di Alessandro Morelli
Dopo il 4 dicembre 2016, la prossima data da segnare su un calendario politico sempre più ansiogeno è il 24 gennaio 2017, giorno in cui, a Palazzo della Consulta, si svolgerà l’udienza del giudizio relativo all’Italicum.Tra politici e commentatori si è rapidamente diffusa l’idea che il Parlamento dovrebbe attendere la pronuncia della Corte costituzionale e che non potrebbe mettere mano subito alle leggi elettorali di Camera e Senato, per renderle anche solo coerenti. Qualcuno ha persino sostenuto che un intervento legislativo si configurerebbe ora come una “scortesia istituzionale” nei confronti dei giudici della Consulta, come se non fosse una prerogativa delle Camere quella di decidere in materia elettorale (ovviamente nel rispetto della legalità costituzionale).
Si trascura che la Corte è un organo di garanzia, chiamato a pronunciarsi nelle forme e con i metodi della giurisdizione. È un giudice, anche se politico è l’oggetto del suo giudizio: la legge. Certo, questo apparente ossimoro, nel quale pure trova espressione uno dei connotati fondamentali della forma di Stato vigente, può generare confusione in chi non ha dimestichezza con i principi del costituzionalismo e con le esigenze di limitazione giuridica del potere politico. E così molti vedono dietro tutte le decisioni del Giudice delle leggi, comprese quelle relative alla calendarizzazione delle sue udienze, scelte di opportunità politica, laddove spesso stanno solo ragioni di ordine tecnico e regole processuali.
Ora, la decisione che la Corte emetterà sull’Italicum rischia di generare un ulteriore equivoco. Il giudizio potrebbe concludersi con una pronuncia d’inammissibilità, con una di rigetto o con una di accoglimento. Quando il Giudice delle leggi accoglie la questione, dichiara l’illegittimità della legge impugnata e la espunge dall’ordinamento. Se, invece, pronuncia l’inammissibilità della questione, la Corte non entra nel merito, rilevando la mancanza di condizioni necessarie all’instaurazione del giudizio. Se, infine, emette una decisione di rigetto, dichiara l’infondatezza della questione, affermando l’insussistenza del vizio di legittimità, ma solo nei limiti in cui tale vizio è stato denunciato nell’atto introduttivo del giudizio. Quando la Consulta pronuncia una sentenza di rigetto, non dà alcuna patente di costituzionalità alla legge impugnata. La Corte, in sostanza, può dichiarare che una legge è illegittima, ma non che essa è totalmente e definitivamente legittima. E, infatti, chiunque, nelle forme appropriate, può impugnare nuovamente una legge uscita indenne da un giudizio di costituzionalità. E una legge fatta salva dalla Corte non diventa intoccabile per lo stesso Parlamento, che può modificarne come meglio crede il contenuto e persino abrogarla.
Si tratta di sottigliezze da giuristi? Può darsi. Il rischio di sottovalutare tali “sottigliezze” è, però, quello di alimentare una nuova mitizzazione della pronuncia della Corte sull’Italicum. Se le questioni di costituzionalità sollevate saranno accolte, non dovrà leggersi la decisione come una definitiva bocciatura del maggioritario (a favore del proporzionale), così come il rigetto delle medesime questioni non comporterà alcuna “costituzionalizzazione” della formula maggioritaria (o la necessità di estendere l’Italicum anche al Senato). Che tali fraintendimenti si abbiano, tuttavia, è molto probabile.
Per questo, sarebbe bene che le Camere anticipassero il giudizio della Corte, intervenendo anche sugli aspetti più problematici della legge elettorale della Camera. Non si tratterebbe di uno sgarbo istituzionale, ma di un normale esercizio delle attribuzioni parlamentari, che avrebbe anche il merito di restituire alle Camere (e alle forze politiche in esse presenti) la responsabilità di una scelta tutta politica, dalla quale dipenderà, in gran parte, il futuro delle istituzioni.