Far votare o non far votare? Quando la somma è più tossica degli addendi

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di Gabriele Maestri

«L’uomo viene ucciso più dal cibo che dalla spada, ma le istituzioni sono uccise, più che dalle istituzioni, dal ridicolo». Il 29 aprile 2006 pronunciò queste parole, nell’aula di Palazzo Madama, il senatore a vita Francesco Cossiga: il giorno prima in quell’emiciclo si era consumato uno spettacolo surreale e sgradevole nella prima seduta della XV Legislatura. Quella in cui l’Unione acciuffò il premio di maggioranza a Montecitorio oltre la “zona Cesarini”, ma non aveva una maggioranza a Palazzo Madama senza affidarsi ai senatori eletti all’estero: la prova della criticità della situazione si ebbe già al momento di eleggere il Presidente dell’assemblea.

Perché ricordare ora quest’episodio rimasto nella memoria dei cronisti politici, degli storici delle istituzioni e dei #drogatidipolitica? A chi scrive, il monito di Cossiga è venuto subito alla mente mentre si consumava, ieri in tarda serata, una mezz’ora altrettanto surreale e sgradevole, nella stessa aula di Palazzo Madama, con un pubblico anche più vasto (tra spettatori in tv e su internet) rispetto a quello immaginabile nel 2006.

È noto cosa accadde allora: per la presidenza del Senato il centrosinistra aveva indicato Franco Marini; il centrodestra aveva proposto il senatore a vita Giulio Andreotti, un nome che avrebbe potuto far vacillare qualche cattolico dell’altro schieramento. La seduta del 28 aprile, iniziata con una bagarre in tribuna (fu espulso Marco Pannella che protestava per l’esclusione della lista della Rosa nel Pugno dal riparto dei seggi), finì col caos in aula. Dopo il primo voto Franco Marini ebbe 157 voti, Andreotti 140, Roberto Calderoli 15.

L’unico voto “disperso” era andato a «Giulio Marini»: non era «una sintesi» come disse il presidente provvisorio Oscar Luigi Scalfaro, ma un senatore di Forza Italia alla prima legislatura, già presidente della provincia di Viterbo. Chi nel centrosinistra sapeva della sua esistenza aveva consigliato di votare per «Franco Marini» o per «Marini Franco», se proprio ci si voleva distinguere tra Ds, Margherita e altri (nel centrodestra avevano fatto lo stesso, con «Andreotti», «Giulio Andreotti», «Andreotti sen. Giulio» etc.): votare solo «Marini» avrebbe reso nulla la scheda. Una con «Marini» fu trovata, oltre a quelle rivolte a «Franco Marino», «Franco Mariti» e all’imperdibile «Marini 9.4.33»: voto chiaramente riconoscibile, «un pizzino» per certuni.

Nessun votato ottenne la maggioranza assoluta di 162 voti, così nel pomeriggio – dopo una nuova polemica per la scelta di Scalfaro di prendere parte al voto – si tenne il secondo scrutinio. Tra le schede, tuttavia, ne spuntarono tre (due per il resoconto) con l’indicazione «Francesco Marini», non corrispondente ad alcun senatore. I segretari non si accordarono sull’attribuzione e Scalfaro ritenne – in mancanza di un verbale condiviso sull’esito del voto – di dover ripetere la votazione a partire dalle 22. Rispuntò di nuovo un «Marini» e almeno un «Francesco Marini», che Scalfaro sbagliò per errore «Franco»: in quel caso i segretari provvisori decisero a maggioranza, tra le proteste del centrodestra, di attribuire la scheda del «Francesco tiratore» (copyright di Andreotti) a Franco Marini, che però anche così si fermò a 161 voti, uno in meno del necessario.

Si discusse duramente sull’esito del voto fino alle 2 e 10; la nuova seduta iniziò poco più di sei ore dopo. Parlò per primo proprio Francesco Cossiga: lui – senza i panni del Picconatore, ma con quelli del medicine man della politica italiana, spesso richiamati da Filippo Ceccarelli – invitò al decoro istituzionale. «Coloro i quali contestano alla radice il risultato dell’elezione – disse – non possono impedire a coloro che formalmente sono la maggioranza di dare le istituzioni richieste allo Stato, perché così compiono uno staticidio». Per Cossiga non costituire le Presidenze delle Camere non permetteva al Paese di avere un governo, che invece serviva subito, per la situazione interna, internazionale, economica, politica e militare. Era tempo di chiarirsi in fretta, smettendo di giocare con nomi, cognomi e titoli perché, appunto, «le istituzioni sono uccise, più che dalle istituzioni, dal ridicolo». Sulla fretta l’appello non venne ascoltato (ci furono ben quattordici interventi prima del terzo voto), ma alla fine Franco Marini poté insediarsi allo scranno più alto di Palazzo Madama.

Tornando a ieri sera, ci è voluta mezz’ora – dalle 22 e 15 alle 22 e 45 – per risolvere la grana dei due senatori che avevano chiesto in extremis di poter votare sulla questione di fiducia posta dal Governo sulla risoluzione presentata da quattro senatori di maggioranza: una grana così spinosa, animosa e rumorosa da richiedere la visione dei filmati di seduta in separata sede per poter decidere. All’inizio pareva che il problema della mancata votazione riguardasse solo Lello Ciampolillo, eletto con il M5S e passato al Gruppo misto il 5 febbraio 2020: fino a ieri quasi sconosciuto ai più (senza sua colpa), ora è ben più noto di prima. È poi emerso che era in ballo pure la posizione di Riccardo Nencini: eletto nel collegio uninominale di Arezzo quando era segretario del Partito socialista italiano, a settembre del 2019 era riuscito a costituire con coloro che avevano aderito a Italia viva un gruppo a Palazzo Madama solo (in base al testo vigente del regolamento del Senato) grazie alla sua elezione e alla partecipazione del Psi al voto del 2018 nella lista Insieme. Per quel precedente, negli ultimi giorni i media si erano interessati a Nencini: lui, indicato come “costruttore”, aveva tenuto un profilo basso («non è tempo di elezioni o di crisi al buio, serve una maggioranza solida e esecutivo autorevole»).

La mancata risposta di Ciampolillo e Nencini alle due “chiame” per la fiducia aveva fatto legittimamente credere che i senatori avessero preferito chiamarsi fuori da quel voto, differenziando la loro posizione dai «Sì», dai «No» e dalle astensioni di Italia viva. La successiva richiesta di votare mentre la Presidente del Senato si accingeva a chiudere la votazione ha mostrato che non era così. Quei voti erano peraltro ininfluenti: chi in aula aveva tenuto i conti sapeva che i «Sì» fino ad allora erano 154, i «No» 140. Se si fosse trattato di due voti negativi, la fiducia sarebbe stata comunque accordata pur con un margine più ristretto; con due voti positivi, peraltro, la compagine dei sostenitori del governo si sarebbe fermata a 156 (com’è stato), lontana dalla maggioranza assoluta di 161 (non necessaria per la fiducia ma essenziale per non condannare il governo a navigare in continua burrasca). Tale quota, anzi, sarebbe stata pari alla somma dei 140 contrari e dei 16 astenuti: «in caso di parità di voti, la proposta si intende non approvata» (art. 107, comma 1 Reg. Sen.).

I due senatori hanno però ribadito la loro richiesta; in aula c’è stato chi li ha sostenuti, rumoreggiando e protestando sotto il banco della Presidenza, e chi ha fatto altrettanto per criticarli e invocare la chiusura della votazione. La Presidente, nel giro di pochi minuti, è passata dall’invitare (il senatore Ciampolillo) a esprimere il voto al tornare sui suoi passi («Per la verità avevo già chiuso la votazione…»), per poi tentare di smorzare la questione («Non credo che sia una tragedia») e, infine, permanendo le incertezze tra i segretari, decidere di far visionare i filmati di seduta ai questori: «Al riguardo di questo voto, io blocco e guardo il video!».

Tra rumori tipici di uno stadio, la Sala Pannini di Palazzo Madama si è trasformata in una sorta di VAR Room, come quando, il 18 giugno 2020, la Presidente chiese ai questori di vedere i «filmati ufficiali delle telecamere del Senato» e di sentire gli assistenti parlamentari: bisognava capire se, tra il voto per alzata di mano sul non passaggio agli articoli per la conversione del “decreto elezioni” e la controprova elettronica (che avevano dato esiti diversi) fossero entrate nelle postazioni dislocate in tribuna persone che non avevano votato la prima volta. Ieri si è così stabilito – mezz’ora dopo che il problema era emerso – che Ciampolillo era «arrivato» alle 22 e 14, meno di un minuto prima che si dichiarasse chiusa la votazione e che lui e Nencini avevano alzato la mano per tempo: ammessi a votare, il loro «Sì» è stato quasi del tutto coperto dal rumore di fondo.

Erano inevitabili le ironie, più che su Nencini, sull’improvvisamente noto Ciampolillo: la sua pagina Facebook, ferma dal 17 novembre, si è riempita di commenti duri e sarcastici, anche nel chiedersi dove fosse finito durante le “chiame” (tra l’altro qui non si doveva passare sotto la Presidenza per l’appello nominale: il voto si esprimeva dal proprio posto, dichiarandolo ad alta voce e premendo il pulsante). La storia parlamentare conosce vari episodi legati ad assenze “problematiche”. Il 27 settembre 1980, per esempio, alla Camera Maria Pia Garavaglia non arrivò in tempo a inserire la chiave per sbloccare la pulsantiera e votare in segreto a favore della conversione del decreto-legge n. 503/1980 in materia tributaria: il governo Cossiga finì sotto di un voto e si dimise, ma mancarono pure i «Sì» di Giuseppe Zamberletti (tornato in fretta da una missione a Shanghai con il capo dello Stato, ma non era bastato) e di Renato Dell’Andro che, si disse, non era tornato in tempo dalla toilette. Ricordava invece che fosse Garavaglia di ritorno dal bagno (e Dell’Andro uscito per telefonare) Gerardo Bianco quando, il 27 settembre 2001 – lo stesso giorno! – il centrodestra fu battuto per due volte su emendamenti in tema di rogatorie, respinti a scrutinio segreto: il deputato forzista Lucio Colletti, scrisse Sebastiano Messina sulla Repubblica, non avrebbe votato per «improrogabili necessità fisiologiche».

Non è però il voto in “zona UltraCesarini” (tanto per proseguire con il clima calcistico) a lasciare perplessi, ma l’insieme di tutto ciò che è avvenuto ieri. Perché è vero, come ha detto la Presidente del Senato per giustificare il ricorso alla “prova filmata”, che quello di ieri era «un voto importante», con molti occhi puntati a guardarlo e la necessità di non lasciare dubbi sul suo svolgimento; è anche vero, però, che in concreto quei due voti non erano determinanti per l’esito della votazione (si è spiegato perché e non è questa la sede per esprimersi sull’opportunità che il governo continui a operare o meno in queste condizioni). I due senatori avrebbero potuto certamente chiedere di mettere a verbale il voto che avrebbero voluto esprimere senza riuscirci: capita per esempio quando il sistema di voto elettronico non funziona o si è pigiato il tasto sbagliato.

Quei voti non sarebbero stati conteggiati, ma sarebbero stati comunque registrati: i due senatori, esprimendo la loro scelta in sede ufficiale, avrebbero compiuto un gesto elegante (assumendosi la responsabilità delle loro scelte e anche del ritardo in un momento tanto delicato) e il Senato non sarebbe rimasto appeso alla “prova tv” per mezz’ora, tra le proteste. La stessa Presidente, in una situazione di sicura tensione, è parsa piuttosto in difficoltà e malferma nelle sue decisioni, prima tendenti ad ammettere al voto Ciampolillo, poi a escluderlo («Se una persona è là e non si evidenzia…») con più risolutezza, poi ancora a decidere il ricorso ai filmati e, infine, a notare in modo velato che «siccome [Ciampolillo] ha alzato la mano, io non ho potuto vederlo e nessuno me l’ha identificato se non dopo che avevo già dichiarato la chiusura» (non è sfuggito, a quelle parole, un gesto con la mano – contenuto e forse involontario– rivolto alla Segretaria generale).

Di certo l’aula di Palazzo Madama ha visto scene ben peggiori: nessuno ha dimenticato, il giorno della caduta del secondo governo Prodi, l’«orrido pasto» a base di mortadella del senatore Nino Strano e lo spumante stappato da lui e dal collega Domenico Gramazio (del resto la schiuma della bottiglia squassata da Strano sporcò dappertutto e i suoi segni sono ancora visibili su una delle poltrone destinate al governo). Quella legislatura, iniziata con i «Franceschi tiratori» e i relativi clamori, finì di fatto il 24 gennaio 2008 con l’indignato «Non stiamo mica all’osteria!» di Franco Marini verso gli stappatori. Nulla di paragonabile a ciò che è accaduto ieri, ma il monito di Cossiga del 2006 vale ancora oggi. Qui non c’era un’istituzione da mettere in funzione come allora, ma era importante mantenere di quello stesso Senato la credibilità e il decoro.

Può essere che chi ha insistito per votare l’abbia fatto proprio per dare importanza a quel voto, come si può riconoscere la buona fede nella scelta di ricorrere alle riprese di seduta per dissipare ogni dubbio. A volte però la somma è più nociva degli addendi: i ritardi nel rispondere alla “chiama” (a prescindere dalle ragioni), l’insistenza nel voler votare, le proteste, il baccano a favore e contro, l’incertezza nella decisione, il paragone calcistico legato alla prova filmata (l’hanno fatto i giornalisti, è vero, ma era inevitabile: troppo spesso le aule parlamentari sembrano popolate da tifoserie più che da gruppi politici) e la mezz’ora dedicata a sciogliere una questione che non avrebbe comunque cambiato l’esito della votazione hanno creato uno spettacolo (come si diceva) surreale e sgradevole, nonché piuttosto ridicolo. E sarebbe bastato poco per evitarlo.

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2 commenti su “Far votare o non far votare? Quando la somma è più tossica degli addendi”

  1. I due senatori avrebbero potuto certamente chiedere di mettere a verbale il voto che avrebbero voluto esprimere senza riuscirci: capita per esempio quando il sistema di voto elettronico non funziona o si è pigiato il tasto sbagliato.
    Si ricorda un precedente.
    Dagli Atti dell’Assemblea Costituente, Seduta pomeridiana di lunedì 22 dicembre 1947, pag. 3601
    Dopo la votazione a scrutinio segreto, per appello nominale, sulla Costituzione della Repubblica e prima dell’approvazione del processo verbale della seduta:
    ZAGARI. Chiedo di parlare
    PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
    ZAGARI. Poiché, per ragioni indipendenti dalla mia volontà, non ho potuto partecipare alla votazione finale della Costituzione, dichiaro che, se fossi stato presente, avrei votato a favore.
    (Il processo verbale è approvato – Vivissimi prolungati applausi)

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