I partiti nel diritto privato:
il codice civile arriva dove può

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di Maria Vita De Giorgi *

Nel giro di pochi mesi i provvedimenti di un partito politico (che si chiami Movimento, non cambia nulla) sono sottoposti al vaglio di un giudice civile (Trib. Roma 12 aprile 2016, Trib. Napoli, 14 luglio 2016, Trib. Roma 17.1.2017, da ultimo Trib. Genova 10 aprile 2017). Cosa sta succedendo? Perché questa raffica di decisioni, sconosciuta in precedenza e, soprattutto, quali norme possono/devono applicare i giudici civili? I giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101, 2° co. Cost.), ma dove si trova una legge sui partiti? (a parte il d.l. 28 dicembre 2013, n. 149, che ha abolito il finanziamento pubblico diretto).

Dagli anni ’50 del secolo scorso, subito dopo la proclamazione della Repubblica democratica, la proposta di una legge che contenesse norme destinate a regolare – dei partiti – organizzazione, requisiti minimi di democraticità e attività è stata respinta con vigore. Nei primi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione si è continuato a invocare, per giustificare l’inerzia, il ricordo del partito unico, che avrebbe legittimato sfiducia e diffidenza nei confronti dell’intervento legislativo. Certo non era lusinghiero che sfiducia e diffidenza riguardassero anche un diritto che sarebbe stato prodotto dalla novella democrazia.

Eppure la Germania, che pure aveva alle spalle un periodo certo non più roseo del nostro quanto a dittatura, provvide già nel 1967 a fornirsi di un’ottima legge, affrontando tra gli altri anche il problema della democrazia interna (in conformità con l’art. 21 della Costituzione all’epoca tedesco-occidentale). Il Parteiengesetz, 24 luglio 1967, nella nuova versione pubblicata il 31 gennaio 1994, modificata il 23 ottobre 2011, contiene ‒ in ben 41 §§ ‒ un’ampia, meritevole, disciplina dei partiti politici e del loro finanziamento, pubblico e privato, che sarebbe bene conoscere per accorgersi come una legge di questo tipo non è né vessatoria, né poliziesca. Al contrario giova allo stesso agire dei partiti, anche nei rapporti reciproci.

La nostra dottrina, seguita dalla giurisprudenza – peraltro scarna – ha invece sostenuto e continuato a sostenere per decenni che i partiti (o movimenti politici) altro non sono che normali associazioni non riconosciute di diritto privato. Il che significa che le norme di riferimento sono quelle contenute negli art. 36-38 c.c. che non regolano quasi nulla, salvo qualche profilo di responsabilità per le obbligazioni assunte.

L’organizzazione e l’attività dei più importanti enti politici è affidata perciò a poche norme dedicate, all’origine, a gruppi della statura dei circoli del bridge, neppure di un’associazione benefica perché questa, soprattutto se Onlus, è soggetta a maggiori controlli.

Gran parte del dibattito politico e dottrinale si è aggrovigliato (un nodo che continua a essere apparentemente insolubile per l’approvazione della legge in questo periodo fermo in Parlamento) sulla questione se gli statuti dei partiti dovessero adeguarsi a principi di elementare democrazia e trasparenza riguardo ai rapporti con e tra gli associati, finalità politiche, elezioni e revoca dei dirigenti, designazione dei candidati, gestione dei finanziamenti.

I partiti hanno sostenuto fin dall’inizio l’inapplicabilità del principio del metodo democratico all’interno dei loro ordinamenti, servendosi di una lettura ambigua e restrittiva dell’art. 49 Cost. Hanno anche sapientemente coltivato l’affermazione che un intervento legislativo fosse inopportuno e addirittura illegittimo, laddove la configurazione privatistica immune da controlli sarebbe stata una garanzia nei confronti di ingerenze statali. I caratteri dell’associazione di diritto comune sono stati invocati persino per le attività che certamente coinvolgono sfere sicuramente non privatistiche: la partecipazione alla vicenda elettorale e la presenza, attraverso i gruppi parlamentari, nella dinamica del Parlamento.

Alle disposizioni del codice civile e costituzionali che, con la loro elasticità, hanno favorito un’interpretazione favorevole allo straripare dell’immunità, si sono aggiunte le leggi elettorali con le clausole di favore per i partiti rappresentati in Parlamento, quelle per il finanziamento, nonché le normative per l’uso della televisione a fini di campagna elettorale. Gli amministratori dei partiti e movimenti politici, inoltre, sono stati esonerati dalla responsabilità per le obbligazioni assunte, salvo che abbiano agito con dolo o colpa grave (art. 39 quaterdecies, d.l. 30 dic. 2005, n. 273).

Nel corso delle ultime legislature sono stati presentati ‒ dai più diversi schieramenti ‒ numerosi disegni di legge, che incontrano però la pervicace ostilità dell’uno o dell’altro movimento. Anche la magistratura ha sempre mostrato resistenza a valutare la democraticità degli statuti. Non va però dimenticato che fino a qualche tempo fa molto raramente i partiti sono stati chiamati davanti al tribunale (civile) e rarissime perciò sono state le occasioni in cui i giudici hanno potuto pronunciarsi.

I casi che si stanno presentando (e quasi sicuramente continueranno a presentarsi) denunciano un mutamento di cui occorre prendere atto. L’autolimitazione del diritto e della magistratura è stato ferreo per decenni perché trovava corrispondenza in una scelta conforme da parte degli interessati, fosse scelta dovuta a fedeltà, lealtà, omertà o timore non importa.

Sembrava perciò “normale” che i partiti restassero fuori dalle aule giudiziarie, tranne casi sporadici. Per decenni abbiamo letto di lealtà interna, devozione alle regole, coesione del gruppo che escludevano, anzi delegittimavano, l’intervento statale. La realtà invece ci squadernava scenari diversi.

Avviene da qualche tempo – la rapida successione di queste liti lo dimostra – che alla prudenza del diritto ad imporsi all’interno dei partiti non corrisponda più analoga cautela degli iscritti a sollecitare l’intervento del giudice

E poi, nella “vecchia” giurisprudenza il problema ricorrente atteneva all’ordinamento interno, alle delibere di esclusione, nel cui merito i giudici, come si sa, “non potevano entrare”. Adesso si tratta di primarie, procedimenti un tempo sconosciuti, in questo caso destinate a selezionare le candidature in vista delle elezioni. Si tratta di procedure a rilevanza non meramente interna, che a maggior ragione necessiterebbero di una normativa.

Il rifiuto della normativa statale, l’orgoglio di produrre un proprio ordinamento sono certo gratificanti, ma rischiano di essere perigliosi per lo stesso partito (o movimento), un’arma a doppio taglio per usare un luogo comune, come dimostrano queste vicende. Perché là dove manca una legge “uguale per tutti” e tutto è affidato all’autonomia privata, via via che i rapporti si fanno più complessi l’autoregolazione diventa sempre più precaria con inevitabile epilogo nelle aule giudiziarie.

Le decisioni si moltiplicheranno – facile profezia – e in assenza di norme generali e riconosciute il giudice, legittimamente e inevitabilmente, deciderà seguendo i propri principi e convinzioni, anche politici. Ne conseguiranno focosi dibattiti sull’uso strumentale della giustizia e la magistratura politicizzata.

* Già ordinario di Diritto civile presso l’Università di Ferrara

 

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