Fallacie e bias sull’emergenza climatica

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di Ines Bruno

Com’è noto, l’emergenza climatica è stata denunciata dalla comunità scientifica internazionale con innumerevoli iniziative e documenti (a partire dai c.d. Scientists’ Warning) e dichiarata ufficialmente da diverse istituzioni, inclusa la UE. Esiste anche una “controdichiarazione” internazionale di negazione dell’emergenza climatica (intitolata There is no climate emergency), promossa anch’essa da un gruppo di scienziati, estremamente minoritario (pari a circa l’1% delle pubblicazioni scientifiche sul tema). La “controdichiarazione”, però, è contraddistinta da quattro peculiarità:

  • inquadra l’ emergenza assumendola come problema esclusivamente atmosferico e non invece riferito,  secondo quanto dispone l’UNFCCC, alla dinamica dell’intero sistema climatico e alle sue componenti (biosfera, criosfera, litosfera, idrosfera e non solo atmosfera);
  • postula il primato della realtà economica su quella naturale;
  • rifiuta la funzione prognostica della scienza;
  • di conseguenza elude i principi che, da trent’anni a questa parte, regolano il governo delle incertezze scientifiche (precauzione, prevenzione, rimozione alla fonte, compensazione e ora, nella UE, Do No Significant Harm). Si tratta, quindi, di un’iniziativa proposta al di fuori della legalità internazionale ed europea in materia di cambiamenti climatici.

In ogni caso, piaccia o meno, l’emergenza, dentro la UE, è stata formalizzata ed è stata definita “climatica e ambientale”.

Perché questa doppia aggettivazione? La UE lo spiega: si tratta di una “minaccia” da eliminare “prima che sia troppo tardi” attraverso “un’azione immediata e ambiziosa per limitare il riscaldamento globale a 1,5 ºC ed evitare una massiccia perdita di biodiversità”. L’emergenza, in poche parole, è stata sì riferita al problema atmosferico del riscaldamento globale, ma in una proiezione sistemica che investe non solo il clima bensì l’intero ambiente terrestre e la sua biodiversità, che col sistema climatico interagisce. Per tale motivo, essa è “climatica e ambientale”.

La conoscenza e comprensione di questa interazione non è semplice e dà luogo a fallacie argomentative (di cui è prova la cit. “controdichiarazione”) se non a veri e propri bias.

Com’è noto, le fallacie rientrano nell’ambito della logica e indicano errori nel ragionamento soprattutto di connessione tra presupposti e conseguenze. I bias, al contrario, rappresentano distorsioni della percezione della realtà e della sua conoscenza, condizionate da fattori personali ed esperienziali (come le nozioni scientifiche a disposizione, le esperienze personali di vita, le informazioni più frequenti che si selezionano per tenersi aggiornati ecc…) (cfr., per un panorama socio-giuridico, G. Motta, Bias cognitivi: ovvero come i pregiudizi influiscono sul ragionamento). Proprio sul fronte dell’emergenza climatica, un recente esperimento universitario (I bias sull’emergenza climatica), ha evidenziato come la maggioranza delle persone, comunque a conoscenza dell’emergenza climatica, non sappia distinguere tra cause ed effetti, eventi e processi, rimedi e obiettivi.

Il che è un problema, dato che dai bias condivisi scaturiscono poi euristiche costitutive di narrazioni pseudoscientifiche della realtà (come avvenuto in occasione della pandemia) o addirittura indirizzi decisionali apparentemente “oggettivi” (significativamente definiti “policy legend”). Neppure i giudici ne sono immuni (cfr. S. Arcieri, Bias cognitivi e decisione del giudice: un’indagine sperimentale).

Ma, allora, che cos’è l’emergenza climatica e come si rimedia ad essa?

A questa domanda, si può rispondere utilizzando due fonti: la citata dichiarazione europea di emergenza, in quanto fonte istituzionale; e l’equazione dell’emergenza, di Timothy M. Lenton e altri, in quanto fonte scientifica (sulle equazioni scientifiche come fonte di cognizione, si v. Q. Camerlengo, Natura e potere).

Partiamo dalla prima: l’emergenza “climatica” è anche “ambientale” in quanto si tratta di una “minaccia” che investe non solo l’atmosfera ma anche la biodiversità e richiede interventi “prima che sia troppo tardi” rispetto all’obiettivo atmosferico del “riscaldamento globale a 1,5 ºC” e a quello biosferico dell’ “evitare una massiccia perdita di biodiversità”. Si tratta, in parole semplici, di una corsa contro il tempo finalizzata a un doppio obiettivo atmosferico e biosferico. Va aggiunto che questo doppio obiettivo è assunto sulla base dei dati scientifici dei numerosi Rapporti dell’IPCC, dalla stessa UE richiamati e definiti “esaustivi sugli effetti dannosi dei cambiamenti climatici”, coniugati altresì con la puntualizzazione che qualsiasi azione di contrasto all’emergenza deve “essere basata sulla scienza” e non “pregiudicare i diritti fondamentali”. In definitiva, la dichiarazione disegna la cornice razionale e proporzionata di tutte le azioni conseguenti all’accertata doppia natura dell’emergenza, “climatica e ambientale”. Il vettore comune di questa convergenza è individuato nell’urgenza (“prima che sia troppo tardi”) “basata sulla scienza”.

L’urgenza basata sulla scienza è anche l’elemento determinante dell’equazione di Lenton e altri. Essa è così di seguito rappresentata: E = R(p x D) x U(τ/T). Si tratta di una formula mutuata dalla gestione dei tempi aeroportuali per evitare collisioni tra atterraggi e decolli. Per tale motivo, è definita anche formula “anticollisione”.

Essa descrive come l’emergenza climatica (E) è data dal rischio (R), derivato dalla probabilità (p) del verificarsi di impatti irreversibili (D) (come i tipping point di idrosfera e criosfera, i crolli ecologici della biosfera, il superamento dei Planetary Boundaries dell’intero sistema climatico ecc., su cui convergono i dati scientifici dell’IPCC, dalla UE definiti “esaustivi sugli effetti dannosi dei cambiamenti climatici”), moltiplicato per il risultato del rapporto tra il tempo di azione convenzionale (τ) e il tempo termodinamico naturale (T); detto ancora più chiaramente, tra il tempo deciso politicamente (τ) e il tempo naturale restante (T) affinché l’intero sistema non si destabilizzi pregiudicando irrimediabilmente tutto, dall’atmosfera alla biodiversità ai diritti fondamentali. In breve, l’equazione scientifica indica il metodo per scongiurare la “collisione” tra tempi umani decisi per la convivenza sociale e tempi naturali del sistema climatico, dentro il quale quella convivenza sociale comunque opera. La scansione appare concettualmente analoga alla dichiarazione della UE: agire “prima che sia troppo tardi” non solo per il controllo dell’aumento della temperatura, ma anche per la biodiversità e i diritti fondamentali. La soglia temporale “anticollisione” è stata ora formalizzata da diversi documenti (basti pensare ai 17 SDGs per il 2030), ma soprattutto è stata riconosciuta dal Glasgow Climate Pact, adottato dalla COP26 del 2021, con l’indicazione del “decennio critico” di decisione e azione (2021-2030), cui si aggiunge il “tempo cruciale” di risposta naturale del sistema climatico, identificato dall’AR6-Wg1 dell’IPCC nel ventennio 2021-2040.

Insomma, l’ “azione immediata e ambiziosa” ha una sua cornice temporale definita da atti istituzionali e dalla scienza: dal 2021 al 2040.

Se ne può prescindere? Si direbbe di no, stando alla dichiarazione UE sull’emergenza climatica, la quale invita espressamente all’azione “basata sulla scienza”. In effetti, se tutte le decisioni “immediate e ambiziose” si collocassero dentro l’arco 2021-2040, avremmo τ = T ovvero la corrispondenza dei tempi decisi (τ) con il tempo restante del sistema climatico (T). Non ci sarebbe “collisione” e sarebbe una buona notizia. Se poi i tempi decisi si presentassero addirittura al di sotto del tempo naturale (ossia con τ < T), avremmo la certezza che le azioni opererebbero davvero come “immediate e ambiziose”.

Ma che cosa succede se i decisori ignorano il tempo restante del sistema climatico (T), nonostante la sua identificazione da parte della scienza e dei documenti istituzionali “esaustivi sugli effetti dannosi dei cambiamenti climatici”?

In primo luogo, si verificherebbe un problema di “non conformità” tra tempi decisi dalla politica e tempi naturali, conosciuti e indicati dalla scienza, che, di riflesso, metterebbe in discussione l’ “adeguatezza” delle decisioni rispetto proprio all’emergenza in atto: nulla di nuovo nell’esperienza giuridica delle emergenze, come due anni di pandemia ci hanno abituato a constatare.

È la “realtà” della (legittima) autonomia della politica rispetto alla scienza, ci viene detto. Ma ne siamo proprio sicuri? O non conviene verificare se sussistano fallacie e bias nel concludere in questo modo lo scenario rappresentato?

Per provare a rispondere a queste scomode domande, e conseguentemente convenire su come porre fine efficacemente all’emergenza climatica e ambientale, bisogna necessariamente effettuare due passaggi logici: individuare quale sia l’obiettivo finale della disciplina giuridica della lotta al cambiamento climatico; appurare se il rispetto dei tempi termodinamici della natura costituisca un vincolo solo scientifico, quindi esterno al diritto, oppure no. Infatti, se si prescinde da entrambi, si aprono le porte delle fallacie argomentative e dei bias.

In tali fallacie e bias, per esempio, cadono tutti coloro che sostengono che l’obiettivo della lotta all’emergenza climatica sia la c.d. “neutralità climatica” per il 2050, citando, a riprova dell’assunto, l’art. 4 n.1 dell’Accordo di Parigi del 2015 e stralci dei Rapporti dell’IPCC. La disposizione di Parigi, però, riguarda solo ed esclusivamente i tempi di conseguimento dell’equilibrio tra le fonti di emissioni e gli assorbimenti dei gas serra, non i tempi di salvaguardia degli equilibri dell’intero sistema climatico. Identifica, quindi, un rimedio strumentale ma non risolutivo dell’emergenza. Del resto, lo stesso Accordo di Parigi puntualizza che l’elemento determinante della lotta climatica è il contenimento della temperatura media globale (come ammesso pure dalla cit. dichiarazione emergenziale UE) e le evidenze scientifiche attestano che concentrarsi sull’obiettivo strumentale della neutralità non è sufficiente (cfr. H.D. Matthwes et al., Current global efforts are insufficient to limit warming to 1.5°C), anche perché il riscaldamento, già attivato dalle emissioni ad oggi prodotte dagli Stati, continuerà comunque a permanere se non ad aumentare, limitando o annullando i benefici (sperati) delle riduzioni di emissioni in corso (cfr. M.T. Dvorak, Estimating the timing of geophysical commitment to 1.5 and 2.0 °C of global warming). Inoltre, la stessa data del 2050 – di per sé già fuori squadra rispetto alle acquisizioni scientifiche sulla finestra 2021-2040 – non sarebbe comunque rassicurante, se prescissa dalla conoscenza dei tempi dell’intero sistema climatico (cfr. G.B. Dreyfus, Mitigating climate disruption in time: A self-consistent approach for avoiding both near-term and long-term global warming, e A.D. King, Preparing for a post-net-zero world).

Insomma, invocare solo il 2050 è un bias.

D’altra parte, l’obiettivo finale per rimediare all’emergenza, come pur sempre l’Accordo di Parigi ammette, non è affatto la sola “neutralità” climatica. Lo si legge nell’art. 2 dell’UNFCCC: stabilizzare sì le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera, ma alle due condizioni

a) di escludere qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico (non solo sull’atmosfera), e

b) di rispettare i tempi che permettano agli ecosistemi di adattarsi naturalmente ai cambiamenti di clima e di non compromettere la produzione alimentare.

“Neutralità climatica” e assenza di “qualsiasi pericolosa interferenza umana sul sistema climatico” non sono sinonimi e non designano lo stesso stato di fatto. L’emergenza climatica e ambientale, come denunciata dalla scienza e dichiarata dalla UE, si riferisce al secondo, non al primo, sicché ritenere di risolvere i problemi puntando sul primo è palesemente erroneo.

Anche il tempo deciso per la “neutralità climatica” (il τ dell’equazione di Lenton) e il tempo naturale di adattamento degli ecosistemi e della produzione alimentare (la T dell’equazione di Lenton) non sono sinonimi.

Qui si approda al nodo gordiano: la considerazione del tempo naturale (T) risulta comunque richiesta da una disposizione normativa (art. 2 UNFCCC). Possiamo prescinderne, in nome dell’autonomia della politica rispetto alla scienza (grazie alla quale si conosce il funzionamento naturale del sistema climatico)?

Ma questo non significherebbe, alla fin fine, pretendere di agire contro natura, ricalcando le fallacie della “controdichiarazione” che nega l’emergenza?

Un bel cortocircuito argomentativo, degno di ulteriori studi, si apre all’attenzione, anche perché quel tempo naturale (T) segna una scadenza di sopravvivenza sostenibile: è un “Climate Endgame”.

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