Divario sociale ed eguaglianza

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di Giovanni Di Cosimo

 Eguaglianze. La Costituzione repubblicana distingue due significati del principio di eguaglianza. Il primo comma dell’art. 3 enuncia la regola dell’eguaglianza formale, secondo cui situazioni eguali vanno trattate in modo eguale, mentre situazioni diverse devono essere disciplinate in modo diverso. La disposizione vieta espressamente le distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Questi divieti di discriminazione non vanno intesi in senso assoluto, come impossibilità per il legislatore di introdurre qualsiasi differenziazione, perché altrimenti non sarebbero possibili, per esempio, misure a favore dell’imprenditoria femminile. Il problema è piuttosto la ragionevolezza delle distinzioni, e dunque, per stare all’esempio, è ragionevole sostenere le imprenditrici in nome della parità di genere.

Misure promozionali di questo tipo sono coerenti con l’eguaglianza sostanziale di cui parla il secondo comma dell’art. 3. La disposizione assegna alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Qui la Costituzione enuncia un programma impegnativo e di vasta portata per eliminare le svariate condizioni di svantaggio sociale ed economico che penalizzano di fatto le persone. La realizzazione del programma passa anche per il collegamento con il principio personalista dell’art. 2 che riconosce i diritti fondamentali. Particolare valore assume il legame fra l’eguaglianza e i diritti sociali: il diritto alla salute, quello all’istruzione, i diritti dei lavoratori.

Diseguaglianze. Gli studi economici dimostrano come le società occidentali siano caratterizzate da crescenti diseguaglianze (fra gli altri, Stiglitz, Piketty, Atkinson, Pianta). Relativamente all’Italia se ne trae conferma da un recente rapporto secondo cui negli ultimi vent’anni «le quote di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco dei nostri connazionali e dalla metà più povera della popolazione italiana hanno mostrato un andamento divergente. La quota di ricchezza detenuta dal top-10% è cresciuta del 7,6% nel periodo 2000-2019Q2, mentre la quota della metà più povera degli italiani è lentamente e costantemente scesa» (Oxfam, Disuguitialia, dati sulla diseguaglianza allegati al rapporto Avere cura di noi, gennaio 2020).

Il documento contiene una sezione sulle «disuguaglianze nel passaggio generazionale» dove si osserva che «mediamente, i giovani entrati nel mercato del lavoro negli ultimi dieci anni percepiscono un reddito più esiguo se paragonato ai livelli retributivi dei loro genitori all’epoca del loro ingresso nel mercato del lavoro». In questi giorni il tema della diseguaglianza a danno dei giovani è al centro del discorso, che ha avuto una vasta eco, dell’ex presidente della Bce: «Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza» (M. Draghi, intervento al Meeting per l’amicizia fra i popoli, Rimini 18 agosto 2020).

 E dunque, malgrado gli oltre settant’anni trascorsi dall’entrata in vigore della Costituzione, anche la realtà italiana è tuttora segnata da un accentuato divario sociale che rende sempre attuale il programma del secondo comma dell’art. 3 del testo costituzionale, ossia la rimozione degli ostacoli economici e sociali che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.

La realizzazione del programma è oggi ancora più urgente a causa di due dati. Da un lato, la grande crisi nata in campo finanziario nel 2008, e poi estesasi all’intera economia, i cui gravi effetti sociali ancora perdurano; dall’altro, la pandemia da coronavirus che «si è innestata su una situazione sociale caratterizzata da forti disuguaglianze, più ampie di quelle esistenti al momento della crisi del 2008-2009», e che pure provoca pesanti conseguenze sociali (Istat, Rapporto annuale 2020. La situazione del Paese, p. 135).

Meno diseguaglianza. Seguendo la rotta tracciata dal secondo comma dell’art. 3, il Parlamento ha introdotto sia misure contingenti, come quelle adottate in questi ultimi mesi per sostenere la condizioni di lavoratori e famiglie a seguito dell’emergenza sanitaria (per esempio, il decreto cosiddetto ‘cura Italia’ introduce un bonus di 600 euro a beneficio in particolare di professionisti e lavoratori autonomi), che misure strutturali nel tentativo di rimuovere le condizioni di disagio sociale (un esempio recente di questo secondo tipo di intervento, è offerto dal reddito di cittadinanza che costituisce uno strumento stabile per sostenere le persone in difficoltà economica).

Tuttavia i risultati non sempre sono stati soddisfacenti. Nell’insieme le misure adottate, consistenti per lo più in mere erogazioni monetarie, mancano di organicità; si fatica a distinguere un disegno coerente, che invece sarebbe necessario per alzare il livello di efficacia degli interventi messi in campo. Non è stato ancora raggiunto l’obiettivo indicato dalla legge 328/2000 secondo cui «il sistema integrato di interventi e servizi sociali si realizza mediante politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori della vita sociale, integrando servizi alla persona e al nucleo familiare con eventuali misure economiche, e la definizione di percorsi attivi volti ad ottimizzare l’efficacia delle risorse, impedire sovrapposizioni di competenze e settorializzazione delle risposte».

In secondo luogo, capita che i requisiti per l’accesso alle misure di sostegno lascino fuori proprio le persone che più ne hanno bisogno. A questo riguardo la Corte dei conti ha osservato che una quota importante delle risorse stanziate per il contrasto alla povertà, con misure come gli assegni sociali e le integrazioni al minimo, finiscono a persone con indicatore della situazione economia equivalente, l’ISEE, più elevato (Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica, p. 166). La concessione ad alcuni parlamentari del citato bonus di 600 euro di cui si è avuta notizia quest’estate costituisce l’ennesimo, clamoroso, esempio di benefici finiti a chi non ne ha davvero bisogno.

In terzo luogo, non di rado le risorse stanziate risultano insufficienti. A questo riguardo la Corte costituzionale ha però chiarito che «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (sent. 275/2016).

Tutto questo senza dire che alcune situazioni di bisogno non sono prese realmente in considerazione dal legislatore, restano fuori dal raggio di intervento pubblico.

Più diseguaglianza. Ma il vero problema nasce quando la rotta dell’art. 3 della Costituzione viene abbandonata. Certi orientamenti politici portano a scelte normative che accrescono le disparità di reddito, come nel caso di alcune norme che regolano il mercato del lavoro e di alcune norme sulle attività finanziarie. Il medesimo risultato consegue alle regole relative alla trasmissione in via ereditaria della ricchezza e ad alcune decisioni sulla spesa pubblica e sulla tassazione, che comportano effetti redistributivi sul reddito.

Addirittura in qualche caso le scelte legislative vìolano il principio di eguaglianza. E non è infrequente che la Corte costituzionale dichiari l’incostituzionalità di una norma proprio perché non rispetta il principio. Di recente è accaduto in due casi significativi.

Il primo riguarda una legge della Lombardia sull’edilizia residenziale pubblica che stabilisce il requisito della residenza anagrafica o dello svolgimento dell’attività lavorativa nella regione «per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda» (sent. 44/2020). Secondo il Tribunale di Milano, che invoca il giudizio della Corte costituzionale, questa norma viòla l’art. 3 primo e secondo comma perché il requisito (residenza o attività lavorativa per almeno cinque anni) non ha «alcun ragionevole collegamento con la funzione sociale dei servizi abitativi pubblici». Nel risolvere la questione, la Corte costituzionale comincia da due precisazioni. In primo luogo, il diritto all’abitazione è incluso nel catalogo dei diritti inviolabili anche se il testo costituzionale non lo prevede espressamente. In secondo luogo, l’edilizia residenziale pubblica (ERP) serve a garantire un’abitazione a persone in difficoltà economiche. Alla luce di queste premesse, il requisito dei cinque anni di permanenza o lavoro nella Regione costituisce «una soglia rigida che porta a negare l’accesso all’ERP a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente (quali ad esempio condizioni economiche, presenza di disabili o di anziani nel nucleo familiare, numero dei figli). Ciò è incompatibile con il concetto stesso di servizio sociale, come servizio destinato prioritariamente ai soggetti economicamente deboli». Ne segue che, considerata «la funzione sociale del servizio di edilizia residenziale pubblica, è irragionevole che anche i soggetti più bisognosi siano esclusi a priori dall’assegnazione degli alloggi solo perché non offrirebbero sufficienti garanzie di stabilità». In conclusione, la disposizione della legge lombarda, «nella parte in cui fissa il requisito della residenza (o dell’occupazione) ultraquinquennale in regione come condizione di accesso al beneficio dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, contrasta sia con i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché produce una irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non ne sia in possesso, sia con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., perché tale requisito contraddice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica».

Il secondo caso riguarda la norma del cosiddetto decreto sicurezza che impedisce l’iscrizione all’anagrafe degli stranieri richiedenti asilo (sent. 186/2020). Interessa il nostro discorso perché l’iscrizione anagrafica è il presupposto per accedere alle prestazioni sanitarie o per avvalersi dei servizi pubblici. Il problema è la irragionevole disparità di trattamento rispetto ad altre categorie di stranieri e rispetto ai cittadini italiani. Siccome la norma nega l’iscrizione anagrafica a chi abitualmente dimora nel territorio italiano «riserva un trattamento differenziato e indubbiamente peggiorativo a una particolare categoria di stranieri in assenza di una ragionevole giustificazione: se infatti la registrazione anagrafica è semplicemente la conseguenza del fatto oggettivo della legittima dimora abituale in un determinato luogo, la circostanza che si tratti di un cittadino o di uno straniero, o di uno straniero richiedente asilo, comunque regolarmente insediato, non può presentare alcun rilievo ai suoi fini». La Corte aggiunge una considerazione relativa alla ‘pari dignità sociale’ di cui parla l’art. 3 della Costituzione: «Per la portata e per le conseguenze anche in termini di stigma sociale dell’esclusione operata con la norma oggetto del presente giudizio, di cui è non solo simbolica espressione l’impossibilità di ottenere la carta d’identità, la prospettata lesione dell’art. 3, primo comma, Cost. assume in questo contesto – al di là della stessa violazione del principio di eguaglianza – la specifica valenza di lesione della connessa “pari dignità sociale”».

Sviluppi. Si potrebbero fare molti altri esempi prendendoli dalla vasta giurisprudenza costituzionale che ruota attorno al principio di eguaglianza. Allo stesso modo si potrebbe delineare in maniera più dettagliata il quadro normativo. Ma penso che questi pochi accenni a leggi e sentenze siano sufficienti a dare un’idea dell’ampio spettro operativo del principio e delle difficoltà che si frappongono alla sua concreta applicazione.

Vedremo se nei prossimi mesi il raggio d’azione del principio si estenderà, come esigerebbe la grave crisi economica e sociale causata dalla pandemia, oppure se le scelte politiche andranno in direzione diversa, perdendo così un’occasione storica per rafforzare il sistema del welfare e, di conseguenza, per consolidare la democrazia nel nostro Paese.

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