Rispondendo a Chiti: la democratizzazione dei poteri privati digitali tra complessità sociale e governo della tecnica

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di Andrea Venanzoni*

1. Lo Stato-network privato. Tra i vari, vorrei dire epocali, spunti problematici che Edoardo Chiti pone nel suo ‘Questi sono i nodi’, uno in particolare ha attirato la mia attenzione, ed è quello concernente la mutazione genetica delle piattaforme digitali che vanno rendendosi, passo dopo passo, esse stesse potere pubblico.

Questo processo determina l’insorgere di un loro ‘popolo’, avvinto e legato da una razionalità eminentemente tecnica, e fondato in una comunità virtuale (volendo riprendere la nota definizione di H. Reinhgold The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier, New York, Harper Perennial, 1993).

Questa comunità, composta al tempo stesso dai network costitutivi del digitale e dai frammenti del popolo istituzionale degli Stati-nazione di volta in volta sussunti nello spazio digitale,  a sua volta inizia a far germogliare una propria caratterizzazione intrinsecamente ‘politica’ distinta rispetto a quella delle comunità di appartenenza.

La crisi pandemica ha accelerato il processo di costruzione di dinamiche di autocoscienza politica di queste piattaforme ma ha anche agevolato la possibilità, da parte dei pubblici poteri che spesso sono stati chiamati a servirsene e dell’opinione pubblica tutta, di scandagliarne appunto la traslazione da una consistenza puramente privata all’esercizio di poteri che hanno una evidente connotazione e rilevanza in termini pubblicistici.

L’opinione pubblica mi sembra essersi posta il problema. Il potere politico molto meno, facendo addirittura registrare dei fenomeni adattivi alla logica dei network privati.

L’accelerazione è stata impressa, nel cuore della emergenza sanitaria,  dalla collaborazione richiesta dai poteri pubblici, i quali, per gestire le loro basilari funzioni, sublimate in modalità oscillanti dall’e-learning allo smart working, si sono trovati nudi davanti a loro stessi: nonostante spesso altisonanti proclami di Smart Nation (penso alla iniziativa strategica nazionale Repubblica digitale) sono stati riportati alla cruda realtà fotografata dall’indice DESI della Commissione europea che relega, per il 2019, ad esempio l’Italia ad un poco confortante ventiquattresimo posto su ventotto stati membri dell’Unione Europea.

Non avendo quindi essi stessi modo di approntare la app per il tracciamento o le piattaforme per le lezioni scolastiche o universitarie si sono dovuti rivolgere, direttamente o indirettamente, ai grandi poteri del digitale.

Ma quel processo di politicizzazione del corpo privato digitale era già da tempo in corso.

Sin dalla ventilata ipotesi di creazione di una propria ‘moneta’ digitale passando per la sempre più pervasiva incidenza sulle libertà costituzionali e per arrivare poi alla definizione di una propria giurisdizione privata interna, alcune piattaforme digitali sono andate costruendo una loro struttura che replica funzioni sovrane, nel generale quadro di una visione che finisce per portare alle estreme conseguenze quell’oggettivamente inquietante schema iper-territoriale di una nuova Lega Anseatica illustrata da Kenichi Omahe (The end of the Nation State: the Rise of the Regional Economies, NYC, Simon & Schuster, 1996), aggiornata all’eco-sistema digitale dagli OTT: Stati privati, in cui al cittadino tipica espressione del diritto costituzionale si sostituisce il socio, con un sistema di relazioni di delega che rammentano i rapporti istituzionali medioevali, secondo direttrici concettuali neo-medievaliste già largamente e criticamente illustrate in dottrina (D. D’Andrea, Oltre la sovranità. Lo spazio politico europeo tra post-modernità e nuovo Medioevo, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, XXXI, 2002). Stati privati legati tra loro da una comune visione tecnica che ambisce ad affiancarsi o forse a sostituirsi agli Stati.

Un sistema che emerge in maniera chiara ad esempio dalle coordinate ‘politiche’ di alcuni tra i maggiori esponenti della Silicon Valley, a partire da Peter Thiel, uno dei più rilevanti finanziatori esterni di Facebook nonché fondatore di Paypal, il quale nelle sue lezioni tenute a Stanford nel 2012 e ancor prima nel suo saggio The education of a Libertarian (apparso sul sito internet del giornale libertario Cato Unbound, il 13 aprile del 2009) ha ricordato come, nella sua prospettiva, la democrazia sia antitetica rispetto alla vera libertà.

Una posizione questa che riscuote largo consenso negli ambienti anarcolibertari che maggiormente hanno influenzato le coordinate fondanti del liberismo digitale (Ippolita, Etica hacker e anarco-capitalismo, Milano, Milieu, 2019, F. Foer,, I nuovi poteri forti. Come Google, Apple Facebook e Amazon pensano per noi, Milano, Longanesi, 2018).

E cosa vada inteso per libertà, nella prospettiva concettuale OTT, lo si può evincere dalla assai scarsa propensione nutrita dagli OTT stessi nel considerare la concorrenza come un valore da assecondare.

Il monopolio è per gli OTT una autentica ragion pratica (basta scorrere anche velocemente le notazioni che lo stesso Thiel ha vergato nel suo agile volumetto Da zero a uno, Milano, ETAS, 2015 o le illuminanti considerazioni giuridiche di L. M. Khan, Amazon’s Antitrust Paradox, in The Yale Law Journal, 126 (3), 2017).

In questo senso, il rafforzamento delle politiche pro-concorrenziali dell’Unione Europea, unitamente a innovazione pubblica finalizzata alla realizzazione di proprie piattaforme, diventano passi essenziali, non più rinunciabili. Ma ovviamente non sufficienti.

2. Zoonosi politiche. Come ha ampiamente dimostrato M. Mazzucato (Lo Stato innovatore, Roma-Bari, Laterza, 2013), , lo Stato vanterebbe anche le risorse per poter ambire ad essere un eccellente innovatore se solo capisse quale strada seguire nei percorsi di definizione della innovazione stessa e di finanziamenti davvero mirati: spesso, al contrario, ci troviamo al cospetto di processi di cattura economica in forza dei quali il soggetto privato, pur tecnologicamente ed economicamente attrezzato nella gestione della innovazione, sfrutta e capitalizza al massimo progetti e fondi statali per poi sviluppare in maniera più cristallina, raffinata ed efficace le proprie strategie di innovazione.

Esaurito questo passaggio, il soggetto privato passa a collaborare con altri Stati in un circuito che rammenta i lineamenti dei fenomeni di zoonosi, tanto per rimanere in tema di  pandemie, fenomeni che vanno potenziandosi di ospite in ospite, sfruttando in maniera capillare e pervasiva l’ospite stesso.

Per capire quali coordinate seguire, in prospettiva di pubblici poteri, diventa essenziale razionalizzare i propri percorsi decisionali interni e modellare in maniera adattiva l’essenza stessa dei pubblici poteri.

E’ evidente che se i fondi pubblici venissero utilizzati, non solo ma almeno in parte, per governare razionalmente e consapevolmente un percorso di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni e dei processi, decisionali e amministrativi, digitali, probabilmente il rapporto con le piattaforme digitali sarebbe meno distonico, meno asimmetrico e meno sbilanciato.

Per far questo, diventa essenziale ripensare la articolazione stessa del modo di gestire le pubbliche amministrazioni, a partire dal personale, dalla sua selezione, dalla sua formazione, dalla verifica delle sue attitudini.

L’idea che un concorso pubblico continui a selezionare in maniera ossificata, ricorrendo agli stessi schematismi attingenti a un formalismo burocratico che conosce solo poche differenze a seconda del posto messo a concorso o della pubblica amministrazione che indice il concorso, urta in maniera frontale con la idea di poter fronteggiare le strategie, i mezzi e la potenza delle piattaforme digitali, più adattive, fluide e meno cristallizzate nel loro incedere essendo ‘libere’ dall’appesantimento importato da sistemi garantistici e da sovrastrutture come principio di legalità, riserva di legge, vincoli costituzionali legati alle libertà e ai diritti fondamentali, nonché dai passaggi tipici di una democrazia rappresentativa.

Questo gap che non può certo essere recuperato mandando al macero nel nome di concorrenzialità e innovazione il prisma garantistico del costituzionalismo, può essere recuperato, almeno parzialmente, da un processo di alta specializzazione delle amministrazioni pubbliche, tanto nel senso del personale quanto della stessa organizzazione e dalla ridefinizione di una latitudine strutturale del governo del digitale, ad esempio istituzionalizzando una integrazione tra dipartimenti di AGCOM e del Garante per la protezione dei dati personali funzionale al contrasto a derive di compressione di diritti costituzionali da parte dei poteri privati., penso al delicatissimo problema dei dati, mediante i poteri tipici della regolazione.

E a proposito della compressione dei diritti, citavo prima la zoonosi, quel fattore di trasmissione di un virus da animale ad altro animale o ad essere umano, mediante un salto adattivo che modifica il codice comunicativo e la struttura stessa del virus per adattarlo al nuovo ospite, colonizzandolo.

Di recente, Eric Sadin ha coniato il molto opportuno neologismo ‘silicolonizzazione’ (E. Sadin, La silicolonizzazione del mondo.L’irresistibile espansione del liberismo digitale, Torino, Einaudi, 2018), indicando con esso quell’approccio egemonico di poteri privati che in maniera suadente, larvata, liminale, finiscono per incistarsi all’interno dello spazio politico e pubblico di un determinato Stato, iniziando ad orientarne le coordinate concettuali, produttive e alla fine anche politiche.

Molto spesso questi processi avvengono in modo talmente lento che i loro riflessi sono quasi impercettibili, non manifesti, salvo poi esplodere di colpo nelle risultanti più critiche.

La crisi pandemica ha determinato, per equivalente, una crisi evidente del sistema dell’utilizzo delle fonti e dei centri di assunzione decisionale che tra loro cospiranti determinano la nostra forma di governo.

Abbiamo così avuto, oltre al profluvio di DPCM e ad una comunicazione istituzionale che ha reso Facebook, fattualmente, servizio pubblico, una iper-centralizzazione del momento decisionale con una tendenziale esautorazione del Parlamento, la costruzione di un reticolare, complessissimo sistema-network di commissioni, task-force, consulenti, comitati, di cui poco conosciamo (non conosciamo i criteri di selezione, non conosciamo i curricula di tutti i membri, in alcuni casi nemmeno i nomi a dire il vero, non conosciamo i poteri effettivi e il ruolo di questi corpi tecnici né conosciamo i rapporti funzionali con le varie strutture ministeriali da cui formalmente dipendono).

In questo caso, mi sembra sia stato il potere politico a farsi attrarre e metabolizzare dal campo tecnico, senza nemmeno l’intervento diretto delle sirene del digitale.

E’ bastata, in certa misura, la forza attrattiva della logica tecnica, con le sue promesse di risoluzione e di snellezza decisionale, e lo Stato classico è slittato cedevolmente verso la forma-piattaforma.

Questione antica: chi scrive, come Gunther Anders, Arnold Gehlen e Martin Heidegger, e più di recente Natalino Irti e Emanuele Severino, non crede alla neutralità della tecnica.

La razionalità della tecnica è essa stessa parte del percorso di definizione di una coscienza latamente politica delle piattaforme digitali e delle loro comunità, esattamente come la modellazione di un eco-sistema digitale risente, per dirla alla Lessig, del codice strutturale, della architettura fondazionale dell’ambiente digitale che di suo non è mai neutro.

3. Una nuova questione costituzionale. La questione mi sembra abbracciare, visti gli interessi in gioco e la fisionomia dei poteri che si vanno stagliando all’orizzonte, il diritto pubblico nel suo complesso.

Questo scivolamento ha adombrato la evanescente fisionomia di una nuova forma di governo, una sorta di ‘parlamento’ tecnico federato in distinti network, chiamati ad assumere decisioni che poi rifluiranno verso la Presidenza del Consiglio (non verso il Governo, ma proprio verso il perimetro limitato della Presidenza del Consiglio), rafforzato a suo modo dal medium normativo prescelto per governare l’emergenza, quelle catene di DPCM che pur formalmente originanti da decreti-legge hanno sollevato più di qualche fondato dubbio nell’ampio dibattito costituzionalistico intervenuto.

In questo senso, prioritario e irrinunciabile diventa il governo democratizzante della tecnica che deve essere ricondotta nel circuito rappresentativo; il laboratorio deve tornare ad essere laboratorio e cessare di essere il nuovo Parlamento.

Ed anche questo è un prodotto della arrendevolezza del politico davanti alla logica tecnica. Quando tra gli anni ottanta e gli anni novanta, autori come Bruno Latour, Michel Callon, Madeleine Akrich, riconducibili alla nuova scuola sociologica francese della scienza, hanno coniato la actor/network theory (ANT), si è ingenerato un potente incentivo epistemologico alla democratizzazione della complessità tecnica la quale se lasciata ingovernata può rendersi un tremendo potere tirannico: questa teoria inferisce la necessità di regolare complessivamente l’eco-sistema in cui l’agente umano si trova ad operare e l’agente umano stesso, con le sue azioni, le sue relazioni, i suoi rapporti. Oggetto della regolazione non sono più in maniera distinta l’essere umano e l’ambiente ma la sintesi relazionale tra i due aspetti.

Non casualmente questa teoria è stata utile strumento per la ricostruzione concettuale di ambienti complessi punteggiati di alta tecnologia come le Smart City, il diritto ambientale, gli agenti software, le intelligenze artificiali.

Di questa teoria a me sembra possa essere utilizzato, in chiave giuridica, un paradigma in particolare funzionale alla democratizzazione delle piattaforme digitali: quello dei forum ibridi, che dovranno operare a tutti gli effetti come Parlamenti della complessità, al fine di determinare mediante contestazioni, consultazioni, coinvolgimento della società civile quei bilanciamenti dinamici utili per scongiurare la sedimentazione di uno Stato-network privato e al tempo stesso per democratizzare i corpi tecnici sussunti nella dinamica governativa.

Quale sede migliore della UE, per questo? D’altronde l’art. 11 del TUE riconosce l’esigenza di una interazione dialettica e aperta con i corpi della società civile, mentre l’art. 15 TFUE riconosce il ruolo della società civile nel buongoverno della Unione.

L’istituzione di forum ibridi compartecipati da poteri pubblici, poteri privati, esperti, accademici e società civile, secondo schemi ben noti al digitale ma andando oltre l’apporto meramente consultivo, potrebbe far emergere nei flussi di reciproche contestazioni e informazioni quegli aspetti che innervandosi in un generale canone di trasparenza e secondo spinte reputazionali possono portare a risultati già utilmente sperimentati (come ad esempio nei forum ambientali transazionali, nel generale quadro della modellazione del principio di precauzione).

E se questo modello può essere adottato tanto a livello singolo-nazionale quanto transnazionale, mi sembra essenziale la via europea.

Estremamente condivisibili mi paiono in questo senso le notazioni di O. Pollicino e G. Pitruzzella secondo cui “se capitalismo digitale deve essere, la persona umana e la sua dignità non possono essere un elemento accessorio di questo processo, che necessita dell’affiancamento di un secondo processo, uguale e contrario legato all’emersione di una nuova forma di umanesimo digitale”.

Mai come in questo momento è necessaria, oltre al cuore pulsante di un umanesimo digitale, il ritorno alla piena conoscibilità dei provvedimenti e alla trasparenza dei momenti decisionali, un organico pluralismo delle opzioni in gioco, una dialettica parlamentare e sociale che pure vibrante possa contribuire a delineare le prospettive di insieme, al fine di razionalizzare cosa sta accadendo e scongiurare pericolose torsioni dell’ordinamento sotto le suadenti, ma devastanti, spinte dei poteri privati.

Cultore della materia in Istituzioni di diritto pubblico e in Diritto costituzionale – Università degli Studi Roma Tre

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