Se la natura entra in politica

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di Michele Carducci

Il mondo si interroga su che cosa si possa imparare dalla pandemia del Covid-19 e spesso si sente ripetere che “nulla sarà come prima”. Spunti, documenti e ricerche utili a tracciare itinerari di “discontinuità” rispetto al passato non mancano.

Da ultimo, una rete mondiale di centri di ricerca e organizzazioni internazionali si è unita per chiedere all’Onu di dichiarare lo “stato di emergenza planetaria” (proposta già avanzata nel 2019 ma resa ancora più urgente proprio a seguito della pandemia del Covid-19).

Il suo presupposto è nella constatazione che ormai si stia vivendo al di sopra delle capacità del nostro Pianeta, mettendo i sistemi umani in rotta di collisione con i sistemi naturali di cui facciamo parte.

Ecco allora che il “Planetary Emergency Plan” identifica dieci impegni per garantire la protezione di “beni comuni globali”, implementando una serie di politiche di trasformazione a livello nazionale e locale.

I contenuti delineati perseguono un obiettivo unico: liberare la progettazione politica dalla logica del “Business as Usual“, che ormai pervade tutti i gangli della società, attraverso una riforma del processo decisionale politico ed economico.

Il Rapporto si conclude con la considerazione che lo sviluppo umano a lungo termine e il riequilibrio tra Nord e nel Sud del mondo rappresentino la priorità vitale per la dignità delle persone e delle società, certamente più importante degli interessi politici ed economici a breve termine di una ristretta parte della società. Il “nulla sarà come prima” dovrebbe essere intinto nella lungimiranza di obiettivi lenti ma costanti, piuttosto che – come si dice oggi – “strategici”.

In Italia, il primo banco di prova della progettualità politica “post Covid-19”, quella che dovrebbe tradurre l’assioma del “nulla sarà come prima”, è dato dalle elezioni regionali di settembre.

Tuttavia, leggendo i programmi elettorali presentati, si ha l’impressione che la logica del “Business as Usual” – lo snodo della discontinuità, individuato dal Rapporto mondiale per l’ “emergenza planetaria” – continui a rappresentare, anche implicitamente, il presupposto di qualsiasi discorso giuridico. Certo, si parla di “crescita compatibile con l’ambiente”, “green economy”, “crescita sostenibile”. Tuttavia, non ci vuole nulla ad “aggettivare” la continuità.

Come spiegava Gramsci, le aggettivazioni si traducono in “figurini” su cui cucire, per nasconderli, particolarismi e contingenze della politica italiana.

Navigando tra i siti dei diversi programmi elettorali, però, ci si imbatte in una piccola, curiosa novità: la proposta “Terra”.

Il suo programma è interessante da richiamare sia per il metodo alla sua base – fondato sulle pratiche della c.d. “democrazia ecologica”, ossia attraverso il coinvolgimento continuativo della creatività diretta degli elettori in tema di rapporto tra economia, ambiente e giustizia sociale – che per i contenuti, esplicitamente contrapposti al postulato del “Business as Usual” come realtà, e aperti invece alla tematizzazione dei “beni comuni”, nelle loro diverse declinazioni, sostanziali e procedurali.

Per esempio, per la prima volta in un progetto politico italiano, si parla di introduzione, sia pure a livello di Statuto regionale, del riconoscimento dei diritti della natura, per orientare le politiche e le decisioni secondo il canone ermeneutico del “favor naturae nell’applicazione e interpretazione delle disposizioni normative di competenza regionale” (in una Regione, come la Campania, detentrice di tristi primati di devastazione ambientale e sociale, coperti da pluriennali connivenze malavitose).

Si impone il dovere, per ciascuna comunità locale, di “conoscere la propria impronta sul mondo e i carichi che impone alle altre comunità e quelli che riceve”, al fine di declinare concretamente il dovere di solidarietà sociale fra i territori.

Si stabilisce il “dovere primario della lotta al consumo di suolo” nelle politiche del territorio, come precondizione della programmazione urbanistica

Si afferma anche il principio dell’autonomia energetica e alimentare dei cittadini, al fine di responsabilizzarli nell’uso delle risorse e sottrarli al ricatto camorristico, funzionale alle logiche del profitto sul mercato dei beni e dei servizi essenziali.

In poche parole, si tratta di una progettazione che accoglie la sfida, altrove già tematizzata (come, per esempio, in Francia, Olanda e Germania), della “conversione ecologica” della politica e della cosiddetta eco-democrazia, dove l’indirizzo politico non è più “catturato” dall’autoreferenzialità delle “leggi del mercato”, ma si adegua e adatta alle ineludibili “leggi della natura” e alla giustizia ecologica quale premessa della giustizia sociale (come già preconizzava Carlo Levi, nelle sue riflessioni sulla falsa contrapposizione tra la “civiltà della ferrovia e della strada” e la “miseria contadina”).

Certo, è un progetto regionale, con tutti i limiti che questo comporta. Ma proprio la sua rappresentazione locale, quella che costituisce di fatto la dimensione “ottimale” dell’eco-democrazia, giustifica la curiosità di studiarlo: nelle maglie della ripartizione di competenze fra Stato e Regioni, promuovere la “conversione ecologica” dell’offerta politica è possibile.

Al di là delle sorti della lista “Terra”, credo che anche l’osservazione di queste piccole discontinuità serva a cimentarsi concretamente con il dovere del “nulla sarà come prima”.

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