Dal 15 ottobre si applica presso la Camera dei Deputati la deliberazione dell’Ufficio di presidenza del 22 settembre scorso, con la quale si è allineato l’ordinamento camerale a quanto previsto in via generale dal d.l. 21 settembre 2021 n. 127 (art. 1, comma 12):
la certificazione verde (il noto green pass) è ormai necessaria per accedere ai locali della Camera, che si tratti di esterni, dipendenti o deputati. Una delibera del 5 ottobre da parte dell’Ufficio di presidenza ha poi riprodotto i medesimi obblighi anche al Senato.
Dunque, le porte di Montecitorio e di Palazzo Madama resteranno chiuse per tutti quei parlamentari che non siano in grado di mostrare il QR code che tutti abbiamo imparato a conoscere. Seguendo la delibera della Camera, scopriamo in effetti che, in assenza del green pass, scatterà per gli eletti la sanzione interdittiva, pronunciata in via provvisoria da parte del Presidente (sulla base degli artt. 59 e 60, comma 1, del Regolamento della Camera) e poi dall’Ufficio di presidenza (art. 60, commi 3 e 4, RC: l’ultimo comma in particolare estende il potere sanzionatorio a “fatti di eccezionale gravità” che siano avvenuti nelle sedi della Camera, ma non in Aula). Tale sanzione comporta la sospensione della funzione da due a quindici giorni, con la possibilità che tale periodo si duplichi ove il deputato tenti di rientrare in Aula (art. 60, comma 3, ultimo periodo, RC).
L’interdizione comporta, all’evidenza, tanto l’impossibilità di partecipare ai lavori parlamentari, quanto la decurtazione della diaria (art. 48-bis RC).
Di fronte a questo scenario, la componente politica del Gruppo Misto “L’Alternativa c’è” ha già annunciato di voler ricorrere alla Corte costituzionale tramite un conflitto fra poteri dello Stato.
Che sia la tempesta perfetta affinché la Corte superi infine il pudore (politico-)istituzionale che per il momento l’ha trattenuta nel giudicare nel merito i conflitti parlamentari? È noto infatti che dall’ordinanza n. 17/2019 nessun conflitto sollevato da singoli membri delle Camere è stato dichiarato ammissibile: la tagliola della “soglia di evidenza” disegnata appositamente per tali azioni ha operato senza pietà.
È giusto domandarsi se la situazione attuale (se davvero il ricorso si concretizzasse, se questo fosse adeguato in termini argomentativi ecc…) possa invece costituire un’occasione per la il giudice costituzionale.
Un’occasione secondo almeno tre punti di vista.
Il primo ha carattere meramente tecnico. Cosa c’è di più evidente dell’impedimento fisico di esercitare la funzione rappresentativa dei parlamentari, a cui si nega l’ingresso nei locali? Non è forse abbastanza manifesta la compressione di tutte le prerogative degli eletti? Dall’emissione di voti ed opinioni (art. 68, comma 1, Cost.), alla partecipazione alla funzione legislativa (artt. 71 e 72 Cost.), alla più generale funzione di rappresentanza (art. 67 Cost.), fino ad arrivare alla decurtazione delle indennità (art. 69 Cost.)… non c’è nessun aspetto dello status del parlamentare che non sia concretamente menomato dall’indirizzo dell’Ufficio di presidenza.
Si tratta, poi, di un’importate occasione istituzionale: la Corte può dimostrare che sul colle più alto c’è un giudice, che non ha paura di decidere ed è pronto a riaffermare la sua giurisdizione sugli affari più importanti che attengono alla vita del Parlamento (e che, come in questo caso, hanno una portata più generale per l’intero Paese).
Ma, soprattutto, è un’opportunità (lato sensu) “politica”: la Corte può andare al merito, senza impensierirsi troppo nel dare torto ai parlamentari! Perché – diciamolo – è apparso sin da subito abbastanza chiaro che l’arresto sulle soglie dell’ammissibilità è servito soprattutto per non dare ragione ai ricorrenti e quindi per non turbare troppo gli equilibri politico-istituzionali (pensiamo alle ord. n. 17/2019, n. 60/2020, ma anche alla recentissima n. 188/2021, nella quale francamente non è chiaro cosa avrebbero dovuto allegare “in più” i deputati ricorrenti – oltre al fatto che la loro proposta di legge era stata dichiarata inammissibile ancora prima di essere incardinata – per dare conto di una violazione evidente e manifesta del potere di iniziativa legislativa…). Nel caso di specie, pur riconoscendo che effettivamente vi è una lesione netta dello status parlamentare, il giudice costituzionale può decidere nel merito e, senza creare alcuno scandalo, affermare che tale lesione si produce legittimamente poiché è necessario preservare la salute collettiva (quindi anche degli altri parlamentari e di tutto coloro che lavorano negli spazi del Parlamento) in un momento storico unico ed in maniera equivalente a quanto avviene per i dipendenti pubblici. Nella fase di merito, si potrà allora giudicare in base a criteri di proporzionalità (in fondo, la lesione è facilmente sanabile se i parlamentari si procurano il pass sanitario, tramite vaccinazione o tampone) e di bilanciamento fra i principi costituzionali in gioco (la funzione rappresentativa del singolo membro della Camera e la tutela della salute collettiva).
Certo, ci sono alcuni aspetti tecnici che potrebbero aprire ulteriori “spazi di fuga” dalla decisione di merito, come l’oggetto dell’impugnazione: è necessario attendere la sanzione concreta ed impugnare l’ “atto presupposto” (come sembra, ad esempio, adombrare l’ord. 193/2021, anch’essa recentissima, rispetto al regolamento del Senato e al potere di controllo sulle interpellanze e interrogazioni spettante al Presidente) oppure l’azione può svolgersi direttamente contro l’indirizzo generale adottato dall’Ufficio di presidenza?
Premesso che, alla fine, la Corte deciderà in maniera discrezionale, è anche vero che nella giurisprudenza amministrativa è da sempre ammessa l’impugnazione dell’atto normativo generale ove questo sia immediatamente lesivo delle posizioni soggettive. E questo è un po’ il caso: la delibera (dando attuazione ad una previsione di legge) immediatamente istituisce i controlli sul green pass e fa scattare il divieto di accesso, al di là della successiva e formale irrogazione della sanzione da parte dell’Ufficio di presidenza.
Insomma, potrebbe davvero essere “la volta buona” e c’è da auspicare che anche a Palazzo della Consulta la pensino così.