Chiusa la sofferta vicenda che ha portato alla riconferma di Mattarella al Quirinale, ligio ad una inveterata regola di correttezza istituzionale Draghi ha rassegnato le dimissioni del Governo da lui presieduto al neoeletto Capo dello Stato che – come di consueto – le ha respinte invitando il Presidente del Consiglio a restare al proprio posto.
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque. Le dimissioni di cortesia – come sono usualmente chiamate – si spiegano perfettamente in un contesto nel quale alla suprema magistratura del Paese venga chiamata persona diversa da quella che aveva dapprima fatto luogo alla scelta del Presidente del Consiglio e rievoca un lontano passato nel quale il Monarca disponeva del potere di nominare e revocare “i suoi Ministri” (art. 65 stat. alb.). Come si sa, al di là della lettera dello statuto, si affermò poi, sia pure tra mai sopite resistenze della Corona, la forma di governo parlamentare che obbligò il Sovrano a far cadere la scelta su personalità in grado di riscuotere anche (e, in buona sostanza, soprattutto) la fiducia delle Camere (e, segnatamente, di quella elettiva). E, tuttavia, il figurino statutario vivente trasmetteva il messaggio di una sorta di doppia fiducia della quale il Governo doveva pur sempre godere per potersi immettere nell’esercizio delle proprie funzioni e restare in carica.
Ora, i riti del potere tendono a radicarsi nel terreno sul quale maturano le esperienze di rilievo istituzionale e, pur caricandosi col tempo di significati anche sensibilmente diversi da quelli posseduti in origine, si trasmettono nel segno della continuità.
Se ne ha, peraltro, lampante riprova proprio con riguardo alle attribuzioni del Capo dello Stato: alcune delle antiche prerogative regie si rinvengono anche nel nuovo dettato della Carta repubblicana, i cui enunciati nondimeno sono venuti acquistando un significato assai diverso da quello di un passato ormai remoto.
Ebbene, venendo al contesto delineatosi con l’avvento della Repubblica, le dimissioni conseguenti alla elezione del Capo dello Stato appaiono essere appunto di (mera) “cortesia”, per il fatto che il Presidente del Consiglio non è stato nominato dal nuovo Capo dello Stato ed ha, pertanto, bisogno di verificare se gode anche della fiducia di quest’ultimo. La loro immediata reiezione ha, poi, a un tempo, il significato di non delegittimare ex post la scelta operata dal precedente inquilino del Quirinale e, ovviamente, di attestare che l’unico, vero organo in grado di concedere e revocare la fiducia al Governo è il Parlamento.
Ebbene, cosa resta di tutto ciò nel caso odierno? Nulla, assolutamente nulla. Le dimissioni rassegnate da Draghi, per mero attaccamento all’antico rituale, sono prive di significato alcuno, anche meramente simbolico, qual è quello che – come si è rammentato – connota le dimissioni in una circostanza siffatta. Il Presidente del Consiglio è stato – come si sa – scelto dallo stesso Presidente della Repubblica, alla cui fiducia peraltro deve la preposizione all’ufficio: fiducia di oggi tale e quale a quella di ieri, ed anzi viepiù rimarcata nella sofferta congiuntura in atto e testimoniata dalla parimenti sofferta disponibilità offerta dal Capo dello Stato alla propria riconferma. La quale, poi, a quanto pare, si deve anche ad una insistita sollecitazione in tal senso venuta dallo stesso Presidente del Consiglio, forse decisiva per uscire dal labirinto nel quale le forze politiche si erano infilate senza riuscire poi a trovare il bandolo di una matassa particolarmente aggrovigliata.
In qualche modo può, dunque, dirsi che dapprima Mattarella aveva scelto Draghi e poi quest’ultimo ha giocato un ruolo con ogni probabilità non secondario in occasione della scelta del primo…
Insomma, i riti avranno pure una loro ragione d’essere, ma forse stavolta si è… esagerato col far luogo alla loro stanca, acritica ripetizione.
Anche cedere il passo a una signora quando si attraversa una porta appartiene ad antiche ritualità, eredi di un’insopportabile visione discriminatoria della donna. Ma se uno non lo fa non può che apparire un gran cafone! Se Draghi non avesse seguito l’antica tradizione che cosa avrebbero detto i rapaci commentatori se non che ha dimostrato un’intollerabile arroganza?
Anche le regole di cortesia hanno uno scopo e una funzione ben precisi.
Qui caro prof. Bin quale fine realizzerebbero le dimissioni di Draghi, se non quello di ripetere un comportamento che si è sempre tenuto, ma senza che ce ne fosse la ragione sottostante.
È come se aprissimo (di nuovo) la porta per far passare una donna che era già entrata prima.
Semplicemente bizzarro!
Ma siamo proprio sicuri che le dimissioni di cortesia siano un gesto “che si è sempre tenuto, ma senza che ce ne fosse la ragione sottostante”? E’ il PDR che nomina il governo: che resti in carica il governo non nominato dal PDR in carica non è il massimo dell’estetica costituzionale… E se il PDR fosse eletto da una maggioranza diversa da (e ostile a) quella che ha votato la fiducia al governo? E se… I rapporti tra PDR e Governo sono quelli – dicono i manuali – di una “collaborazione costante”: sembra opportuno che siano improntati anche da un reciproco riconoscimento e da “cortesia” istituzionale.
“Arroganza” nella circostanza odierna non credo proprio. Come ho tentato di mostrare, dà le dimissioni il Presidente del Consiglio nominato da un altro Presidente: come dire che vuol verificare se anche il nuovo, al posto del primo, lo avrebbe scelto. Ma, trattandosi della stessa persona… E, poi, proprio nella singolare congiuntura odierna in cui ciascuno dei due preme perchè l’altro resti al proprio posto… Che senso ha?
Antonio Ruggeri
Il senso della cortesia – di per sé inutile – lo si apprezza davanti all’ipotesi della scortesia.