La crisi coronavirus come problema di geografia amministrativa

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di Enrico Carloni

Sin dall’emergere della crisi “Covid-19” il sistema istituzionale italiano ha tentato, con esiti non sempre pienamente soddisfacenti anche tenendo conto delle difficoltà del momento, di governare la pandemia operando su una scala di tipo regionale.

1. L’approccio nazionale si è sempre confrontato con un assetto di competenze (anzitutto in campo sanitario), ma prima ancora di organizzazioni e di protagonismi, di taglia regionale: se escludiamo la prima fase emergenziale in cui è stato operato un approccio per “zone rosse” di dimensione sub-regionale (possiamo dire, “di area vasta”) o comunale, a partire dal decreto che sancisce la “maturità” dell’emergenza la questioni viene posta essenzialmente in termini di un intervento che muove da “mattoni” di dimensione regionale. In questo senso, per quanto si discuta molto dell’adeguatezza dei maggiori enti territoriali e si avvertano quindi sollecitazioni nel senso di un ridimensionamento del ruolo delle regioni nel campo sanitario, o si rivendichi da altra angolazione il rafforzamento dei meccanismi di “superiorità” statale, si può dire che la crisi che stiamo vivendo ha portato con sé uno straordinario rafforzamento delle regioni: un rafforzamento che è avvenuto anzitutto a scapito degli altri enti territoriali, sostanzialmente assenti nel dibattito pubblico anche se prendiamo a riferimento potenziali protagonisti quali i sindaci (e gli enti) metropolitani. Sono i “governatori” a disporre di poteri di ordinanza che li pongono in condizione di contribuire alla costruzione del diritto dell’emergenza che regola questo periodo, è la conferenza Stato-regioni il luogo privilegiato (e sostanzialmente unico) di mediazione delle decisioni assunte altrimenti “in solitaria” dal Presidente del Consiglio. Senza voler operare un giudizio al riguardo, mi pare si possa prendere le mosse da questa constatazione: le regioni sono al centro della crisi-Covid-19 e della sua gestione, seconde sole al Governo ed al Presidente del Consiglio e comunque insieme a questi.

2. Le regioni hanno contribuito a determinare il contesto in cui la pandemia ha potuto variamente propagarsi, definendo i caratteri dei sistemi sanitari come nel caso molto commentato della destrutturazione della rete territoriale di assistenza nel sistema “ospedalocentrico” della Lombardia, o come nel caso ben diverso del Veneto solo restando alle regioni in cui si sono manifestati i primi focolai conosciuti dell’epidemia. Le regioni hanno contribuito a gestire la prima fase emergenziale giunta a teorico compimento con l’avvio della “fase 2”, sia in termini di adeguamento organizzativo e risposta dei servizi sanitari (auspicabilmente, ma non sempre: le scelte di tracciamento massivo, la predisposizione di centri-covid, la definizione di protocolli di risposta negli ospedali, la fornitura di sistemi di protezione individuale), sia in termini di governo del lockdown. Da questo punto di vista, le ordinanze dei presidenti delle regioni si sono inserite in un “disegno” non privo di criticità, operando a volte in termini più restrittivi a volte in termini di alleggerimento: ne è risultato un quadro a volte caotico, che solo progressivamente è risultato leggibile pur continuando a presentare soluzioni controverse. Ne sono state esemplificative, in modo marcato, le ordinanze regionali che hanno disposto limitazioni alla circolazioni di merci e persino di dispositivi sanitari, quelle che hanno previsto condizioni restrittive all’ingresso di persone in base alla provenienza, quelle che hanno limitato ulteriormente le poche libertà di movimento ammesse dai decreti statali e, in senso opposto, quelle che hanno permesso l’esercizio di attività economiche altrimenti vietate, hanno introdotto nuove “giustificazioni” per gli spostamenti, fino alla più recente ordinanza della regione Calabria recentemente contestata dal Governo che ha previsto forme altrimenti vietate di apertura di esercizi commerciali. Una differenziazione emergenziale, in sintesi, tanto in aumento quanto in riduzione, che non è venuta meno neppure nell’avvio della “fase 2”.

3. D’altra parte, è stato il Governo nazionale a costruire un sistema “regionalizzato” di gestione dell’emergenza: è su base regionale che i dati sono raccolti, aggregati e comunicati; i provvedimenti hanno assunto le regioni come ambito “elementare” di ragionamento; i poteri emergenziali sono stati attribuiti o confermati alle regioni; le regioni sono state individuate come limiti “naturali” per l’esercizio da parte dei cittadini di una serie di diritti e questo soprattutto nella c.d. “fase 2”, nella quale sfuma l’attenzione al contenimento dei movimenti su base comunale e l’attenzione si focalizza di converso ai quelli su base regionale. Tutto questo approccio dimostra la “forza” della regione, non solo in quanto istituzione, ma già prima come “unità di misura”, criterio naturale entro il quale incanalare il ragionamento che guida le politiche di governo dell’emergenza, fulcro delle riflessioni che pure dovrebbero articolarsi più ampiamente seguendo il principio di sussidiarietà alla ricerca del livello di esercizio più adeguato. La regione viene assunta a “metro” anche in termini semplicemente concettuali, ed è sempre su base regionali che si muovono critiche e plausi al Governo nel discettare sulla differenziazione possibile ma non attuata: l’Umbria non è la Lombardia, per sintetizzare il discorso. L’utilizzo di questo metro è stato tanto ricorrente quanto naturale, da parte del Governo e di tutto il sistema istituzionale, nel dibattito politico come in quello pubblico: non è dunque un limite, se di limite si può trattare, dell’esecutivo, ma di tutta la cultura politica italiana che ha evidentemente rimosso la possibilità di articolare il discorso anche sulla base di una griglia geografica diversa, forse più adeguata a gestire la prima emergenza e forse meglio in grado di fornire risposte corrette nella seconda.

4. Che la crisi-covid richiedesse di essere gestita su una scala più piccola, più idonea ad assicurare risposte territoriali di prossimità, lo si era intravisto nella primissima fase della crisi, con la predisposizione di “zone rosse” di taglia provinciale o sub-provinciale. È su base provinciale che si sviluppano i “focolai” e la tendenza a sviluppare una risposta regionale finisce per essere eccessiva (se orientata alla chiusura in tutta la regione), o inadeguata (se non abbastanza restrittiva nell’area vasta di riferimento). La stessa vicenda esemplare, lombarda, mostra come la dimensione regionale sia inadeguata, non solo per difetto rispetto ad una emergenza che è nazionale, ma anche per eccesso rispetto a problemi che richiedono se non strategie quantomeno risposte di maggiore prossimità: un regionalismo-centralistico, quello della Lombardia, che mostra tutti i limiti di un modello territoriale che tende a concentrarsi su una dimensione de-territorializzata, di nuovo centro in periferia, slegato da un tessuto amministrativo diffuso sulle aree vaste che compongono il territorio regionale. Le politiche territoriali, anche di tipo sanitario, si articolano in termini organizzativi naturalmente, e storicamente, su una taglia di area vasta: non pare un caso che le risposte più efficienti (in termini di dati assoluti e percentuali) alla crisi siano state date dalle regioni più piccole (Umbria, Molise, Basilicata), sostanzialmente grandi province (in termini dimensionali) piuttosto che regioni. Anche il confronto tra Valle d’Aosta e Piemonte, con la prima caratterizzata da un indice r0 in evidente miglioramento dopo una prima fase di criticità, sembra confermare l’utilità di un approccio di prossimità per il quale la circoscrizione comunale è troppo piccola ma quella regionale spesso eccessiva. Costringere il discorso su una scala regionale impedisce in sostanza politiche mirate, o le rende comunque più difficili, con l’effetto di imporre a tutto il territorio regionale un approccio ora troppo restrittivo ora troppo permissivo. I dati prodotti dall’Istat, che continua per un’inerzia di più lungo periodo a raccogliere e presentare i dati su base provinciale, consentono di cogliere la dimensione provinciale della crisi-covid, che pure si avverte a volte bene già leggendo le cronache: il bergamasco, il bresciano, il lodigiano, l’area di Pesaro e di Parma, la provincia di Rimini e di Padova… Esemplare nel mostrare l’utilità di una riflessione su base provinciale è la quasi-parallela esperienza francese, dove il dipartimento è individuato come “metro” di riferimento per le politiche di contenimento e, soprattutto, per quelle de-confinamento («déconfinement»). In Italia l’abolizione delle province, in parte naufragata sul versante istituzionale, sembra oramai penetrata nelle coscienze ad un livello tale che diviene difficile anche solo pensare ad una dimensione provinciale, quasi che l’abolizione non sia riuscita ad eliminare l’ente ma abbia eliminato il concetto.

5. La costruzione delle politiche su scala regionale finisce per indebolire anche un diverso criterio di articolazione che avrebbe trovato nei diversi enti di area vasta un ben diverso sviluppo. Il riferimento è alla dimensione urbana o “non urbana” del problema, e quindi la rilevanza delle città metropolitane o delle province non metropolitane come “perimetro” entro il quale sviluppare una risposta ed una politica di governo dei fenomeni (i trasporti, ad esempio) e della crisi. La qual cosa sarà tanto più decisiva nella fase 2: se la chiusura può permettersi di trattare in modo uguale situazioni diverse, questo non è più possibile nella fase di riapertura. Basti pensare, intuitivamente, al problema enorme che pongono i trasporti, “urbani” ed extraurbani, nelle città metropolitane rispetto a quanto avviene nelle province in cui il tessuto economico-sociale, o semplicemente l’edificato, è meno denso. Il ruolo ridotto che ne discende per gli enti istituzionalmente preposti al governo delle questioni metropolitane (le “città metropolitane”) risente di questa scelta, ma forse si lega anche alla strutturale inadeguatezza delle città metropolitane quali enti di reale governo dei principali fenomeni metropolitani.  Di nuovo, anzitutto, per un problema di geografia amministrativa: come dimostra bene il caso di Milano, dato che tendenzialmente non vi è corrispondenza tra servizi metropolitani, conurbazioni, flussi e relazioni urbane, e circoscrizione “ex provinciale” in cui si articola la città metropolitana.

6. La crisi-covid-19, con la risposta emergenziale che definisce già dal livello statale confini regionali, porta con sé un inspessimento di barriere (tra territori) che sin qui hanno avuto una rilevanza minima, non troppo dissimile da quella che caratterizza altri confini tra circoscrizioni amministrative. La ragnatela dei limes amministrativi nella quale siamo immersi è frequentemente percepita ma risulta di norma poco significativa nella nostra vita quotidiana: di colpo alcuni di questi confini si irrobustiscono e creano una separazione, che interrompe il flusso dei rapporti sociali, le dinamiche economiche, le relazioni affettive. Così la crisi produce una distanza prima sconosciuta, e ci riporta un’immagine frammentata del Paese e con questo l’eco dimenticata di dogane, gabellieri e passatori. L’ambizione delle regioni al farsi piccoli-Stati, che a livello politico esalta i poteri dei governatori, si ritrova nell’idea statale di consentire una chiusura dei confini regionali allo “straniero”: per quanto un limite alla circolazione delle persone ed al loro spostamento tra territori sia giustificato dalla pandemia, meno ragionevole è questo ingabbiamento della libertà di movimento dentro i confini regionali. Questo anzitutto perché, come spiegava anni addietro con pagine illuminanti Lucio Gambi, specie in quelle scritte con Francesco Merloni, i confini regionali risentono dei limiti propri di gran parte dei confini amministrativi, e cioè non corrispondono alle effettive dinamiche economiche e sociali che si sviluppano spesso non grazie, ma nonostante, la mappa amministrativa del Paese. Lo vediamo bene ora, con cesure più profonde che vengono tracciate ad interrompere (o mantenere interrotte, mentre altrove ripartono) relazioni sociali, prima ancora che economiche, in virtù di confini regionali che dividono in due conurbazioni in continuità, spezzano vallate, allontanano città sin qui in stretta comunicazione.

7. Nell’emergenza è all’opera il silenzioso potere delle mappe, modulate su una scala “necessariamente regionale”, che incide sulla nostra capacità di interpretare i fenomeni e sviluppare strategie di risposta ai problemi che abbiamo di fronte. La crisi impone dunque, riprendendo l’espressione di Carl Ritter, una “dittatura cartografica”: col che da Lesina ci si potrà spostare a Santa Maria di Leuca, a quasi quattrocento chilometri di distanza, ma non percorrere i venti chilometri che separano da Termoli, o da Mantova diventerà irraggiungibile Verona ma non Chiasso. O, venendo a riferimenti per me più vicini, da Monterchi si potrà raggiungere la Versilia per fare jogging ma non andare a trovare un parente a Citerna, che la domina ad un chilometro di distanza in linea d’aria. Tacendo del caso-limite di Cà Raffaello, frazione del comune toscano di Badia Tedalda, “isola” amministrativa immersa nella regione Emilia Romagna. Viene da alcuni comuni di confine l’idea di impostare la riflessione su una logica diversa, di tipo provinciale, consentendo spostamenti tra province confinanti, a dimostrare la possibilità (e invero la razionalità) di un diverso approccio nel governo dell’emergenza. Un diverso approccio che passa, appunto, per la scelta di ragionare sulla base di una diversa geografia amministrativa, rispetto a quella a-una-dimensione (regionale) che ci sta accompagnando, e stringendo, in questa crisi.

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3 commenti su “La crisi coronavirus come problema di geografia amministrativa”

  1. Una riflessione che condivido, e che andrebbe assolutamente sviluppata a patto che l’accoglimento dell’approccio “di prossimità” e di “area vasta” non porti ad una ulteriore frantumazione su base provinciale del governo dell’emergenza, diventando alibi per nuovi protagonismi politici di cui, in questo momento, non abbiamo bisogno. In fondo, le Regioni più accorte hanno già differenziato le proprie scelte su base provinciale (vedi le soluzioni per Piacenza e Rimini, in Emilia-Romagna), coinvolgendo i rispettivi livelli istituzionali.

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  2. Enrico, condivido il tuo intervento. Con l’introduzione dell’algoritmo che consentirà di graduare le maglie del lock down a seconda dell’indice RO e RT sarà fondamentale la gestione dei focolai a livello locale. L’art. 3 del d.l. 19/2020 sarà fondamentale visto che attribuisce a Presidenti di regione e Sindaci il potere di adottare misure più restrittive in caso di aggravamento su base locale. Sotto questo profilo sarebbe forse meglio specificare tale tipologia di potere sulla base di una differenziazione per interesse territoriale. Probabilmente sarai stato ispirato da quella foto che ha girato nella nostra regione dei due fidanzati al confine tra Marche e l’Umbria che hanno le mani sulla linea di confine senza potersi toccare.
    Ora quell’immagine sintetizza bene il tuo pensiero. Te l’ho postata su FB.

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  3. L’analisi è interessante ma non ne condivido le conclusioni: le Regioni più piccole (Molise, Basilicata, Umbria, Valle d’Aosta) hanno affrontato meglio la crisi perchè vi è stata una minore diffusione del virus e sono (nella quasi totalità) quelle più meno connesse dal punto di vista dei collegamenti infrastrutturali e, di conseguenza, meno interessate dalla massiva circolazione di persone e di merci. E poi dobbiamo metterci d’accordo con noi stessi: non abbiamo sempre sostenuto che la dimensione di quelle (ed altre) Regioni è troppo piccola e la necessità di una loro aggregazione? A ciò aggiungasi che il livello provinciale è stato azzoppato dalla legge Delrio e non costituisce più un decisore politico. Rebus sic stantibus, quali alternative rispetto alla dimensione regionale per un’adeguata gestione e diversificazione delle misure di contenimento?

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