Elezioni anticipate per salvare i vitalizi dei parlamentari? Sciocchezze

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di Alessandro Gigliotti

Uno dei temi riemersi a seguito della crisi del Governo Draghi, e del conseguente scioglimento anticipato delle Camere , attiene ad un aspetto del tutto secondario della vita delle istituzioni, ma sempre oggetto di forte attenzione da parte dell’opinione pubblica. Si tratta del regime previdenziale dei parlamentari e, in particolare, del (supposto) legame esistente fra i trattamenti erogati e la data delle elezioni anticipate, fissate per il prossimo 25 settembre.

Secondo alcuni retroscena, infatti, la data del voto sarebbe stata accuratamente scelta in modo da consentire ai parlamentari uscenti di maturare il “vitalizio” e cautelarsi nel caso di mancata rielezione.

Prima ancora di entrare nel merito della questione, occorre rimuovere alcuni equivoci di fondo e per farlo è necessario riepilogare i capisaldi del vigente regime previdenziale per i componenti delle due Camere. Sebbene si parli insistentemente di “vitalizi”, in realtà essi non esistono più da oltre dieci anni, in quanto con tale espressione – tecnicamente “assegni vitalizi” – ci si riferisce ai trattamenti erogati sino al 31 dicembre 2011 agli ex parlamentari che avessero maturato determinati requisiti di età anagrafica e anzianità contributiva. Inoltre, pur essendo stati oggetto di una disciplina normativa più volte affinata nel corso del tempo, i vitalizi altro non erano se non pensioni calcolate con metodo retributivo, il cui importo era cioè correlato, non già ai contributi previdenziali versati – il montante contributivo –, bensì all’indennità percepita, analogamente alle comuni pensioni che sino alla riforma Dini del 1995 – e in alcuni casi sino alla legge Fornero del 2011 – erano anch’esse calcolate con metodo retributivo.

A decorrere dal 1° gennaio 2012, invece, agli ex parlamentari viene erogata, sempre al conseguimento di determinati requisiti di età anagrafica e anzianità contributiva, una “pensione” calcolata con metodo contributivo e modellata sui trattamenti previdenziali previsti per i pubblici dipendenti. Tutti i parlamentari entrati in carica dalla XVII legislatura in poi, cioè dal 2013, percepiranno pertanto una pensione contributiva e non già un assegno vitalizio: fermo restando che, come anticipato, si tratta sempre e comunque di trattamenti aventi natura previdenziale, essendo mutato essenzialmente il solo metodo di calcolo.

Ai sensi delle norme attualmente in vigore, i parlamentari cessati dal mandato conseguono il diritto alla pensione al compimento del 65esimo anno di età e a condizione di aver svolto un periodo effettivo di mandato parlamentare di almeno 5 anni. Nel caso in cui la durata del mandato contempli al suo interno una frazione di anno, tale frazione si computa come anno intero se la sua durata non è inferiore a 6 mesi e un giorno. In altri termini, il requisito contributivo dei 5 anni è soddisfatto qualora il parlamentare sia stato in carica per almeno 4 anni, 6 mesi e un giorno. Orbene, dal momento che la legislatura in corso ha avuto inizio il 23 marzo 2018, data della prima riunione, i parlamentari entrati in carica all’inizio della medesima matureranno il requisito contributivo il prossimo 24 settembre 2022, esattamente un giorno prima della data di svolgimento delle elezioni politiche. Da qui l’erronea convinzione secondo cui la data del voto sarebbe stata collocata il 25 settembre proprio per consentire ai parlamentari alla prima legislatura, che non dovessero essere rieletti, di conseguire il diritto al trattamento previdenziale, che altrimenti non sarebbe stato maturato, ad esempio, se si fosse votato una settimana prima.

In realtà, la tesi del collegamento tra la data del voto e la maturazione dei requisiti previdenziali è completamente priva di fondamento. Anzitutto, poiché all’atto dello scioglimento delle Camere, naturale o anticipato che sia, l’individuazione della data soggiace ad una serie di vincoli normativi che lasciano ben poca discrezionalità al Consiglio dei ministri, chiamato a decidere in merito. Segnatamente, ai sensi dell’art. 61 della Costituzione, «le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti» – o per meglio dire entro 70 giorni dalla data dello scioglimento –; mentre, in virtù dell’art. 11 del testo unico delle elezioni della Camera dei deputati, il decreto di indizione deve essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale non oltre il 45esimo giorno antecedente quello della votazione. Si aggiunga, altresì, che il voto degli italiani all’estero richiede una serie di adempimenti che impediscono, di fatto, di indire le elezioni prima di sessanta giorni: il decreto del Presidente della Repubblica 2 aprile 2003, n. 104, in materia di esercizio del diritto di voto degli italiani residenti all’estero, prevede infatti che il Ministero dell’Interno debba comunicare al Ministero degli esteri l’elenco dei residenti all’estero aventi diritto al voto entro il 60esimo giorno antecedente la data delle elezioni. Una volta sciolte le Camere il 21 luglio e dovendo individuare una data rispondente ai requisiti anzidetti, la discrezionalità in capo al Consiglio dei ministri era alquanto ridotta.

Più in generale, la data del 25 settembre rappresenta un evidente compromesso tra due opposte esigenze: da un lato, quella di salvaguardare l’operatività di tutte le amministrazioni, a partire da quelle locali, impegnate nel procedimento elettorale preparatorio: tanto più se si considera che buona parte delle attività propedeutiche al voto dovranno essere svolto nel mese di agosto e, quindi, in un momento dell’anno in cui gli uffici lavorano solitamente a ranghi ridotti; dall’altro, quella di assicurare alle nuove Camere tempi congrui per l’approvazione della legge annuale di bilancio ed evitare l’esercizio provvisorio. Anticipare di qualche domenica le elezioni politiche, collocandole ad esempio il 18 settembre, avrebbe forse concesso qualche giorno in più per la sessione di bilancio, ma al contempo avrebbe avuto non poche controindicazioni sul piano procedimentale.

In secondo luogo, va chiarito che votare il 18 o il 25 settembre non avrebbe avuto alcun impatto significativo sui trattamenti previdenziali dei parlamentari, per la semplice ragione che deputati e senatori uscenti avrebbero maturato egualmente il requisito contributivo di 4 anni, 6 mesi e un giorno. Si consideri, infatti, che i parlamentari non cessano dal mandato all’atto dello scioglimento, né tanto meno al momento delle elezioni, ma restano in carica fino alla convocazione delle nuove Camere (art. 61, secondo comma, Cost.) e quindi sino al 12 ottobre, giorno che precede la prima riunione delle Camere neoelette e che dà avvio alla nuova legislatura. Ne consegue che, quand’anche il Consiglio dei ministri avesse – astrattamente – fissato le elezioni anticipate per il 18 settembre, il quadro non sarebbe mutato di una virgola, in quanto i tempi tecnici per convocare le nuove Camere in una data anteriore al 24 settembre non ci sarebbero stati egualmente.

Qualche riflessione conclusiva. Le dinamiche istituzionali, quali la durata dei governi o della legislatura, nonché la decisione sulla data del voto per il rinnovo delle due Camere, non possono essere dettate dall’esigenza di non far maturare il trattamento previdenziale dei parlamentari, quasi come se si dovesse a tutti i costi “punire” la classe politica per una qualche colpa atavica. La seconda è che il trattamento previdenziale dei parlamentari risponde alle medesime logiche dell’indennità: consentire a tutti, anche ai non abbienti, di assumere una carica rappresentativa, inverare cioè il principio democratico che presuppone la partecipazione di tutti i consociati alla gestione della res publica. I trattamenti economici dei parlamentari non rappresentano pertanto dei meri privilegi di casta, ma costituiscono un indispensabile presidio di democrazia: possono essere disciplinati in un modo o in un altro, possono essere oggetto di riforma, ma non possono essere contestati per principio. Salvo invocare il ritorno a fasi storiche nelle quali le cariche rappresentative erano circoscritte ad una ristretta cerchia di persone, le uniche che potrebbero permettersi di ricoprirle anche senza un contributo economico a carico della collettività.

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