La sanità lombarda non cambia registro: più mercato che servizio

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di Camilla Buzzacchi

Dopo essere stata in prima linea fin dall’inizio dell’emergenza pandemica, che ha fronteggiato con una modalità di intervento fortemente caratterizzata dal modello di sanità radicatosi nel tempo, la Regione Lombardia ha varato in questo anno 2021 una nuova disciplina del suo sistema di produzione delle prestazioni di cura. Il 30 novembre l’Assemblea consiliare di Palazzo Pirelli ha infatti approvato la legge n. 22/2021, che dovrebbe rappresentare il rinnovamento della sanità regionale: si tratta di una riforma che assume una valenza quasi unica per una serie di ragioni, in parte riconducibili alle tante questioni strettamente collegate all’epidemia, e in parte apprezzabili sotto il profilo del nocciolo duro dell’attuale sistema autonomistico, ovvero la materia della tutela della salute. Materia rispetto alla quale si gioca – nel momento presente – tanta parte del rapporto tra Stato e Regioni.

Sul primo versante, va ricordato quanto la pandemia abbia messo sotto pressione la sanità lombarda fin dal suo insorgere; quanto le modalità di risposta di questa Regione siano apparse in difficoltà, nonostante la convinzione diffusa di una primazia della sua capacità di «produrre» prestazioni di cura; infine quanto tale primazia sia stata sempre collegata al modulo «misto» di risposta privata e pubblica al bisogno di cui si fa carico l’art. 32 Cost. 

Ma anche le ragioni connesse al perimetro dell’autonomia regionale appaiono di discreta rilevanza: non è infatti secondaria considerazione che la Regione ritenuta all’avanguardia come modello sanitario abbia dovuto riformare il medesimo per presentarsi più attrezzata nel rispondere al bisogno della sua comunità; e che lo abbia fatto su invito dello Stato.

Vi è dunque un antefatto di questo intervento di riforma. La riforma è il frutto di un’espressa sollecitazione manifestata dal Ministero della Salute, che a fine 2020 ha caldeggiato all’amministrazione lombarda una radicale rivisitazione del suo sistema di cura. Tale richiesta è arrivata, non casualmente, dopo che l’apparato sanitario ma – ancora di più – il modello di politica sanitaria di questa Regione è stato portato alla ribalta per effetto dell’emergenza Covid-19: insieme a quello veneto è stato proprio quello lombardo, infatti, il territorio più colpito dal virus, e la fatica – se non proprio l’affanno – con cui esso ha dato risposta all’epidemia ha fatto sorgere immediatamente l’interrogativo circa l’adeguatezza di quello stesso modello. Dall’interrogativo si è poi passati a una vera e propria esortazione, da parte dello Stato, affinché la Regione valutasse un ripensamento delle scelte applicate da anni. Probabilmente la riforma non sarebbe stata adottata dall’istituzione regionale se il Ministero della Salute non avesse ritenuto, dopo mesi di faticoso contrasto dell’emergenza epidemiologica, di indirizzare la Lombardia in questa direzione.

Ciò è avvenuto attraverso un documento predisposto dall’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Agenas), elaborato anche sulla base dei dati forniti dalla Direzione Generale regionale Welfare della stessa Regione. Nel testo veniva prospettata «una proposta organizzativa del sistema che risponde all’esigenza di riallineamento rispetto alla normativa statale e alcune raccomandazioni in grado di favorire risultati migliorativi in termini di efficienza», assegnando alla Lombardia quattro mesi per allinearsi. Il rilievo che più risaltava era la mancanza di un solido raccordo organizzativo tra ospedale e territorio: per affrontare questa e altre criticità il documento di Agenas aveva prospettato sia rimedi obbligatori che proposte migliorative, per un disegno di armonizzazione capace di realizzare maggiore «integrazione tra gli attori del sistema e ridefinire con chiarezza i ruoli e le competenze attraverso una revisione dell’impianto istituzionale». Le indicazioni obbligatorie sono da subito state dichiarate non meritevoli di attenzione da parte della Giunta lombarda, così come è stata immediatamente annunciata l’intenzione di arrivare alla riforma in un arco temporale non necessariamente di quattro mesi: di fatto la sua approvazione è intervenuta solo a un anno di distanza, dopo che a maggio 2021 la Giunta aveva approvato delle Linee di sviluppo, con le quali si erano già indicate le modifiche a cui la Regione intendeva aderire, mentre quelle non contemplate erano apparse non destinate ad essere accolte.

Per riassumere l’indirizzo adottato in sede di riforma, si può affermare che la Regione ha respinto la strada della costituzione di un’unica Agenzia della Tutela della Salute – invece delle otto attualmente operanti – come chiedeva Agenas per riassegnare al livello regionale competenze di governo e di programmazione delle prestazioni. Se la Regione si fosse conformata, tale variazione avrebbe riportato sotto la sua direzione non solo le funzioni di pianificazione e indirizzo, ma anche quelle di accreditamento degli operatori privati: quest’ultima procedura doveva infatti costituire – nelle raccomandazioni di Agenas – quella leva fondamentale di governo, tramite la quale operare «una valorizzazione dell’attività dei soggetti privati accreditati all’interno della programmazione regionale, finalizzandola verso gli ambiti in cui si siano rilevate, dalla stessa Regione, le criticità dell’offerta, sulla base dell’analisi dei bisogni e del livello di soddisfacimento degli stessi». Il recupero del «governo pubblico» del sistema non pare invece essere una priorità per la Regione, che ha posto come pietra fondante della supposta riforma quello che è da sempre il pilastro della sanità lombarda: ovvero la preoccupazione di garantire la libera scelta del cittadino riguardo alle strutture socio-sanitarie. Libera scelta che continua a giocarsi tra pubblico e privato, e che non è esattamente la condizione che assicura la prossimità delle cure e la presa in carico da parte di un servizio in caso di bisogno per la persona.

Ciò conferma l’orientamento di continuare a rivolgersi con immutata fiducia verso il modello di mercato. La riforma introdotta non intende modificare il rapporto pubblico-privato, connotato dalla volontà di non subordinare il privato ai bisogni e alle carenze che l’offerta pubblica può presentare. Nonostante una sorta di re-styling, questa legge continua a investire nella concorrenza tra gli erogatori pubblici e privati, tutti indistintamente considerati fornitori di prestazioni, permettendo agli attori privati, capaci di operare con maggiori libertà rispetto a quelli pubblici, di appropriarsi di larga parte della domanda di prestazioni, e di accaparrarsi ampi spazi di mercato senza che un sistema di governo e di programmazione regionale regoli efficacemente tali dinamiche.

Certo, la novella legislativa si apre all’insegna del nuovo paradigma della sanità di questo territorio: è l’approccio one health, chiamato ad assicurare protezione e promozione della salute attraverso la stretta relazione tra la salute umana, la salute degli animali e l’ambiente. Un orizzonte che sicuramente può dirsi all’avanguardia, ma che da solo non garantisce che la cura delle persone non sia lasciata a meccanismi di domanda/offerta e a logiche di massimizzazione del profitto, che nella stagione pandemica che ancora non si è chiusa non hanno rappresentato la soluzione vincente contro il virus.

Ma l’intera vicenda solleva interrogativi anche sul fronte dei rapporti tra lo Stato e la Regione, nonché tra quest’ultima e le componenti al suo interno – dalle minoranze in seno al Consiglio alle parti sociali che svolgono un ruolo nel sistema socio-sanitario – la cui voce poteva essere ascoltata, come non è avvenuto. Dall’anomalia dello Stato che si esprime in maniera così plateale sulla resa di un sistema sanitario regionale, a quella di una Regione che solo nominalmente si adegua alla richiesta ricevuta, e di fatto non prende neppure in considerazione l’ipotesi di un cambiamento, gli elementi di un quadro di evidente distorsione dell’autonomia ci sono tutti. Ma in ogni caso il mercato della sanità lombarda rimane una certezza.

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