Delocalizzare (non) stanca: il caso Embraco e la vibrante protesta del ministro

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di Andrea Guazzarotti*

Un ennesimo caso di delocalizzazione nell’UE: la multinazionale Embraco ha deciso di spostare la produzione dal Piemonte in Slovacchia, ove il costo del lavoro è pari a meno della metà che in Italia. Il Ministro Calenda, già fervente sostenitore del TTIP, trova qualcosa da obiettare per la strategia opportunistica dell’impresa (la quale, negli anni di stabilimento in Italia, ha già beneficiato di cospicui finanziamenti statali). L’accusa mossa dal Ministro italiano alla Slovacchia sarebbe quella di (ab)usare dei fondi europei per sottrarre all’Italia l’investitore straniero. A qualcuno verrà alla mente il caso di Apple che, per dare lavoro ai cittadini irlandesi, otteneva sconti fiscali spudorati, così sottraendo basi imponibili per la fiscalità a tutti i cittadini europei.

L’Europa è questo: stato federale, quando fa comodo ai giganti del mercato, organizzazione di libero scambio senza poteri fiscali, quando c’è da tutelare i cittadini dal dumping sociale. Ma Calenda sembra avere una risposta al problema: quando uno Stato dell’UE attira nella propria giurisdizione un’impresa, sottraendola a un altro Stato membro, quest’ultimo deve poter essere in grado di rilanciare, pardon: ribassare, di offrire, cioè, le stesse condizioni al ribasso, senza rischio di incorrere nel divieto di aiuti di stato e delle ire della Commissione europea. Geniale, no? Per evitare che lo Stato debba pagare cassa integrazione e/o sussidi di disoccupazione causati dalla delocalizzazione, anticipiamo gli effetti del dumping e lasciamo che le imprese ci ricattino rimanendo sul suolo italico esentasse.

L’Unione europea dispone già di un ammortizzatore sociale rispetto al rischio delocalizzazione: si tratta dell’altisonante Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione, la cui capienza è, tuttavia, assolutamente inadeguata (con una dotazione annua massima per il periodo 2014-2020 di soli 150 milioni di euro, non utilizzabile per sussidi di disoccupazione o simili, bensì per corsi di riqualificazione, orientamento professionale, imprenditorialità e creazione di nuove aziende). La tentazione sarebbe, dunque, quella di dire: aumentiamo i finanziamenti di tale fondo, così che i lavoratori possano riqualificarsi e re-impiegarsi in attività meno facilmente delocalizzabili (anche per questo le politiche della Commissione UE insistono da anni sull’autoimprenditorialità: chi è imprenditore di se stesso, non rischia delocalizzazioni).

Ma anche questo è un modo sbagliato di impostare il problema, che scarica sui soli lavoratori tutta la responsabilità della disparità competitiva tra sistemi economici nazionali compresi in un mercato iper-liberalizzato delle merci e dei capitali. Il nocciolo della questione sta nell’obiettivo che si vuol raggiungere con la libera circolazione delle imprese, se quello di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori nel nuovo Paese di stabilimento, consentendo loro di sindacalizzarsi e di ridurre la diseguaglianza sia localmente che globalmente, o al contrario di ridurre la forza contrattuale e sindacale dei lavoratori del Paese di provenienza. Quello che finora intuiamo è che le imprese multinazionali traslocano anche dai Paesi inizialmente più appetibili proprio quando i loro nuovi dipendenti cominciano ad alzare la testa e avanzare timide richieste sindacali (si veda il bel docufilm “Merci Patron!”). Il lavoro, insomma, non è più garantito bensì elemosinato.

«Quando (…) un’impresa europea investe in Cina per fabbricare dei prodotti destinati al mercato cinese, l’esercizio della libertà di circolazione dei capitali favorisce l’occupazione e la produzione di beni utili ai cittadini di questo paese (…). Quanto, invece, quest’investimento mira a fabbricare prodotti destinati a essere reimportati in Europa, evitando così di dovere pagare gli stipendi e i contributi previdenziali e fiscali ivi previsti, si è in presenza di un abuso della libera circolazione delle merci e di una lesione dei diritti dell’uomo. Di fronte a questi fenomeni, l’Europa dovrebbe essere in grado di assoggettare queste importazioni al pagamento di tasse equivalenti all’ammontare dei costi sociali ai quali l’impresa ha cercato di sfuggire» (A. Supiot). Non sarebbe il caso di cominciare a chiedere questo, in Europa, e smettere di fingere che le Carte dei diritti e la loro tutela giudiziaria possa davvero compensare l’assenza dello Stato?

* Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Ferrara

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2 commenti su “Delocalizzare (non) stanca: il caso Embraco e la vibrante protesta del ministro”

  1. Mi pare una soluzione alla Salvini, da bar sport. Si sceglie di stabilirsi in un Paese per via di quello che offre. In genere si considera la logistica, la disponibilità economica dei fattori, la certezza del diritto, la burocrazia e la corruzione, le tasse e le imposte. Se il Paese non è attrattivo su questi parametri base, non ci sono leggi, norme e vincoli che tengano.

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  2. Non capisco la tesi sostenuta dall’autore. Mercato comune significa per le aziende libertà di insediarsi dove meglio si credono. Fra Stati membri e regioni esiste una naturale, voluta e benefica concorrenza su numerosi fattori: infrastrutture, ambiente culturale, comunicazioni, procedure amministrative snelle e neutrali, certezza del diritto e procedure giudiziarie efficienti, livello di formazione delle risorse umane, accesso al credito, tassi bassi e stabili, fiscalità competitiva. Poi esistono le sovvenzioni pubbliche, alcune finanziate grazie ai fondi strutturali europei in Italia attraverso le regioni. Non c’è molta trasparenza nell’utilizzo dei finanziamenti pubblici, né in Italia né ovviamente in Slovacchia. La cronaca recente sta rivelando altri imbarazzanti parallelismi. Alla fine conviene all’Italia 1. individuare e correggere in propri fattori che pesano sulla competitività internazionale e intra-europea e 2. Indirizzare lo sviluppo economico e gli investimenti privati su settori innovativi ad alto valore aggiunto invece di insistere sui componenti elettrodomestici più banali e …. sull’acciaio. All’Embraco bisognava dire che i vantaggi iniziali sono da rimborsare se l’azienda chiude prima. Il Jobs Act forse doveva prevedere dei compensi di licenziamento (legittimo) più alti. Alla Slovacchia infine bisognava dire, a novembre, prendetevi pure l’Embraco, ma votate per l’EMA a favore di Milano. È l’astensione slovacca che ha fatto perdere la candidatura della metropoli lombarda.

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