di Svea Teresa Costa
I senatori a vita sono tornati al centro del dibattito politico e, questa volta, potrebbero esserci le condizioni per una possibile abolizione di tali figure, prevista nel disegno di legge costituzionale n. S. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, sul c.d. “premierato”. Infatti, se fino ad ora il ruolo di tali parlamentari è stato sporadicamente oggetto di analisi, adesso invece il dibattito pubblico in merito si è intensificato a seguito del rilievo che queste figure hanno assunto in Senato.Per alcuni, essi sono un polveroso retaggio dello Statuto Albertino, un’anomalia esclusivamente italiana, incompatibile con il principio democratico; per altri, invece, i senatori a vita rappresenterebbero preziose risorse, scrigni di saggezza e di competenza.
Innanzitutto, l’art. 59 della Costituzione presenta due tipi di senatori a vita: gli ex presidenti della Repubblica, salvo rinunzia (comma 1°), e quelli nominati da parte dei presidenti della Repubblica in carica. Il comma 2° dell’articolo stabilisce, infatti, che il Presidente “può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Dunque, insieme ai senatori elettivi e agli ex Presidenti della Repubblica, vi sono anche alcuni senatori a vita designati direttamente dal Presidente e non dal corpo elettorale, come avviene di consueto.
All’interno dell’Assemblea costituente, l’idea di introdurre in Senato alcuni componenti non elettivi non fece che alimentare le tensioni, suscitando soprattutto l’opposizione delle sinistre. Inizialmente, l’idea di prevedere diverse categorie di senatori venne legata all’intento di fare della seconda Camera il luogo dove potesse trovare espressione un tipo di rappresentanza differenziata. Costantino Mortati, ad esempio, sottolineò l’importanza di “selezionare particolari capacità e competenze”, “assicurando la presenza nell’assemblea legislativa di certe competenze individuali che il sistema dei regimi rappresentativi di per sé stesso non assicura”. Anche il repubblicano Giovanni Conti era favorevole all’introduzione dei senatori di diritto e a vita, poiché credeva che ciò “potesse permettere al Senato il concorso di personalità imminenti, che per ragioni diverse non sarebbero [state] utilizzate col sistema elettivo”. Gaspare Ambrosini espresse l’esigenza di avere una Camera che facesse da bacino contenente “le forze culturali del paese”. Dello stesso giudizio fu l’onorevole Alberti che sostenne la creazione di un Senato contenente tali soggetti in modo da assicurare “ai sommi, ai geni tutelari della Patria” una tribuna che essi non avevano e dove le moltitudini potessero vederli. Di contro, inevitabile fu l’insorgere di voci di dissenso, come quelle di Umberto Terracini e dello stesso Mortati. Il primo, nella seduta del 25 settembre 1946, descriveva i senatori di diritto come figure poco più che ornamentali.
Un altro aspetto dell’art. 59 che bisogna evidenziare riguarda la sua ambigua formulazione in relazione al numero di senatori di nomina presidenziale. È noto come all’inizio sia prevalsa l’interpretazione restrittiva che prevedeva il numero di cinque senatori a vita come tetto massimo all’interno del Senato. Tuttavia, l’interpretazione estensiva, secondo la quale ciascun Presidente avrebbe avuto la facoltà di nominare i “propri” cinque senatori, rimaneva pur sempre una legittima alternativa, messa poi in atto dai presidenti Pertini e Cossiga. Mentre il presidente Scalfaro (con un atto del 24 settembre 1992) affermò di voler seguire l’orientamento iniziale e lo stesso fece, poi, il presidente Ciampi.
Solo nel 2020 l’equivocabile testo è stato revisionato e reso più chiaro, con la cristallizzazione dell’interpretazione restrittiva, a seguito della modifica del comma 3° dell’art. 59 (scelta intrapresa anche per evitare un eccessivo squilibrio, a seguito della riduzione della componente elettiva con la diminuzione dei membri del Senato da 315 a 200).
Diverse, negli anni, sono state le proposte e i disegni di legge presentati per la modifica della previsione o per l’abolizione dei senatori a vita, come il progetto di revisione promosso dal Partito Comunista nel 1984 (il quale, pur prevedendo che il Presidente della Repubblica potesse chiamare a far parte del Parlamento cinque cittadini che avessero illustrato la Patria, precisava anche che i parlamentari di diritto e quelli a vita assumessero all’atto della convalida tutti i poteri e le prerogative dei deputati, ma non partecipassero ai voti). Altro esempio, la posizione assunta durante la XIV Legislatura da parte di Francesco Cossiga, quest’ultimo convinto che l’istituto dei senatori a vita rappresentasse un “vulnus al principio della rappresentanza popolare”.
Il voto di fiducia a favore del secondo Governo Conte ha poi portato queste figure, accusate di aver avuto un peso eccessivo per le sorti politiche del Paese, ad essere rimesse in discussione. Ma solo ora la proposta di abolirle ha trovato concretizzazione, con il disegno di legge proposto dal Governo Meloni, che, tra i vari interventi, prevede anche l’eliminazione dei senatori a vita di nomina presidenziale e lascia solo quelli di diritto (gli ex presidenti della Repubblica). La Presidente del Consiglio, anni fa, aveva definito, infatti, “assurda”, “ottocentesca” l’esistenza di tali figure.
Nel dibattito in Costituente, secondo Alberti, i senatori di nomina presidenziale non avrebbero mai potuto “spostare il centro di gravità di una situazione politica”, poiché l’esiguità del numero e la loro originale funzione (ovvero offrire al dibattito politico un contributo fatto di idee strettamente legate ai loro “altissimi meriti”) li avrebbe resi imparziali. In realtà, benché siano cinque, la loro incidenza non è irrilevante ed è legata al diritto di voto riconosciutogli: infatti, nelle (non infrequenti) fasi di instabilità, in cui i rapporti tra maggioranze e minoranze sono apparsi incerti, in qualche caso la loro presenza è risultata persino decisiva, fino al punto da rovesciare gli equilibri politici. Da ricordare, in particolare, l’appoggio al Governo Prodi nel 2006 per l’ottenimento della fiducia al Senato; più recentemente, la loro influenza durante la crisi del secondo Governo Conte (il quale, il 19 gennaio 2021, ricevette 156 voti favorevoli per la fiducia, tre dei quali erano di senatori a vita, raggiungendo così la soglia della maggioranza relativa).
In secondo luogo, è bene rilevare che la valutazione dei meriti e delle opportunità della nomina sono a totale discrezione del Capo dello Stato, ma in una democrazia rappresentativa come la nostra il fatto che alcuni parlamentari, anche se pochi, vengano nominati da una singola persona appare una deroga piuttosto importante alla democrazia rappresentativa, che pure, com’è noto, non esaurisce le forme di esercizio della sovranità popolare. Infatti, la controfirma del Presidente del Consiglio si limita semplicemente a verificare la correttezza dell’atto mentre la Giunta delle elezioni si occupa della mera verifica delle “condizioni obiettive di eleggibilità” (quali il possesso della cittadinanza italiana e degli “altissimi meriti”, il godimento dei diritti civili e politici, il compimento del quarantesimo anno di età).
Punto nodale è anche la velata tendenza dei Presidenti di considerare questi parlamentari come una sorta di “riserva politica”, effettuando la scelta attraverso un vaglio poco critico e spesso offuscato dalla volontà di valorizzare nel “campo sociale” il ruolo più propriamente politico. E, anche se nel caso della nomina da parte di Napolitano e di Monti la carica è stata conferita a uomini e donne che politicamente apparivano come imparziali (come Elena Cattaneo, Renzo Piano, Claudio Abbado e Carlo Rubbia), negli anni precedenti le nomine sono state prevalentemente legate al mondo della politica piuttosto che della scienza, dell’arte e della cultura. Di conseguenza, l’istituto ha smarrito parte della sua funzione originaria, ovvero quella di premiare il merito e di arricchire il Senato di risorse culturali ulteriori rispetto a quelle politiche.
Si aggiunga il fatto che, ad eccezione dei più gravi momenti di crisi, la maggior parte di tali senatori è stata quasi del tutto assente in Senato, spesso non adempiendo adeguatamente ai doveri di cui all’art. 54 della Costituzione (“I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”). Tra chi ha frequentato più assiduamente Palazzo Madama troviamo Elena Cattaneo, presente al 27,93% delle votazioni in aula.
L’integrale soppressione dei senatori a vita potrebbe, d’altro canto, essere vista come l’espressione della volontà di eliminare una previsione che, con tutti i suoi limiti, valorizza il merito, in un momento nel quale si afferma di voler fare l’opposto (si pensi soltanto alla ridenominazione, compiuta dal Governo Meloni del Ministero dell’Istruzione in Ministero dell’Istruzione e del Merito).
Potrebbe essere più ragionevole, invece, mantenere l’istituto ma privare i senatori a vita del diritto di voto, consentendo loro esclusivamente di offrire contributi durante i dibattiti parlamentari. Si conserverebbe così la valenza simbolica di una carica che richiederebbe, comunque, di essere svolta con maggiore responsabilità di quanto, in generale, non si sia fatto finora.