L’intolleranza non è di casa nella Costituzione e tantomeno all’Università: note sul caso Molinari

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di Alberto Randazzo

 La contestazione, da parte di un gruppo di studenti, che ha impedito a Molinari di partecipare ad un dibattito che, insieme al Rettore Lorito, si sarebbe dovuto tenere all’Università Federico II di Napoli sul “Ruolo della cultura nel contesto di un Mediterraneo conteso”, richiede una riflessione. È questo solo un ulteriore episodio di intolleranza che si verifica nel nostro Paese.

Non si intende scendere nel merito del tema che il Direttore de “la Repubblica” avrebbe dovuto trattare (non certo perché non importante) né nelle dinamiche della vicenda. In questa occasione, infatti, si preferisce restare su un piano diverso, reputando particolarmente grave il fatto “in sé” perché tale è, appunto, qualunque episodio di intolleranza (che si manifesti in ambito universitario o altrove).

Per esprimere qualche considerazione, è possibile prendere le mosse dal comunicato diramato dal Quirinale. Come sempre, rendendo ulteriore testimonianza della sua spiccata sensibilità istituzionale, espressione mirabile del suo senso dello Stato e della Costituzione, il Presidente Mattarella è intervenuto manifestando solidarietà a Molinari, al quale – come si legge – «è stato impedito di svolgere una conferenza in una sede universitaria»; come ha osservato il Capo dello Stato, «quel che vi è da bandire dalle Università è l’intolleranza, perché con l’Università è incompatibile chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente». Queste poche ma preziose parole ispirano talune osservazioni, che si sottopongono alla comune attenzione.

Come si accennava, il fatto che si ostacoli qualcuno (chiunque egli sia) dal potere manifestare il proprio pensiero appare incompatibile con la Costituzione italiana, perché tale è qualunque forma di intolleranza. La Carta del ’48, come tutti sanno, è il frutto della Resistenza e, pertanto, della reazione proprio all’intolleranza, cifra drammatica e, al tempo stesso, identificativa della dittatura e, in generale, dei regimi totalitari.

Com’è noto, uno dei principi fondamentali su cui si regge la Costituzione è quello pluralista, indissolubilmente collegato a quello personalista che permea l’intera Carta e che si esprime nella tutela dei valori di dignità, libertà ed eguaglianza, dai quali tutti gli altri valori costituzionali discendono componendo i primi e i secondi l’etica pubblica repubblicana. Com’è stato efficacemente osservato da un’autorevole dottrina, l’opzione a favore di una democrazia pluralista è da ritenere irreversibile al fine di fugare il pericolo di un’involuzione autoritaria dell’ordinamento che potrebbe riproporre lo scenario angosciante delineatosi alla vigilia della seconda grande guerra.

È proprio l’opposizione al pensiero unico, per lasciare spazio alla pluralità dei punti di vista e delle idee a connotare, tra l’altro, lo Stato costituzionale, affermatosi nelle democrazie occidentali.

Non v’è dubbio che anche gli studenti, per riportare l’attenzione alla vicenda di qualche giorno fa, abbiano il diritto di manifestare il proprio pensiero; tuttavia, tale libertà – sancita nell’art 21 Cost. e reputata «pietra angolare dell’ordine democratico» (v., ad es., Corte cost. n. 84 del 1969) – non legittima forme di oppressione del pensiero altrui; in altre parole, se è certo che il dissenso sia il “sale” della democrazia esso non può mai giungere al punto tale di impedire ad altri di esprimersi. Com’è noto, secondo un noto principio del liberalismo, la propria libertà finisce dove inizia quella altrui. Ecco perché, in estrema sintesi, e volendo semplificare al massimo, il concetto di limite è insito in quello di libertà (cfr., ex plurimis, Corte cost. n. 1 del 1956). Ragionando diversamente, si consentirebbe alla libertà di alcuni di affermarsi a discapito di quella di altri. Com’è chiaro, atteggiamenti di questo tipo si pongono al di fuori della Costituzione italiana, contraddicendone irrimediabilmente lo spirito.

Anche la libertà di manifestare il pensiero (in questo caso degli studenti, ma di tutti) incontra il limite esplicito del “buon costume” e quelli impliciti ricavabili dall’art. 21 Cost., che è da leggere in combinato disposto, specificamente, con gli artt. 2 e 3 Cost. e con altre previsioni della Carta. Inoltre, una manifestazione – come quella in discorso – può essere considerata una “riunione in movimento”, come tale garantita dall’art. 17 Cost.; tuttavia, anche in questo caso, come si sa, la Costituzione prevede due limiti (espliciti), dovendosi le riunioni svolgere «pacificamente» e «senz’armi». Non sembra, almeno da quanto si apprende dai mezzi di stampa, che la manifestazione di Napoli sia stata “pacifica” (non si sa se con armi).  

Non è possibile indugiare oltre sul punto, essendo piuttosto opportuno fermare l’attenzione su un altro aspetto che – se è possibile – rende la vicenda ancora più grave.Tale episodio si è consumato all’Università degli Studi, istituzione il cui altissimo valore come promotrice e, direi, “costruttrice” di cultura – unitamente alla Scuola – è riconosciuto nella Costituzione (v. artt. 9 e 33). Si è dell’avviso che proprio la cultura e la partecipazione siano le due “gambe” su cui si regge una liberal-democrazia. Come ha, di recente, rilevato G. Silvestri, la cultura è «componente primaria dello Stato costituzionale» e, richiamando P. Häberle, ha osservato che essa può essere considerata quarto elemento costitutivo dello Stato (insieme al territorio, al popolo e alla sovranità).   

Se si conviene – come si deve convenire – sulla centralità della persona umana nell’ordinamento costituzionale, è possibile affermare che qualunque comportamento che invece svilisca la persona stessa è, in re ipsa, antidemocratico e, pertanto, incompatibile con la Costituzione. L’Università, infatti, è luogo privilegiato ove si rende (rectius, si deve rendere) possibile la libera circolazione delle idee, il che non significa di certo che ognuno possa dire quello che vuole e come vuole, dovendo pur sempre rispettare le «forme e [i] limiti della Costituzione» (art. 1 Cost.).

Che proprio in una sede universitaria (e non è la prima volta, in tempi recenti) si verifichino vicende come quella dalla quali traggono spunto queste poche osservazioni preoccupa non poco ed esorta ad un’attenta vigilanza. D’altra parte, Calamandrei aveva avvertito proprio un uditorio composto da studenti «che sulla libertà bisogna vigilare». 

A quanto detto, prima di concludere, occorre aggiungere almeno altri due ordini di considerazioni. Per prima cosa, non si dimentichi che l’autonomia universitaria (che, nel caso in esame, legittimava ad organizzare quell’incontro) è essa stessa un valore costituzionale sancito nell’art. 33 Cost. Nella circostanza di qualche giorno fa sembra essere stata mortificata.

Inoltre, ad aggravare ancora di più l’accaduto, è da considerare che Molinari è espressione del mondo dell’informazione, quest’ultima essendo per sua natura parte essenziale della cultura e dovendo essere pluralista, alla luce di quanto detto. L’intima e stretta connessione del diritto all’informazione con la democrazia fa del primo un elemento irrinunciabile della seconda (nella sua doppia accezione, attiva e passiva: di informare e di informarsi). Come ha rilevato la Corte costituzionale, infatti, l’informazione è «condizione preliminare» e «presupposto insopprimibile» dello Stato democratico (v. sent. n. 348 del 1990, ma cfr. anche la dec. n. 206 del 2019).

Ancora da fonti giornalistiche si apprende che il Governo starebbe pensando di adottare misure repressive, come quella di limitare l’accesso nelle aule nelle quali si tengono gli incontri. Qualora fosse davvero questa la soluzione prescelta ci si dovrebbe chiedere come fare a valutare il numero degli accessi e quali debbano essere le occasioni in cui tali misure debbano essere adottate. La questione dirimente è la seguente: una misura del genere non ha alcun fondamento costituzionale, i limiti alla libertà di riunione – come detto – essendo ben altri. A ciò si aggiunga che non v’è dubbio che questa opzione sarebbe affidata ad una eccessiva discrezionalità (che, se male esercitata, può offrire il destro a forme di abuso di potere mascherate da apparente legalità), difficilmente controllabile.

Ecco perché soluzioni come quelle che in questo momento si manifestano all’orizzonte vanno valutate con attenzione e, se sproporzionate, con preoccupazione. La questione è la seguente: si può rispondere all’intolleranza con l’intolleranza? Alla luce di quanto fugacemente detto, mi sembra che occorra dare una risposta negativa. Non c’è dubbio che in uno Stato democratico la via del confronto pacifico – come detto – sia quella da percorrere, anche quando richiede più sacrificio e tempi più lunghi. Ciò significa avviare processi culturali in grado di prevenire comportamenti incostituzionali, prima di essere costretti a “curarne” le conseguenze (per parafrasare un noto detto). Tuttavia, non si è così ingenui da credere che ciò sia sempre possibile, lo Stato essendo chiamato (anzi, costretto) a “reprimere” comportamenti che minacciano i valori costituzionali. Questo, però, è un tema molto delicato perché nessuna repressione è ammissibile quando è essa stessa incompatibile con quei valori costituzionali che vorrebbe invece preservare. In altre parole, con una grave eterogenesi dei fini, la scelta di misure repressive (e a loro volta intolleranti) può rischiare di trasformare lo Stato democratico in uno “Stato di polizia”, incompatibile con la Carta. La linea di confine tra il primo e il secondo è a volte labile, mobile; ecco perché anche in questo caso è necessaria quella vigilanza, da parte del popolo, alla quale esortava Calamandrei.

Com’è chiaro, la tenuta della Costituzione italiana è in definitiva affidata ad una delicata opera di equilibrio tra valori che partecipano ad altrettanto delicate operazioni di bilanciamento (in particolare, da parte degli organi a ciò deputati) in grado di scongiurare la “tirannia” dell’uno sull’altro (cfr., ad es, Corte cost. n. 85 del 2013). Insomma, i cittadini devono poter nutrire la fiducia che lo Stato non adotti rimedi peggiori (o della stessa gravità) dei mali.

L’atteggiamento di chi si oppone con la forza alla libera e pacifica manifestazione del pensiero altrui appare assolutamente da stigmatizzare (si badi, non si giudicano le persone, ma i comportamenti). I ripetuti episodi di intolleranza fanno sempre suonare un campanello d’allarme perché, alla lunga e se non ricondotti negli argini della legalità costituzionale, aprono la strada a sistemi di natura (sostanzialmente) totalitaristica. Ciò accade, soprattutto, se e quando si rimane indifferenti e si assume un atteggiamento di “apatia politica”, finché un giorno si potrebbe avvertire un “soffocamento”. Perché, come disse ancora Calamandrei, «la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai».     

Come detto all’inizio, l’intento di queste poche righe non era scendere nel merito della posizione di Molinari o di quella degli studenti manifestanti. I due punti di vista meritano di confrontarsi pacatamente (come lo stesso giornalista si è dichiarato disponibile a fare) e nel rispetto reciproco. La democrazia, infatti, vive del dialogo tra posizioni diverse, un dialogo volto ad «abbattere i muri e costruire i ponti», per usare parole di Giorgio La Pira. D’altra parte, si sa, «ogni regno discorde cade in rovina e nessuna città o famiglia discorde può reggersi» (Mt 12,25).

Ecco perché, allora, tali diverse prospettive richiedono di essere approfondite dalle parti in causa e in generale, proprio perché in democrazia non si può fare a meno “dell’altro”, ossia di chi la pensa diversamente da sé. È nota la frase comunemente (ma, a quanto pare, erroneamente) attribuita a Voltaire, che recita più o meno così: «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo» (in realtà, sembra che si debba alla scrittrice britannica E.B. Hall). Al di là della paternità della citazione, pare che queste parole – anche se non interpretate alla lettera – diano la misura di un atteggiamento conforme alla democrazia che è, sì, retta dalla regola della maggioranza ma con il minore sacrificio possibile della minoranza.

Intaccare la cultura, come di fatto è accaduto ostacolando una iniziativa (ma anche l’istituzione) universitaria, significa attaccare la Costituzione, in primis proprio in quei valori di libertà ed eguaglianza che, unitamente alla dignità, come detto poco sopra, si pongono all’apice di tutti i valori che i Padri costituenti vollero “incastonare”, a mo’ di gemme preziose da custodire, nella Carta del ’48.

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