Sulla ineleggibilità dei sindaci che non si dimettono in tempo

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 di Alberto Di Chiara

Tra le scadenze elettorali collegate al rinnovo delle Camere ve n’è una particolarmente stringente: a norma dell’articolo 7, comma 1, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, i soggetti indicati dalla disposizione citata – tra cui rientrano i sindaci dei comuni con più di ventimila abitanti – qualora intendano candidarsi alla Camera o al Senato devono presentare le dimissioni dalla carica ricoperta almeno centottanta giorni prima della data di scadenza del quinquennio di durata della Camera dei deputati, calcolato a partire dalla data della prima riunione delle nuove Camere (art. 7, comma 3). Nel caso in cui la legislatura termini più di 120 giorni prima della sua scadenza naturale, tale onere deve essere espletato entro sette giorni dalla pubblicazione del decreto di indizione delle elezioni (art. 7, comma 7). In via interpretativa, si può osservare che nel caso in cui la legislatura termini con un anticipo inferiore a centoventi giorni rispetto alla scadenza naturale del quinquennio trovi applicazione l’art. 7, comma 3, con conseguente obbligo di dimissioni di almeno centottanta giorni prima della scadenza naturale della legislatura. Va chiarito che tali disposizioni, tuttavia, non sono mai state riferite ai Presidenti delle Giunte regionali e, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 344/1993, non trovano più applicazione nei confronti di deputati e consiglieri regionali.

La XVIII legislatura ha avuto inizio il 23 marzo del 2018, con la prima riunione di Camera e Senato a seguito delle elezioni del 4 marzo.

Il d.P.R. 21 luglio 2022, n. 97, ha indetto l’elezione delle nuove Camere il 25 settembre, fissandone la prima riunione il 13 ottobre.

Com’è evidente, la XVIII legislatura è terminata ben prima di 120 giorni dalla scadenza naturale del quinquennio; pertanto, la lettera della legge non sembra lasciare alcun margine di interpretazione: i soggetti indicati dall’art. 7, comma 1, qualora intendano candidarsi alle elezioni nazionali, devono dimettersi entro sette giorni dalla data di convocazione dei comizi elettorali e, quindi, entro il 28 luglio 2022.
Al momento non è dato sapere quanti sindaci (in carica o dimessisi dopo il termine prescritto) correranno per l’elezione al Parlamento nazionale, tuttavia è possibile supporre che più di qualcuno faccia affidamento su una prassi tanto radicata quanto criticabile, in forza della quale le Giunte delle elezioni delle rispettive Camere ignorano deliberatamente il testo della legge convalidando le elezioni di candidati ineleggibili.
L’ultimo caso noto in ordine di tempo riguarda il senatore del PD Daniele Manca (di cui ci si era occupati in questa sede in occasione delle elezioni del 2018). L’allora sindaco di Imola si dimise dalla carica di primo cittadino per partecipare all’elezione del Senato 77 giorni prima della riunione delle nuove Camere, avvenuta il 22 marzo 2018. Essendo che la XVII legislatura si era conclusa con meno di 120 giorni di anticipo rispetto alla scadenza naturale, tale adempimento sarebbe dovuto intervenire almeno 180 giorni prima.
Il caso è stato oggetto di un lungo esame da parte della Giunta delle elezioni del Senato, nel frattempo investita anche da un ricorso presentato dal primo dei non eletti della medesima circoscrizione. In spregio alla lettera della disposizione, l’elezione del senatore Manca è stata convalidata nella seduta del 30 novembre 2021, quasi quattro anni dopo lo svolgimento della tornata elettorale. Nella legislatura precedente un episodio analogo si era verificato con la convalida dell’elezione del senatore Paolo Corsini, ex sindaco di Brescia in quota centrodestra.
Se, dunque, tale disposizione risulta sistematicamente ignorata quando si tratta di deputati e senatori di ogni schieramento politico, viene da domandarsi perché non venga abrogata, invece che (illegittimamente) disapplicata in via di fatto.
La questione non va sottovalutata: la Corte costituzionale, muovendosi nel solco delle azioni di accertamento del diritto di voto (prima attivo, con le sentt. n. 1/2014 e n. 35/2017; e ora anche passivo, con la sent. n 48/2021) ha aperto scenari inediti per la tutela di tale diritto.

Nel caso in cui l’elezione di qualcuno dei soggetti di cui all’art. 7 del DPR fosse validamente convalidata, cosa accadrebbe se il primo dei non eletti proponesse un’azione di accertamento del diritto di voto di fronte al giudice ordinario chiedendo di verificare il proprio diritto di elettorato passivo? Il giudice ordinario avrebbe dunque diverse opzioni dinanzi a sé:

  • Una prima (e più sbrigativa) soluzione sarebbe quella di declinare la giurisdizione a favore del Parlamento. Pur non potendosi approfondire il dibattito in tema di qualificazione della verifica dei poteri, le Camere non hanno mai rinvenuto in tale attività natura giurisdizionale.
    È davvero sostenibile che una materia come il diritto di elettorato passivo possa rimanere priva di tutela giurisdizionale? La Corte EDU ha dichiarato nel luglio del 2020 (sentenza Mugemangango c. Belgio) l’incompatibilità con l’art. 13 della Convenzione e con l’art. 3 del Protocollo n. 1 delle norme dell’ordinamento belga che affidavano in via esclusiva ad organi elettivi la convalida delle elezioni, qualora risultino assenti garanzie di tipo giurisdizionale.
  • Sollevare una questione di legittimità costituzionale del DPR del 1957, nella parte in cui affida al solo organo rappresentativo la convalida delle elezioni ed esclude l’intervento dell’autorità giudiziaria. Tale opzione richiederebbe un’interpretazione fortemente evolutiva dell’art. 66 Cost., in modo da porre tale disposizione in armonia con altri principi costituzionali, tra cui spiccano il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi di cui all’art. 25 Cost., e il diritto ad un equo processo di cui all’art. 111 Cost.;
  • Proporre un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, rilevando, qualora le Camere procedano alla convalida delle elezioni di candidati ineleggibili, il cattivo esercizio del potere loro attribuito ex art. 66 Cost., e rivendicandone la titolarità in capo al giudice ordinario, in modo non dissimile da quanto avviene in materia di giudizio di insindacabilità sulle opinioni espresse nell’esercizio del mandato parlamentare sulla base dell’art. 68 Cost.

Ognuno dei tre scenari qui sinteticamente prospettati rappresenta una strada incerta e di non facile percorribilità, tuttavia non può sfuggire un dato: la convalida delle elezioni esclusivamente parlamentare rappresenta un modello oggetto di una pesante erosione (per ora esclusivamente giurisprudenziale). Da un lato la sentenza Mugemangango c. Belgio ha dichiarato l’incompatibilità coi principi della CEDU di un sistema di verifica dei poteri esclusivamente parlamentare in tutto e per tutto simile a quello vigente nell’ordinamento italiano; dall’altro lato la Corte costituzionale, con la sent. n. 48/2021 ha attribuito la giurisdizione sul contenzioso elettorale preparatorio al giudice ordinario, e non alle Camere. Viene dunque da chiedersi se in fase di convalida delle elezioni sia ancora tollerabile la disapplicazione delle norme in materia di ineleggibilità da parte delle Camere: dalla risposta che verrà data a questa domanda dipende un pezzo importante della qualità delle nostre istituzioni rappresentative e, forse, della democrazia parlamentare in generale.

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