolare. C’è però un problema di sostanza. Che cosa significherà il verdetto popolare a maggioranza semplice senza quorum? Che il sovrano fissa perentoriamente (per un certo tempo almeno) il numero dei parlamentari eletti a 945 o a 400 + 200. Che senso ha prendere questa decisione in astratto? O in concreto con l’attuale sistema costituzionale invariato, cioè due camere paritetiche ma ormai quasi perfettamente omogenee, un’assurdità notata da pochi (nemmeno dal P/R che nel 2018 ha pubblicamente esordito il parlamento a adottare una legge omogenea per il Senato). Non è l’ennesima follia? C’è addirittura chi pubblica dotte riflessioni sul numero “giusto”, o comparativamente uniforme (quod non) del numero di rappresentanti per numero di abitanti, cittadini o elettori. Due aberrazioni! L’unico risultato del referendum costituzionale sarà quello di creare in un senso o nell’altro una rigidità pericolosa. Non era preferibile proporre ai promotori demagogici della riduzione dei parlamentari (per ragioni di spesa pubblica e di lotta contro la casta!) di rinviare l’intera questione a una revisione più ampia e più profonda, per esempio alla soppressione della seconda camera e alla rinascita del Senato come organo poco numeroso con poteri puramente consultivi (e di vero sospensivo nelle materie più fondamentali), con mandato lunghi a individui qualificati, eletti (dalla Camera o fra candidati disegnati da essa) per terzi dell’organico in modo da assicurarne la stabilità. Se simultaneamente si abolissero le circoscrizioni estere permettendo ai non residenti di votare per 20 anni nella loro circoscrizione di origine o di partenza, il numero dei parlamentari sarebbe ipso facto inferiore a quello sottoposto a referendum. Il difetto più grave della rappresentanza parlamentare è tuttavia quello che denuncio senza tregua ma con scarso successo da quando ho commentato sul Forum Costituzionale la sentenza 1/2014. Il vizio che stigmatizzo è la causa (meccanica) dell’irresponsabilità democratica dei componenti di entrambe le camere. È inoltre lo strumento del controllo extra-parlamentare dei deputati e senatori. Il potere extra-parlamentare appartiene a colui che fissa le liste e l’ordine dell’elezione, che sia un (anzi due) senatore (-i) senza scrupoli, un magnate dichiarato ineleggibile per gravi reati contro la fede pubblica o un triumvirato per due terzi mai sottoposto a una procedura elettorale. Dopo il referendum sul numero dei parlamentari le istituzioni italiani saranno (ancora) più deboli, più incoerenti e più incomprensibili di quanto lo sono già. Di chi è la colpa? Dei politici sprovveduti, cinici, incapaci? O di coloro fra giudici e costituzionalisti che per mestiere dovrebbero vegliare sulle condizioni di coerenza, di conformità democratica e di efficacia del sistema di governo? Non era preferibile votare sull’altro referendum che contrariamente alla sentenza di inammissibilità era facilmente comprensibile e decidibile dagli elettori e avrebbe forse permesso di scomporre gli schieramenti più o meno demagogici fra promotori dell’iniziativa e i loro avversari alleati di governo per riallinearsi su un clivage di merito, fra uninominale (da trasformare in doppio turno) e proporzionale di lista (che potrebbe anche essere ammorbidito in un proporzionale con riparto DEFINITIVO in circoscrizioni non troppo grandi). Questo sarebbe un discorso pubblico serio. Ma in questo paese si sta parlando (da ormai 30 anni!) di tutt’altro.

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    • Scusi, Schmit, ma i suoi commenti si fanno sempre più lunghi e assertivi. E non privi di inesattezze. “Non c’è due senza tre” è un incipit sbagliato. La Corte che ha dato il via libera al referendum costituzionale è l’ufficio centrale della Cassazione, non la Corte costituzionale: ed è un giudizio meramente formale sul numero e la correttezza delle sottoscrizione della richiesta. Non viene compiuta alcuna valutazione nel merito: è sostanzialmente un atto dovuto.
      Per altro la legge di riforma cost. non è stata approvata a maggioranza semplice, ma – come prescritto dall’art. 138 – a maggioranza assoluta: il che non cambia affatto che possa e debba essere criticata, è ovvio. Come è ovvio che sarebbe stato meglio riformare o eliminare la seconda camera. Ma questo è il frutto della scelta politica fatta dalla maggioranza delle camere, che c’entrano i giudici? La Corte cost. ha dichiarato inammissibile il referendum proposto da alcune regioni: il giudizio non riguardava la preferibilità di un tipo o l’altro di sistema elettorale, ma l’ammissibilità di un referendum straordinarimanete manipolativo: sono ordini di valutazioni completamente diverse e certo non sarebbe auspicabile che la Corte chiudesse un occhio sugli aspetti procedurali perché preferisce un sistema elettorale all’altro. La inviterei a non confluire anche lei in questa marea di gente, spesso nostri rappresentanti, che non sa o non vuole distinguere il contenuto delle scelte politiche dalle regole che governano le competenze e le modalità di chi decide.
      In conclusione, anche per rispetto del tempo di chi le sue osservazioni deve leggere prima di pubblicarle, la prego vivamente di trattenersi da commenti alluvionali e molto approssimativi nelle considerazioni “tecniche” che si avanzano. Grazie. RB

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  4. Due e tre sono ovviamente i miei commenti. Non ho confuso le due procedure, ma non precisando l’autore della seconda decisione ho creato involontariamente un equivoco. Sostengo implicitamente (senza insistervi) che Consulta sapeva che il referendum costituzionale confermativo era inevitabile e poteva tenerne conto. Giusta l’osservazione sulla maggioranza ma intendevo ovviamente la maggioranza da lei precisata. Contrariamente al mio commento libero che è solo opinione, la Corte non si esprime sul bicameralismo, benché abbia consacrato (prima del Presidente della Repubblica) il concetto (secondo me aberrante) dell’omogeneità della composizione attraverso l’omogeneità delle procedure elettorali. Non è questo monocameralizzazione rampante? Capisco e accetto che ogni rivista e forum online possa e debba fare una selezione delle proprie pubblicazioni. I miei commenti compensano il fatto che Lei ha rifiutato il mio articolo, pardon la mia opinione, sui diritti elettorali mal garantiti (o malmenati) dalle due sentenze 1/2014 e 35/2017. La mia modesta analisi è comunque disponibile sulle mie pagine di academia.edu. Si vede peraltro poco dibattito e scarsa interdisciplinarità sulle pagine di questo forum. Sono passati sei lunghi anni e la mia analisi critica della 1/2014 (pubblicata senz’altro per errore sui Quaderni Costituzionali) sembra sempre più azzeccata.

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