La sentenza CEDU sui diritti climatici: tre commenti

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Abbiamo ricevuto e pubblichiamo tre commenti alla sentenza della Corte dei diritti dell’uomo sui diritti climatici: gli autori sono: Giacomo Palombino, Alberto Cohen, Luciana Cardelli

LO AFFERMA (ANCHE) LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO: LA SFIDA CLIMATICA È UNA QUESTIONE DI DIRITTI

di Giacomo Palombino

Tra i giuristi che dedicano attenzione al tema dei cambiamenti climatici può talvolta registrarsi un certo disaccordo attorno a un punto: e cioè se si possa o meno affrontare la questione del riscaldamento globale e delle sue conseguenze attraverso il prisma dei diritti. Infatti, se da un lato si promuove una narrazione volta a dimostrare come la sfida climatica abbia una chiara incidenza sulla tutela dei diritti, dall’altro lato non mancano voci che affermano come quello del riscaldamento globale sia un tema da collocarsi nel perimetro della discrezionalità legislativa; detto diversamente, secondo questa visione, spettando esclusivamente al decisore politico stabilire se e come intervenire, non potrebbe configurarsi alcuna responsabilità dello Stato dinanzi ad eventuali pretese di individui che si ritengano lesi da politiche climatiche inadeguate. D’altronde, questa non è altro che la posizione assunta, talvolta, anche dalla giurisprudenza, come, per esempio, nel recente caso della inammissibilità della causa “Giudizio universale” dinanzi al Tribunale di Roma (su cui vedi in questo giornale Luciana Cardelli, Ines Bruno, Giacomo Palombino, Roberto Stavenato, Alberto Cohen).

Questa seconda impostazione, tuttavia, è da ritenersi inaccettabile, e non solo perché scientificamente imprecisa, ma anche perché non tiene conto di come la giustizia climatica rappresenti ormai un vero e proprio strumento di innovazione, “dal basso”, degli ordinamenti giuridici: promossa da individui e associazioni che denunciano la lesione di diritti soggettivi a causa della inazione pubblica dinanzi al riscaldamento globale, è proprio la sfera della tutela dei diritti che sta spingendo per la conformazione di politiche idonee a contrastare efficacemente la crisi climatica. Insomma, per quanto sia da considerarsi incompleta una lettura della scienza giuridica incentrata esclusivamente sulla garanzia dei diritti soggettivi, è da ritenersi altrettanto incompleta una lettura che tralasci come sia l’individuo il destinatario ultimo delle politiche pubbliche; le quali, se inesistenti o inadeguate, hanno inevitabili ricadute sulla vita di coloro che sono o sarebbero destinatari (anche indiretti) di quelle stesse politiche.

È per questo motivo che quanto stabilito, lo scorso 9 aprile, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo rispetto a tre distinti ricorsi concernenti i cambiamenti climatici rappresenta una vera e propria svolta nella riflessione giuridica sul tema; e si tratta di una svolta, si badi bene, anche se, in due di questi ricorsi, la Corte si è pronunciata per l’inammissibilità. Più nello specifico, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto inammissibile sia il ricorso Carême c. Francia, ritenendo non configurabile lo stato di vittima in capo al ricorrente; sia il ricorso Duarte Agostinho e altri c. Portogallo e altri 32 Stati, in particolare evidenziando che i ricorrenti non avevano esaurito i ricorsi interni all’ordinamento portoghese, circostanza che preclude l’accesso al sindacato della Corte. Quest’ultima ha invece affermato la responsabilità dello Stato nel caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri c. Svizzera, per violazione degli artt. 6 e 8 CEDU.

Se in quest’ultimo caso emerge, allora, come i giudici abbiano accolto in pieno l’orientamento volto a considerare il riscaldamento globale quale fenomeno lesivo dei diritti e di cui lo Stato può considerarsi responsabile, negli altri due casi questa impostazione non è affatto esclusa, essendo la inammissibilità legata a vizi procedurali o dati oggettivi che non precludono affatto (ma lasciano potenzialmente aperto) l’accertamento della responsabilità degli altri Stati convenuti. La Corte EDU ha quindi fornito una vera e propria chiave di lettura, che si spera possa servire da guida anche per quella giurisprudenza e quella dottrina che continuano a considerare l’inerzia degli Stati, dinanzi alla crisi climatica, una mera espressione di discrezionalità politica.

Da Strasburgo, in definitiva, arriva una notizia importante: è possibile accertare la responsabilità climatica degli Stati per violazione dei diritti.  

Carbon Budget e “lacuna critica” nella decisione CEDU “KlimaSeniorinnen

di Alberto T. Cohen

La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso “KlimaSeniorinnen” (Application no. 53600/20), resa pubblica lo scorso 9 aprile congiuntamente con gli altri due contenziosi climatici pendenti a Strasburgo, è estremamente importante, perché contiene una novità assoluta nel panorama del contenzioso climatico.

È la prima volta che un giudice, nel contenzioso climatico, qualifica l’assenza di calcolo del Carbon Budget (per di più “residuo”) non come “gap” (quindi mero dato fattuale di discordanza, rubricabile nell’alveo degli accertamenti probatori), ma come “critical lacuna”, quindi come assenza normativa, ovvero assenza di un parametro necessario e obbligatorio, in tal senso normativo, con funzioni di limite esterno al potere statale e alla sua discrezionalità. In più l’aggettivazione “critical”, attribuita alla “lacuna”, è associata, nella sentenza, sia al sostantivo “decade”, ossia al fattore tempo del “decennio critico”, entro il quale salvare (e salvarsi) dal collasso climatico, sia ai Tipping Points, ossia ai punti di ribaltamento del sistema climatico, superati i quali (e purtroppo li stiamo irresponsabilmente superando: cfr. Global Tipping Points) non c’è rimedio alcuno alle perdite e danni che tutti subiremo nel prossimo futuro.

Alla luce di questo nesso di “criticità”, la Corte, al paragrafo 479, focalizza la “questione critica” di cui il giudice europeo (e nazionale) si deve occupare sindacando lo Stato: la “mancata azione” o “azione inadeguata”, in una parola l’ “omissione” di calcolo parametrata al tempo: quello che, nella migliore letteratura scientifica (e senza confutazione alcuna) è noto come “equazione di Lenton”. Se non si rispetta questa equazione, non c’è possibilità alcuna di salvarsi dalla catastrofe. Se non si parte da questa equazione, che scandisce la relazione temporale di dipendenza dei tempi (decisi dalla politica) dal “tempo critico” del sistema climatico rispetto ai Tipping Points, non c’è bilanciamento che tenga.

La variabile determinante delle decisioni responsabili è il tempo rimanente (il “decennio critico”) del sistema climatico sull’orlo dei Tipping Points, non l’autonomia della politica. Detto ancora più semplicemente: prima si calcola il Carbon Budget rispetto al “decennio critico” e poi si decide (bilanciando come si vuole ma dentro quel calcolo), non viceversa.

Neppure il Tribunale costituzionale tedesco si era spinto sino a tanto (cfr. Län­der können nicht zu Kli­ma­schutz verpf­lichtet werden). E, ad oggi, solo il Regno Unito ha proceduto in questo modo (cfr. Advice on reducing the UK’s emissions). Alcuni Stati, come l’Italia, non fanno neppure l’inverso; semplicemente ignorano il calcolo matematico nel “decennio critico”, in nome della loro discrezionalità: un atto suicida.

Il passaggio della Corte europea è dunque epocale, perché definisce il calcolo della quota sul tempo del “decennio critico” non più come un “oggetto” nella discrezionale disponibilità del potere, bensì come un “parametro” di quella discrezionalità, finalizzato a evitare danni e tutelare diritti, durante e dopo il “decennio critico”. In pratica, il calcolo del proprio Carbon Budget residuo, o una quantificazione equivalente (che invero migliore del Carbon Budget non c’è), garantisce l’effettività intertemporale e intergenerazionale del neminem laedere.

In Italia, lo rende comprensibile, con una semplicità quasi imbarazzante rispetto all’ottusità politica, il Focal point italiano dell’IPCC, gestito dalla Fondazione CMCC (sui cambiamenti climatici nel Mediterraneo). Ecco che cosa si legge alla voce Budget di carbonio: «Il concetto di carbon budget è chiaramente definito dall’IPCC, che fa una distinzione tra carbon budget totale – ovvero la quantità di carbonio a disposizione dell’umanità, a partire dal periodo preindustriale – e il budget di carbonio rimanente – ovvero la quantità di carbonio che, ad oggi, rimane da emettere in atmosfera per non superare i limiti definiti dagli accordi internazionali».

A questo punto, si comprende perché l’omissione del calcolo non faccia emergere un semplice “Gap” fattuale, bensì una vera e propria “lacuna normativa”, per di più “critica”. Senza calcolo del Carbon Budget rimanente, gli accordi internazionali non possono essere rispettati. Non calcolare è contra legem o, per usare il lessico della giurisprudenza italiana sul neminem laedere, diventa “non iure” e “contra ius”.

Infatti, la Corte europea così conclude al paragrafo 550: «Nel valutare se uno Stato sia rimasto all’interno del suo margine di apprezzamento, la Corte esaminerà se le autorità nazionali competenti, sia a livello legislativo, esecutivo o giudiziario, abbiano tenuto debitamente conto della necessità di: 

a) adottare misure generali che specifichino un calendario obiettivo per raggiungere la neutralità del carbonio e il bilancio complessivo del carbonio rimanente per lo stesso arco di tempo, o un altro metodo equivalente di quantificazione delle future emissioni di gas serra, in linea con l’obiettivo di mitigazione nazionale e/o globale; 

b) definire obiettivi e percorsi intermedi di riduzione delle emissioni di gas serra (per settore o altre metodologie pertinenti) ritenuti in grado, in linea di principio, di raggiungere gli obiettivi nazionali complessivi di riduzione dei gas serra entro i tempi pertinenti intrapresi nelle politiche nazionali; 

c) fornire prove che dimostrino se hanno debitamente rispettato, o sono in procinto di conformarsi, ai pertinenti obiettivi di riduzione dei gas serra; 

d) mantenere aggiornati i pertinenti obiettivi di riduzione dei gas serra con la dovuta diligenza e sulla base delle migliori prove disponibili; 

e) agire in tempo utile e in modo adeguato e coerente nell’elaborazione e nell’attuazione della legislazione e delle misure pertinenti».

Questi sono i cinque paletti che contornano e limitano il potere. Di essi, ci dice la Corte, può e deve occuparsi anche il giudice nazionale, dato che la valutazione «se uno Stato sia rimasto entro il suo margine di apprezzamento» può essere svolta anche a “livello giudiziario”, dunque non contro la separazione dei poteri, come ritenuto dal Tribunale di Roma nel caso “Giudizio Universale”, ma dentro la separazione dei poteri. E lì dove, come nel caso svizzero, emergono «alcune lacune critiche nel processo di attuazione da parte delle autorità, del relativo quadro normativo nazionale, inclusa l’incapacità da parte loro di quantificare, attraverso un bilancio del carbonio o in altro modo, le limitazioni nazionali alle emissioni di gas serra», non sarà il “margine di apprezzamento” a ostacolare l’intervento giudiziale; perché quel margine sarà stato infranto contra legem abilitando il giudice a intervenire.

Se un merito indiscusso può essere attribuito a questa decisione di Strasburgo, esso riguarda il chiarimento definitivo di che cosa sia il Carbon Budget residuo: non un capriccio, non una scelta discrezionale, ma un calcolo necessario, ineludibile e preliminare per non operare contra legem ossia per non agire in flagranza di una “critical lacuna”.

Se Strasburgo smentisce Roma su Carbon Budget e fattore tempo nell’emergenza climatica

di Luciana Cardelli

Il 9 aprile sono state rese pubbliche le storiche tre decisioni della Corte europea dei diritti umani in merito ai primi tre contenziosi climatici a livello europeo: i casi “Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri v. Switzerland” (application no. 53600/20), “Carême v. France” (no. 7189/21) e “Duarte Agostinho e altri v. Portogallo e 32 altri Stati” (no. 39371/20). La sintesi delle tre decisioni si può leggere qui.

È stato accolto il primo ricorso, quello nei confronti della Svizzera, per violazione degli artt. 6 e 8 CEDU, mentre sono stati rigettati quello francese e quello dei ragazzi portoghesi verso gli Stati europei, Italia inclusa. 

A prima lettura emerge chiara una significativa discordanza tra le tesi della CEDU e quelle della sentenza del Tribunale civile di Roma sul caso climatico “Giudizio Universale”. A dire il vero, più che di una discordanza, si tratta di una vera e propria smentita. Non è la priva volta che succede nella materia ambientale tra Italia e Strasburgo: l’annosa vicenda dell’ex Ilva di Taranto lo testimonia ampiamente, a partire dal caso “Cordella”. Tuttavia, il dato interessante, messo in evidenza sin dai comunicati ufficiali della Corte europea, verte su due profili, totalmente sottovalutati dal Tribunale italiano: uno fattuale e l’altro costituzionale.

Il riscontro parte proprio dal tema del “Carbon Budget residuo”, parametro contabile di cui ci si è già occupati in questa testata da parte di diversi autori (Bruno, Cardelli, Carducci, Cohen, Stavenato, Trivi), in ragione del fatto che il giudice italiano l’ha totalmente ignorato. Così spiega la Corte EDU (in mia traduzione italiana del comunicato stampa del 9 aprile con riguardo al caso “KlimaSeniorinnen”): «La Corte ha ritenuto che la Confederazione Svizzera non abbia adempiuto ai suoi doveri (“obblighi positivi”) ai sensi della Convenzione sul cambiamento climatico. Si sono verificate lacune critiche nel processo di messa in atto del relativo quadro normativo nazionale, inclusa l’incapacità, da parte delle autorità svizzere, di quantificare, attraverso un bilancio del carbonio o in altro modo, le limitazioni nazionali alle emissioni di gas serra (GHG). Pur riconoscendo che le autorità nazionali godono di un ampio potere discrezionale in relazione all’attuazione delle leggi e delle misure, la Corte ha ritenuto, sulla base degli elementi a sua disposizione, che le autorità svizzere non hanno agito in tempo e in modo adeguato per ideare, sviluppare e attuare legislazione e misure pertinenti in questo caso [e] e non hanno preso in considerazione le prove scientifiche convincenti riguardanti il cambiamento climatico».

Quindi,

– la CEDU impone “obblighi positivi” in capo agli Stati sul cambiamento climatico,

– per cui non calcolare il “Carbon Budget” o altri strumenti, per “quantificare” le limitazioni nazionali di emissioni di gas serra, costituisce una “lacuna critica”,

– non giustificabile dal margine di potere discrezionale degli Stati, che non può condurre al non aver “agito in tempo e in modo adeguato”,

– sicché gli “obblighi positivi” presuppongono sempre un “processo” di quantificazione e misurazione del tempo,

– nella considerazione – anche in sede giudiziale – delle prove scientifiche “convincenti”,

– e non possono dunque consistere semplicemente in atti formali per di più insindacabili.

Questi sei passaggi offrono un quadro diametralmente opposto a quello del Tribunale di Roma, convinto, al contrario, che:

– non esistano obbligazioni climatiche;

– l’omesso calcolo del “Carbon Budget” rappresenti una scelta di “indirizzo politico” e non invece una “lacuna critica”;

–  la discrezionalità del potere possa procedere a proprio piacimento sul tempo e l’adeguatezza delle decisioni;

– si possa prescindere anche dalla scienza;

– non esistano diritti umani meritevoli di tutela nell’emergenza climatica;

– esistano riserve normative di assoluta insindacabilità giudiziale per … “tradizione”.

Quest’ultimo passaggio è smentito anche dalla decisione sul caso “Duarte”: infatti, sempre dal comunicato stampa si apprende, all’interno di un paragrafo appositamente dedicato alla “Exhaustion of domestic remedies”, che il giudice delle questioni climatiche, alla luce non solo delle fonti costituzionali e legali di ciascun paese ma anche della loro integrazione con la CEDU, non può che essere quello domestico.

Questa sussidiarietà giudiziale, combinata con il panorama dei diritti costituzionali riconosciuti dai singoli paesi (e non si può certo dire che l’Italia ne sia sprovvista, soprattutto dopo la riforma degli artt. 9 e 41 Cost.) e con gli argomenti del caso “KlimaSeniorinnen”, comporta tre conseguenze inesorabili:

– che il fattore tempo, dimostrato, a Roma come a Strasburgo, dall’applicazione della fondamentale “equazione di Lentom et al.” sull’emergenza climatica nel Carbon Budget residuo, segna il limite esterno alla discrezionalità di qualsiasi potere (con buona pace delle presunte “riserve”, evocate dal giudice italiano in nome della “tradizione”);

– che Carbon Budget residuo e quantificazione del fattore tempo sono contenuti costitutivi dell’ “obbligo positivo” di ciascuno Stato;

– che il giudice naturale, in tema di accertamento della “lacuna critica” dell’omesso Carbon Budget e della connessa esclusione del fattore tempo dell’emergenza climatica, coincida proprio – per sussidiarietà euro-unitaria – con quel Tribunale civile romano, che invece si è trincerato dietro lo scudo – “tradizionalista” – del difetto assoluto di giurisdizione e della inutilità dell’accertamento scientifico in nome della subordinazione all’ “indirizzo politico”.

A questo punto, sarà molto difficile (se non impossibile), in caso di impugnazione in appello della sentenza “Giudizio Universale”, ribadire ulteriormente le tesi italiane di chiusura alla tutela giudiziale.

Significherebbe violare la CEDU ed eleggere l’Italia a paese tanto fieramente fermo nelle sue “tradizioni” di ossequio alla politica, quanto ottusamente destinato alla rovina del suo sistema climatico e delle persone che lo abitano. È difficile immaginare chi ne potrebbe andare orgoglioso: non certo le generazioni future, pur tutelate dal riformato art. 9 della Costituzione.

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