Coronavirus e territori: il regionalismo differenziato coincide con la zona “gialla”

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di Camilla Buzzacchi

Il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, adottato il 1 marzo 2020 per arginare la situazione sanitaria presentatasi nel Paese con tratti di urgenza e straordinarietà a partire da venerdì 21 febbraio, è l’ultimo di una serie di provvedimenti attraverso in quali, nel giro di pochi giorni, è stato portato in attuazione il d. l. 23 febbraio 2020, n. 6 recante Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19: le precedenti deliberazioni sono state rappresentate da una serie di decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, da ordinanze del Ministro della Salute nonché da ordinanze del medesimo dicastero ma adottate d’intesa con i Presidenti di varie Regioni, che nel preambolo del DPCM di domenica 1 marzo vengono richiamate.

La particolarità dell’ultimo provvedimento è di individuare varie zone all’interno del Paese – che i mezzi di informazione ma anche il sito istituzionale del Governo individua utilizzando riferimenti a colori, e dunque rosso per i Comuni di Lombardia e Veneto da cui il contagio è partito, giallo per tre Regioni e due Province – per le quali vengono diversificate previsioni di misure che su vari fronti sono finalizzate ad evitare la diffusione del contagio. Di conseguenza l’allegato 1 elenca quei dieci Comuni lombardi e quell’unico Comune veneto nei quali le restrizioni sono massime; l’allegato 2 i territori – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e le Province di Pesaro e Urbino e Savona – nei quali si procede a sospendere o a limitare un complesso di attività sociali ed economiche; l’allegato 3 le quattro Province di Bergamo, Lodi, Piacenza e Cremona nelle quali devono applicarsi specifiche modalità di apertura dei centri commerciali.

Se dunque si fa riferimento in particolare all’allegato 2, la circostanza che colpisce è che – per ironia della sorte – le tre Regioni che sono più pesantemente colpite dall’emergenza sanitaria legata al virus Covid-19 sono le stesse che dal 2017 stanno percorrendo il cammino messo a disposizione dall’art. 116 Cost.: Veneto, Lombardia e Emilia Romagna stanno fronteggiando una situazione del tutto anomala per via di una epidemia, che richiede uno sforzo eccezionale per gli apparati istituzionali e amministrativi dei sistemi-Regione e del sistema-Paese, e tale straordinarietà della situazione ha delle evidenti e significative implicazioni sul piano delle competenze. Tali implicazioni appaiono in una luce ancora più paradossale se si considera che si tratta di quei territori che hanno dato un’interpretazione ‘estrema’ alla previsione costituzionale relativa al ‘regionalismo differenziato’, posto che le suddette Regioni, nelle varie proposte di differenziazione che hanno avanzato, hanno ritenuto di poter assumere larga parte o interamente le competenze di natura concorrente dell’art. 117 Cost, co. 3. La vicenda in atto, nella drammaticità delle conseguenze che sta determinando, può forse suggerire qualche utile riflessione sulla praticabilità del trasferimento di attribuzioni che, in fasi ordinarie della vita della Repubblica, possono presentarsi con caratteri tali da potersi ritenere indifferente che esse siano esercitate dallo Stato o dalle Regioni; o addirittura – come è stato il ragionamento che ha sostenuto le richieste di differenziazione di Veneto, Lombardia e Emilia Romagna – da potersi ritenere che la Regione possa occuparsene con ben maggiore efficacia ed anche efficienza. Ma che in fasi straordinarie, come l’attuale, rivelano una serie di specificità e criticità la cui soluzione pare difficile se la Regione – da sola – è chiamata a provvedere, e che invece è individuabile solo se anche il livello nazionale viene coinvolto. Lo scenario contingente spinge allora a domandarsi se la valutazione “a tavolino” della capacità delle tre Regioni della zona “gialla”, che è stata effettuata in tempi non di coronavirus, di poter assumere una cospicua quantità di competenze concorrenti sia confermata come adeguata anche in un frangente ben diverso, di pressione e di imprevedibilità. Il dubbio che si avanza è che tale valutazione, che ha riguardato la capacità delle strutture amministrative e la sostenibilità finanziaria in una prospettiva di esercizio ordinario delle funzioni, risulti inaffidabile e inattendibile allorché una realtà ben diversa, di vera e propria emergenza e dunque di esercizio straordinario delle funzioni, veda questi territori in oggettive e comprensibili difficoltà, e curiosamente proprio con riferimento a quelle due potestà – istruzione e tutela della salute – che erano state messe al centro della loro domanda di differenziazione.

La questione sanitaria è quella che più offre esempi di problematicità. Le eccellenti strutture ospedaliere della Regione Lombardia sono sottoposte ad una pressione imprevista, con la necessità di alleggerire le attività dei reparti di terapia intensiva da tutti quei casi che normalmente esse trattano, per offrire disponibilità ai crescenti casi di malati di Covid-19, che necessitano di trattamenti di particolare complessità sanitaria. In questi giorni appare necessario un intenso coordinamento tra enti ospedalieri che verosimilmente esorbiterà dalla dimensione regionale e richiederà una costante attività del Ministero della Salute, tesa a garantire che le prestazioni sanitarie non vengano meno e che tutte le strutture sanitarie delle Paese siano adeguatamente coinvolte nello sforzo, in una irrinunciabile logica di solidarietà.

Ma ancora, si è parlato di gravissima carenza sul piano del personale sanitario, dai medici agli infermieri: le misure che sono al vaglio vanno dal richiamo in servizio dei medici in pensione all’anticipo delle lauree degli studenti dei corsi infermieristici. Ma per interventi di questo tipo le Regioni devono necessariamente passare attraverso provvedimenti normativi dello Stato, che pongano deroghe al rapporto di lavoro di alcune categorie di dipendenti pubblici.

L’insieme di queste criticità porta a porsi l’interrogativo se per una competenza che tocca un diritto tanto delicato e complesso come quello della salute sia così indifferente un assetto come quello vigente che, pur a fronte di apprezzabili capacità regionali nell’assicurare standard di sanità di elevata qualità, prevede un coinvolgimento dello Stato per profili che necessitano di un “governo” effettuato a livello nazionale, piuttosto che un diverso assetto, che invece veda la Regione integralmente responsabile di qualsiasi evoluzione che la materia possa presentare: anche quella – sicuramente estrema e, ci si augura, del tutto unica e isolata – di un’epidemia come quella attuale.

L’altra rilevante materia che Veneto, Lombardia e Emilia Romagna intendono avocare a sé è l’istruzione: anche su questo terreno i riflessi del coronavirus sono massicci, posto che la prima misura che si è adottata per fronteggiare i contagi è stata la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado. Le università, avvalendosi della loro autonomia, hanno anticipato le decisioni che poi il Governo ha adottato per l’istruzione primaria e secondaria. E ancora negli ultimi giorni, in cui soprattutto la Regione Veneto aveva ipotizzato una riapertura degli istituti scolastici, le tre Regioni della zona “gialla” hanno tuttavia provvidamente dichiarato che una possibile sospensione di quella misura avrebbe dovuto essere avallata soprattutto dalle autorità scientifiche competenti, in particolare dall’Istituto superiore di sanità. E tali autorità hanno sollevato le Regioni da scomode responsabilità, indicando l’inopportunità di una ripresa delle attività di istruzione, con una serie di varie conseguenze per tutte le strutture educative che si ripercuotono anche su famiglie – per la permanenza a casa degli studenti – e su molteplici operatori economici – agenzie di viaggio per le iniziative di istruzione, cooperative di ristorazione, quelle di trasporto, solo per richiamarne alcuni – e dimostrando come occorra una regia nazionale per assicurare un diritto fondamentale quale quello dell’istruzione. Al punto che decisioni assunte unilateralmente da alcune Regioni, come è stato ricostruito da Giovanni Di Cosimo, sono suscettibili di innescare una serie di azioni anche di natura giudiziaria tra centro e periferia. Anche in tema di scuola la congiuntura che ci affligge sembra segnalare le complesse implicazioni che deriverebbero da un governo esclusivamente regionale della competenza.

Ma alcune ultime considerazioni devono aprirsi a quel vasto ambito di ulteriori attribuzioni, che le Regioni vocate alla differenziazione hanno rivendicato, e che si riferiscono alla realtà economica e produttiva. Le vicende di questi giorni stano evidenziando i riflessi dell’emergenza sulle attività produttive, tanto più gravi per l’alto livello di industrializzazione delle Regioni della zona “gialla”. La situazione di imprese che hanno arrestato la produzione, di mercati finanziari incerti nell’erogazione di credito al Paese e agli operatori economici, di collegamenti con i mercati esteri che si allentano, richiede che la sfera economica venga sostenuta e protetta. Tale domanda viene dagli stessi Presidenti delle tre Regioni, che si rendono conto che tutta una serie di interventi che non rientrano tra le loro competenze – ammortizzatori sociali, norme in deroga sui mutui, forme di sussidio – sono di vitale importanza affinché i rispettivi tessuti economico-produttivi non abbiano perdite che avrebbero dolorose conseguenze non solo sulle cifre del sistema economico complessivo, ma anche e soprattutto sul piano sociale. Tali competenze riguardano evidentemente il livello statale, e infatti i Presidenti si accingono a coordinarsi con il Ministro dell’Economia per la scrittura di un decreto legge che disciplini l’emergenza economica, dopo che si è provveduto a regolare l’emergenza sanitaria.

Ora, se si considera che le tre Regioni – in realtà con alcune differenze tra loro, ma ai fini di questo ragionamento si possono assimilare – hanno ritenuto di candidarsi per ambiti materiali quali il governo del territorio, il commercio con l’estero, le professioni, la protezione civile, la ricerca scientifica e tecnologica, per richiamare solo alcune delle materie del lungo elenco dell’art. 117, co. 3, c’è veramente da chiedersi se vi sia la necessaria consapevolezza di quale impegno comporti l’assunzione in via esclusiva del governo di tali settori che, se esposti ad andamenti non propriamente brillanti – anche senza arrivare all’eventualità di questi giorni – richiedono necessariamente correzioni e sostegni, a cui un’amministrazione regionale non è detto che sia preparata e adeguatamente attrezzata.

Si giunge così ai profili finanziari del modello della differenziazione, rispetto al quale le bozze avanzate dalle Regioni interessate si presentano troppo vaghe. Ignorando il quadro normativo di riferimento, ovvero la l. n. 42/2009 di Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione ed i vari decreti legislativi di attuazione, l’art. 5 di tutte le proposte regionali ha finora dimostrato superficialità nella quantificazione delle risorse che occorrono affinché un territorio possa reggere una quantità di competenze quali quelle che sono state richieste: risorse che in tempi ordinari devono garantire i diritti e soprattutto i livelli essenziali dei medesimi, e più in generale parametrarsi ai costi che le diverse funzioni hanno finora assorbito, ma che in tempi straordinari devono essere consone anche ad affrontare esigenze di sostegno a realtà produttive particolarmente avanzate. Con la conseguenza che, in presenza di una gestione virtuosa della Regione, si possano addirittura produrre avanzi di risorse rispetto a quanto avviene nel regime vigente, basato su una finanza di trasferimento e compartecipazione, in cui lo Stato sempre è coinvolto; ma anche con l’altra possibile conseguenza, ovvero che in presenza di una gestione poco virtuosa della Regione – o magari virtuosa, ma destabilizzata da accadimenti imprevedibili quali quello in corso al momento – si debba chiedere alla stessa di attingere a strumenti fiscali, che possano recuperare mezzi finanziari presso le rispettive comunità.

Per comprendere la difficoltà che incontrerebbe una Regione a interventi finanziari con tali caratteri di straordinarietà, può forse essere utile segnalare la fonte di copertura che il Governo, con il d. l. 23 febbraio 2020, n. 6 ha individuato per far fronte agli oneri derivanti dallo stato di emergenza sanitaria dichiarato il 31 gennaio 2020, dell’importo di 20 milioni di euro. A tale obiettivo si provvede attraverso una riduzione della spesa introdotta dall’art. 19, co. 1, lett. b), d. l. 26 ottobre 2019, n. 124 recante Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili: viene ridotta la spesa prevista per incentivare l’utilizzo di strumenti di pagamento elettronici da parte dei consumatori, ovvero premi speciali da attribuire mediante estrazioni aggiuntive a quelle ordinarie. Dunque si è deciso di sacrificare una delle misure che nello scorso autunno aveva perseguito l’obiettivo di una maggiore visibilità delle transazioni finanziarie a fini di recupero dell’evasione fiscale.

Per le risorse che occorreranno per le azioni di sostegno straordinario allo studio del decreto legge di cui si è parlato soccorreranno verosimilmente ben altre fonti finanziarie, ovvero i margini di maggior disavanzo che lo Stato italiano si appresta a negoziare con le istituzioni europee in deroga alle fiscal rules a cui le nostre decisioni di bilancio si conformano.

In entrambi i casi è evidente che sono in gioco stanziamenti che, in circostanze di eccezionalità, non sarebbero alla portata delle Regioni nella fase post-differenziazione: l’intera vicenda suggerisce pertanto alle Regioni della zona “gialla”, una volta che sperabilmente questo passaggio così difficile sarà superato, di effettuare analisi più precise di quanta capacità di bilancio comporti sobbarcarsi un vasto numero di competenze in tempi felici, ma anche in tempi infausti. E meditare sul fatto che il “rischio differenziato” che i provvedimenti governativi stanno cercando di contenere può essere un’ottima occasione per ponderare realisticamente quanta “differenziazione” una Regione – seppur ben amministrata come le tre della zona “gialla” – sia veramente in grado di assicurare.

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