La sentenza del caso climatico “Giudizio Universale” è nulla

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di Alfio Giaccardi

Molto si sta discutendo intorno alla sentenza del Tribunale civile di Roma sul caso climatico “Giudizio Universale”, soprattutto dopo le successive decisioni della Corte di Strasburgo, in materia sempre climatica. Un profilo determinante, tuttavia, sembra ancora non essere emerso. Forse, si spiega con la mancata lettura delle corpose, articolate e dettagliatamente documentate difese degli avvocati della causa.

Infatti, se si ha la pazienza di leggere l’intero Atto di citazione di “Giudizio Universale” (cfr. qui), in particolar modo i Capitoli I (I problemi climatici) e V (I diritti lesi), congiuntamente con le memorie istruttorie e con le comparse di precisazione delle conclusioni (documenti, tutti, che un qualsiasi operatore del diritto avrebbe l’onere di considerare prima di discutere di un caso di diritto civile, del tutto inedito come questo), non ci si può non rendere conto di tre elementi, fattuali e giuridici, che il Tribunale di Roma ha totalmente ignorato e omesso nella sua decisione, ovvero:

a) la circostanza che l’emergenza climatica, per elementari leggi bio-fisiche (descritte appunto nel Capitolo I della citazione) è un’emergenza “sanitaria”, dato che sconvolge la salute umana in tutti i suoi determinanti (cfr., tra i tanti, ISS, Salute e cambiamenti climatici);

b) la connessa constatazione che proprio lo Stato, attraverso la sua Avvocatura erariale, ha riconosciuto esplicitamente tale fatto sconvolgente, rendendolo dunque incontestabile ai sensi dell’art. 2697, comma 2, del Codice civile (secondo cui «chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti … deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda»);

c) la verifica che effettivamente, nell’Atto di citazione, sono stati elencati puntigliosamente tutti i diritti soggettivi compromessi o minacciati dall’emergenza climatica in quanto emergenza “sanitaria”, provvedendo a differenziarli, a loro volta, in diritti umani e/o fondamentali ai beni vitali (pp. 55-59 dell’Atto), diritto al clima stabile e sicuro (pp. 59-62 dell’Atto), diritti riconosciuti e tutelati dalla CEDU per come interpretati dalla Corte di Strasburgo (pp. 63-37 dell’Atto), diritti all’informazione e a godere dei progressi scientifici che tutelano dal disastro climatico (pp. 67-68).

Al cospetto di questo corposo (e francamente ineccepibile) apparato fattuale e giuridico, il Tribunale di Roma non dice nulla. Menziona soltanto, per disconoscerlo, il diritto umano al clima stabile e sicuro. Eppure sono le situazioni giuridiche soggettive, affermate come esistenti da chi agisce in giudizio, a definire l’oggetto della pronuncia del giudice civile; non il giudice di testa sua. Ed è fin troppo noto che lo scopo del processo di cognizione civile consiste nel determinare la regola del “caso concreto” su tutti i diritti lamentati lesi.

Questi due particolari implicano che il giudice potrà pronunciare correttamente la regola del “caso concreto” solo in un modo: partendo dall’affermazione della titolarità di tutti i diritti (di tutti, non invece solo di alcuni a suo piacimento scelti), posti in essere nell’Atto introduttivo di citazione e discussi e provati nelle successive difese processuali (cfr. Cass. civ. sez. II, 22055/2018). Si tratta di una deontologia di fondamento costituzionale, dato che, ai sensi dell’art. 24 Cost., tutti possono agire in giudizio per la difesa dei «propri diritti», dunque non per … “uno solo alla volta” di essi o – peggio – per “selezione” unilaterale da parte del giudice. A siffatta deontologia, poi, corrisponde quanto disposto dall’art. 112 del Codice di procedura civile, in forza del quale «Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d’ufficio su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti».

Nel caso “Giudizio Universale”, invece, il Tribunale di Roma ha “selezionato” a suo capriccio. Infatti:

– invece di tener conto, ai sensi del cit. art. 2697 Cod. civ., dell’assenza o meno di eccezioni statali sul fatto che l’emergenza climatica sia un’emergenza sanitaria, il Tribunale ha (implicitamente) negato tale fatto, da nessuna delle due parti messo in discussione nei contenuti del Capitolo I dell’Atto di citazione;

– invece di pronunciarsi su «tutta la domanda» (ovvero sulla domanda rapportata a tutti i «propri diritti» rivendicati dagli attori ed elencati e diversificati nel Capitolo V dell’Atto di citazione), il Tribunale si è pronunciato sul solo diritto umano al clima stabile e sicuro.

In una parola, il Tribunale ha eluso il principio del “chiesto-pronunciato”. Il che significa due cose:

– che la sentenza “Giudizio Universale” è nulla per violazione dell’art. 24, comma 1, Cost., dell’art 2697, comma 2, Cod. civ., e dell’art. 112 Cod. proc. Civile;

– che, in ragione dell’art. 161 del Codice proc. civile, tale nullità costituisce motivo di impugnazione in appello.

Non è tutto, però. La violazione del principio “chiesto-pronunciato” ha occultato due altri aspetti fondamentali della causa climatica “Giudizio Universale”, distorcendone arbitrariamente l’esito.

Il primo riguarda l’omissione della tutela del diritto alla salute. Quando si agisce giudizialmente anche – ma non solo – a tutela del diritto alla salute (come in “Giudizio Universale”), non può mai eccepirsi il difetto assoluto di giurisdizione ovvero, detto in termini semplici, non si può mai negare l’esistenza di un giudice che su tale diritto si esprima: il dato è pacifico e riguarda sia gli atti che le omissioni, totali o parziali, dei poteri pubblici, come – da ultimo – ribadito e spiegato dalla Cassazione civile in SS.UU. 5668/2023. Il Tribunale di Roma cancella, d’un tratto e clamorosamente, questa notoria (perché quasi cinquantennale) acquisizione del diritto costituzionale italiano, per decidere contra Constitutionem.

Il secondo aspetto riguarda le due storiche sentenze della Corte costituzionale nn. 184/1986 e 641/1987, ampiamente analizzate negli atti di “Giudizio Universale”. Quelle due decisioni, rafforzatesi nel tempo nella giurisprudenza sia costituzionale che di Cassazione, non solo riconoscono «la nuova valenza» dell’art. 2043 Cod. civ. (in materia di responsabilità extracontrattuale anche dello Stato), «a seguito e per effetto dell’entrata in vigore della Costituzione, come strumento per la protezione dei valori che essa prevede ed assicura … » (per cui il neminem laedere è regola a copertura costituzionale non disapplicabile dal giudice), ma affermano altresì, in nome del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che «la responsabilità civile ben può assumere compiti preventivi e sanzionatori» (per cui il neminem laedere è azionabile anche in via preventiva).

Giudizio Universale” è stata dichiaratamente un’inziativa di prevenzione nell’emergenza climatica per evitare il peggio su tutti i diritti rivendicati. Ciononostante, il Tribunale di Roma fa orecchio da mercante; nega il tutto, come se fosse un potere pubblico sottratto ai principi internazionali, europei e (anche) nazionali (si v. l’art. 3-ter del Codice dell’Ambiente) di prevenzione e precauzione contro la catastrofe: con buona pace dell’art. 27 della Convenzione di Vienna del 1969, con cui si sancisce che qualsiasi disposizione interna di uno Stato non è in alcun modo causa di giustificazione della mancata esecuzione di trattati internazionali e di loro principi.

Pertanto, la sentenza “Giudizio Universale” è nulla pure per espressa violazione del principio di prevenzione, anch’esso di rilievo costituzionale in virtù degli artt. 10 (si pensi al principio No Harm nelle decisioni di uno Stato e dei suoi giudici) e 11 (si pensi all’art. 191 TFUE, che riguarda tutti, giudici compresi).

Resta, allora, da chiedersi come sia possibile discutere in Italia di tutela dei diritti nell’emergenza climatica, se persino un giudice si permette di selezionare arbitrariamente le situazioni soggettive minacciate o compromesse dalla drammatica degenerazione planetaria e di confutare fatti, che le parti hanno invece documentalmente riconosciuto,

Se “bocca della legge” devono essere, i giudici lo dovrebbero essere prendendo in mano la Costituzione e la giurisprudenza della Corte costituzionale, non facendone carta straccia (cfr. L’interpretazione secundum constitutionem tra Corte costituzionale e giudici comuni), come in questo caso.

 

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