La sentenza “Giudizio Universale”: una decisione retriva

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di Luciana Cardelli

La scorsa settimana è stata pubblicata la Sentenza del Tribunale civile di Roma sul contenzioso climatico “Giudizio Universale” (cfr. Il Tribunale civile di Roma boccia la prima causa contro lo Stato italiano per inazione climatica, dove si legge anche la sentenza). Dopo tre anni di udienze, il primo grado si chiude con una dichiarazione di inammissibilità per “difetto assoluto di giurisdizione”.Al cospetto del lungo tempo di discussione e alla complessità dell’inedita materia, la Sentenza stupisce per la sua sintetica e a tratti scarna struttura argomentativa, intrisa di obiter dicta difficili da decifrare senza leggere tutti gli atti del processo.

La Sentenza, come accennato, dichiara il difetto assoluto di giurisdizione, ma appunto dopo tre anni ovvero … dopo che la giurisdizione è stata pienamente esercitata (contro ogni criterio di economia processuale e di evidenza stessa del difetto assoluto). Non mancheranno certamente discussioni sul suo contenuto. A prima lettura, tuttavia, un dato sorprendente, e deludente, emerge chiaro e immediato.

La decisione si fonda sull’affermazione che, nell’ordinamento italiano, la questione dell’emergenza climatica, dal Tribunale espressamente rubricata come urgenza planetaria esistenziale, investirebbe un’area sottratta al sindacato giurisdizionale, in quanto espressiva di attività politica, come tale insindacabile da parte del giudice.

Nello specifico, secondo il giudicante romano, siffatta insindacabilità opererebbe a prescindere dall’appartenenza dell’Italia sia all’Unione europea (con le sue garanzie di accesso al giudice in materia ambientale, che vanno dalla Convenzione di Aarhus all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE e ai principi di effettività ed equivalenza nelle tutele) sia alla Convenzione europea dei diritti umani (che impone obblighi positivi di facere in capo agli Stati sulle questioni ambientali). Queste pur fondamentali fonti del sistema italiano dei diritti non sono in alcun modo prese in considerazione nella decisione né ancor meno contestualizzate alla luce degli artt. 10, 11 e 117 c.1 Cost.

Al contrario, per il giudice romano, la “politica” (il virgolettato si legge nella Sentenza) avrebbe la precedenza su tutto. Infatti, tale “politica”, coniugata come un non meglio definito “indirizzo politico” cumulativamente (e indistintamente) attribuito a Parlamento, Governo e amministrazione, sarebbe di per sé sufficiente a impedire l’accesso giudiziale, a mo’ di “controlimite” di potere e con buona pace dei “controlimiti” di principi e diritti costituzionali inviolabili, notoriamente predicati, invece, dalla Consulta.

Un simile ordito appare difficilmente accettabile anche in una prospettiva di esclusivo diritto interno. Il Tribunale, infatti, dimostra di ignorare totalmente la ricca giurisprudenza costituzionale e di Corte di cassazione proprio sul tema dell’intreccio fra accesso al giudice, discrezionalità e insindacabilità del potere, neminem laedere.

In primo luogo, non si avvede che la configurazione costituzionale dell’ordinamento italiano opera come «proiezione della garanzia accordata al bene fondamentale della vita» e non invece del potere (Corte cost. Sent. n. 223/1996), sicché è la vita la matrice ordinamentale di tutto, non il potere; e se quella vita risulta minacciata esistenzialmente – come paradossalmente il Tribunale pur ammette riconoscendo l’emergenza climatica – è la tutela della vita, non del potere, a dover prevalere in giudizio (cfr., di recente, M. Monteduro, La tutela della vita come matrice ordinamentale della tutela dell’ambiente (in senso lato ed in senso stretto),  2022).

In secondo luogo, il giudicante romano ignora che sempre la Corte costituzionale italiana, sin dalla decisione n. 81/2012, ha reputato accettabile «l’esistenza di spazi riservati alla scelta politica» nell’ordinamento italiano a due condizioni:

– se suffragata, tale esistenza, da elementi di diritto positivo (ma il Tribunale di Roma nulla offre in proposito);

– se non sussistono principi di natura giuridica «posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo, che predeterminano canoni di legalità ai quali la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto».

Ora, com’è risaputo, questi principi di natura giuridica esistono e tra essi si colloca proprio quel neminem laedere, su cui è stato fondato il “Giudizio Universale” (come, del resto, gran parte dei contenziosi climatici europei). Secondo la Corte costituzionale, il neminem laedere si staglia nell’ordinamento italiano nei seguenti termini:

1) come principio e valore identificativo dello Stato di diritto italiano (Sent. n. 16/1992), per cui qualsiasi ipotesi che «sopravvenga ad omologare fatti conseguiti alla violazione del neminem laedere si pone fuori del quadro dei valori su cui è costruito lo Stato di diritto»;

2) come «norma giuridica secondaria» la quale, supponendo «l’esistenza d’una norma giuridica primaria», si integra con il «valore precettivo» del diritto alla salute ex art. 32 Cost., rendendo indubbia «la sussistenza dell’illecito, con conseguente obbligo della riparazione, in caso di violazione del diritto stesso», e permettendo di sottolineare «energicamente» l’inaccettabilità di «limiti alla sua tutela risarcitoria» anche in nome della discrezionalità del potere (così Corte cost. Sentt. n. 184/1986, nonché nn. 641/1987, 307/1990, 202/1991, 71/1993, 561/1997 e successive decisioni);

3) come garanzia di accesso al giudice persino in via preventiva ossia come «rimedio a tutta la gamma delle conseguenze dannose che derivano dalla violazione effettuata» (Corte cost. Sent. n. 641/1987).

Questi tre elementi fondano la tutela giudiziale effettiva nelle situazioni di pericolo, come appunto quelle di emergenza (il dato si riscontra nella giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di situazioni di pericolo e minaccia). Pertanto, se è vero che «l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini» (così la cit. Sent. Corte cost. n. 81/2012), è quanto meno singolare che il Tribunale di Roma ne abbia voluto prescindere, sostenendo non sussistere, «né in astratto né in concreto» e nonostante l’emergenza climatica (si legge sempre nella Sentenza), fonte alcuna (neppure costituzionale, prima ancora che europea o CEDU) né situazione soggettiva (neppure nel pur ricchissimo quadro della declinazione del diritto alla salute in tutti i suoi determinanti), meritevoli di giustiziabilità. Così sentenziando, il dictum romano, ribadendo il carattere inedito e drammatico dell’emergenza climatica (anche al fine di giustificare la compensazione delle spese del giudizio), finisce col consumare proprio quanto la Corte costituzionale, con le citate Sentenze, ha cercato di scongiurare ovvero:

– «omologare fatti conseguiti alla violazione del neminem laedere» (l’emergenza climatica c’è ed è una minaccia lesiva, ma non ci sono strumenti di tutela preventiva per evitarne il peggio in Italia),

– ponendosi ineluttabilmente «fuori del quadro dei valori su cui è costruito lo Stato di diritto».

Si tratta di un paradosso retrivo (oltre che contrario a Costituzione), che getta un’ombra preoccupante sulla tutela dei diritti fondamentali in questo paese, al cospetto della più drammatica e ultimativa delle esperienze umane e nonostante il riformato art. 9 Cost.

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