Tre ottime ragioni per introdurre il voto di preferenza

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di Alessandro Morelli e Fiammetta Salmoni

Qualche tempo fa, mossi dall’esasperazione che ha suscitato in noi il perdurante immobilismo nel campo delle riforme istituzionali, abbiamo deciso di provare a scrivere, insieme a colleghe e colleghi animati dal nostro stesso senso di frustrazione, una proposta di legge in materia elettorale.

Dopo l’approvazione della legge di revisione costituzionale che nel 2020 ha ridotto di un terzo il numero dei parlamentari, come molti di noi, peraltro, avevano previsto, non ha preso avvio quella grande stagione di riforme promessa o preconizzata da chi aveva sostenuto convintamente le ragioni del sì al referendum. Le riforme in ambito istituzionale rimangono però necessarie (ormai si parla solo di quelle richieste dal PNRR …): occorre garantire il funzionamento delle Camere con la nuova composizione numerica (la novella costituzionale, infatti, entrerà in vigore in concomitanza delle prossime elezioni), compensarne la riduzione di rappresentatività, mettere in sicurezza il sistema delle garanzie costituzionali (sono rimaste invariate la maggioranza prevista nel procedimento di revisione costituzionale e quelle richieste per l’elezione di alcuni importanti organi di garanzia, come, per esempio, il Presidente della Repubblica o la Corte costituzionale, riguardo ai componenti designati dal Parlamento in seduta comune).

Nel 2021 si è apportata un’altra modifica puntuale al testo della Costituzione, passata abbastanza in sordina: revisionandosi l’articolo 58, si è abbassata a diciott’anni l’età per votare al Senato. Un intervento contro cui era difficile esprimere dissenso (chi può essere in disaccordo con l’ampliamento del suffragio?) ma che, di fatto, ha reso ancor più simili Camera e Senato, esasperando il carattere “perfetto” del nostro bicameralismo, da molti ritenuto un’intollerabile anomalia, e ha accentuato la connotazione simbolica ed evanescente del rapporto di rappresentanza politica, com’è logico che sia se riduciamo drasticamente il numero degli eletti e aumentiamo quello degli elettori. In siffatto contesto, si sono proposte anche riforme volte a eliminare il Senato, introducendo un sistema monocamerale, secondo una logica esasperatamente riduzionista e iper-semplificatrice dell’assetto istituzionale. Insomma, il sogno più condiviso dalle attuali forze politiche sembra essere quello espresso dal titolo di una nota canzone degli Abba: the winner takes it all!

Nessuna modifica è stata apportata finora ai regolamenti parlamentari, che necessiterebbero urgentemente di una pressoché totale riscrittura. Nessuna modifica della vigente disciplina elettorale è stata introdotta. È vero che il Rosatellum-bis è stato reso applicabile anche al nuovo numero dei parlamentari, ma la connotazione maggioritaria degli effetti che tale normativa produrrà con 600 seggi sarà notevolmente esasperata, soprattutto per l’operare delle cosiddette “soglie implicite” determinate dalla nuova composizione numerica (oltre all’effetto selettivo prodotto dalle clausole di sbarramento previste dalla disciplina vigente, infatti, si innalzerà ulteriormente il numero di preferenze necessarie per entrare in Parlamento).

Ecco, dunque, la nostra idea: senza toccare la formula elettorale, senza entrare nel merito dell’eterna contesa tra proporzionalisti e maggioritaristi, intervenire solo su due meccanismi che, stando almeno alle dichiarazioni pubbliche, non piacciono a nessuna forza politica. Si tratta delle “liste bloccate” e della possibilità per i candidati di presentarsi in più collegi elettorali, due strumenti che, di fatto, consegnano un potere assoluto ai leader di partito, consentendo loro di decidere chi e dove possa essere eletto.

Le candidature, si sa, non sono scelte dai partiti con metodo democratico: le primarie non hanno funzionato, non sono previste votazioni interne sui candidati e altre soluzioni più creative, come quella di usare piattaforme online, hanno mostrato vistose carenze. Le liste, quindi, sono redatte dai segretari di partito, che ovviamente tenderanno a inserire i propri fedelissimi e ad escludere personalità anche di valore ma a loro non gradite. All’elettore finisce (e finirà), dunque, con l’essere presentato un menù fisso, non à la carte. Un menù che, peraltro, potrà di fatto anche variare rispetto a quello mostrato ai cittadini al momento della competizione elettorale grazie al meccanismo delle multicandidature: il primo della lista, scegliendo il proprio seggio solo dopo essere stato eletto, potrà determinare l’ingresso in Parlamento di una serie di “secondi”.     

Abbiamo quindi provato a mettere mano ai vigenti testi unici in materia elettorale di Camera e Senato, così come modificati dalla legge 165/2017, apportando poche e minimali modifiche, dirette a eliminare le liste bloccate e le candidature multiple. Operando chirurgicamente (come ormai si ama dire) sull’attuale normativa e limitandoci a eliminare i suddetti meccanismi, la normativa di risulta ha inevitabilmente conseguito l’effetto di reintrodurre il voto di preferenza (il testo è reperibile al seguente indirizzo: labriforme.info/progetti/), una soluzione a sostegno della quale militano comunque diverse ottime ragioni.

La prima. Quella proposta è la soluzione più semplice da realizzare se si vuole restituire un minimo di effettività al diritto (fondamentale) di voto e alla rappresentatività delle Camere. L’alternativa che normalmente viene contrapposta è quella dei collegi uninominali (collegati a un sistema elettorale proporzionale). Per ogni collegio uninominale sarebbe proposto un unico candidato. Quest’ultima soluzione, tuttavia, non garantirebbe alcuna libertà di scelta ai cittadini in quanto la selezione degli unici candidati di partito avverrebbe con le medesime modalità con cui oggi si compongono le liste bloccate: i segretari di partito deciderebbero in totale autonomia il candidato unico da candidare nel collegio unico (con la sola differenza che, in questo caso, ci sarebbe non un’intera lista bloccata ma un solo candidato “bloccato”). Insomma, lo strapotere dei leader di partito, cacciato dalla porta, rientrerebbe dalla finestra. E, soprattutto, l’introduzione dei collegi uninominali presenta l’irrimediabile svantaggio di richiedere una complessiva riscrittura della normativa elettorale, che determinerebbe un inevitabile ritorno all’eterna guerra tra guelfi e ghibellini delle formule elettorali.

La seconda. Il ripristino del voto di preferenza alimenterebbe una competizione interna ai partiti che non deve ritenersi un male ma soltanto un modo per incidere su dinamiche di funzionamento delle formazioni politiche ormai sclerotizzate, segnate dalla diffusa quanto deleteria tendenza alla rincorsa del consenso del capo, detentore del potere di vita e di morte politica dei suoi accoliti: quello appunto di decidere l’ordine dei candidati nelle liste bloccate. Il problema della carenza, in molti degli attuali partiti, di un’organizzazione interna democratica non può certo essere risolto soltanto con il meccanismo della preferenza, richiedendo una più ampia disciplina sui partiti contro la quale si registrano resistenze anche più forti di quelle che si oppongono all’eliminazione delle liste bloccate. Non v’è dubbio, tuttavia, che l’assetto di potere interno alle attuali formazioni politiche riceverebbe uno stimolo importante dall’introduzione del voto di preferenza.

La terza. C’è una motivazione meritocratica alla base dell’innovazione che proponiamo. Non nel senso che il voto di preferenza garantirebbe l’ingresso in Parlamento di persone competenti. Non potrebbe farlo e non sarebbe nemmeno giusto pensare a strumenti che fossero in grado di produrre tale effetto. La nostra non è e non deve essere una tecnocrazia ma una democrazia nella quale la scelta della classe politica è comunque rimessa alla volontà popolare. Il “merito”, allora, si traduce nell’idoneità del candidato di acquisire una diffusa fiducia circa le sue capacità di interpretare interessi avvertiti da ampie fasce della società e di dare loro soddisfazione. Ma “merito” significa anche poter sanzionare politicamente il candidato già eletto, che abbia svolto in modo insoddisfacente il proprio mandato, scegliendo di non votarlo più, anche se la sua fedeltà al capo gli continua a garantire un posto utile in lista. A ciò deve aggiungersi che il voto di preferenza potrebbe rafforzare il rapporto tra eletti e territorio. La necessità di ottenere voti potrebbe agire positivamente nel senso della responsabilizzazione dei candidati verso i propri elettori, nei confronti dei quali potrebbero sentirsi maggiormente responsabili di quanto non si percepiscano gli eletti catapultati in collegi sconosciuti tramite il meccanismo delle liste bloccate.

Si è detto (e continuerà a dirsi) che il voto di preferenza ci riporterebbe indietro, ai tempi della “Prima Repubblica”, che è un meccanismo criminogeno, che agevola o addirittura incoraggia voti di scambio e corruttele e provoca, per di più, un notevole incremento dei costi della politica. Appaiono queste obiezioni deboli nell’attuale contesto, molto diverso da quello in cui in passato si è sperimentato il meccanismo della preferenza a livello nazionale: diverso sistema elettorale, diverso sistema partitico, diverse dinamiche di funzionamento della forma di governo.

A ciò si aggiunga che se il voto di preferenza è sinonimo di corruzione, come taluni sostengono, dovremmo giungere alla conclusione che le elezioni comunali, regionali e per il Parlamento europeo (dove il voto di preferenza c’è e funziona ottimamente) ci restituiscono solo eletti corrotti. Ma delle due l’una: o tale affermazione è corretta, e allora i paladini delle liste bloccate dovrebbero modificare tutte le eleggi elettorali esistenti e inserire anche lì tale meccanismo, oppure l’affermazione di cui sopra è falsa e mistificatoria e allora non si capisce perché non uniformare le elezioni per il Parlamento alle altre, sbloccando le liste.

Forse per le elezioni comunali, regionali e del Parlamento europeo il problema delle possibili degenerazioni non si pone mentre la questione rileva soltanto per le elezioni parlamentari? O forse è tollerabile che tutte le altre elezioni, tranne quelle nazionali, si svolgano in balia del malaffare?

La verità è che non c’è un nesso necessario tra preferenze e corruzione. Il voto di preferenza può far eleggere candidati corrotti, ma anche i candidati inclusi nelle liste bloccate possono essere corrotti. E forse ancor di più, forti della certezza che, con l’appoggio del segretario del loro partito, qualunque cosa facciano saranno ugualmente ricandidati. Ma è proprio questo il punto: le segreterie di partito hanno dimostrato di non essere sempre in grado di dare luogo a una selezione interna accettabile e credibile dei propri candidati, alimentando spesso e volentieri diffuse pratiche arbitrarie e cortigianesche, che hanno prodotto come risultato una pesante mortificazione dei meriti, delle qualità, delle esperienze, delle potenzialità.

In ogni caso, gli aspetti patologici vanno combattuti con i mezzi adatti – quelli della prevenzione e della repressione penale – e non eliminando istituti e diritti. Sarebbe come se, per evitare gli incidenti stradali, si pretendesse di abolire la libertà di circolazione o di ridurla al minimo. Allo stesso modo, non si può continuare a pensare di combattere la corruzione azzerando l’effettività del diritto di voto.  

Le liste bloccate e le candidature multiple, insomma, sono una deviazione inaccettabile dal modello democratico e rappresentativo scritto nella nostra Costituzione. Raffigurano la cristallizzazione del leaderismo e dell’immobilismo; puntano a riproporre a qualunque costo e indipendentemente dalla volontà degli elettori le stesse identiche persone qualunque sia stato il loro operato in Parlamento; coartano in maniera inaccettabile la volontà dei cittadini comprimendo il loro diritto di esercitare la sovranità ex art. 1 Cost. attraverso la libera elezione dei loro rappresentanti; impediscono ai cittadini di non eleggere più chi li ha mal rappresentati e così via.

A chi contesta, infine, che in questo modo si tornerebbe a un sistema che non garantirebbe la stabilità di governo, si può facilmente rispondere ciò che disse la Corte costituzionale nella sua sent. 35/2017: esiste una gerarchia di fini tra rappresentatività che andrebbe “primariamente” tutelata rispetto alla governabilità. E tanto vale a chiedere ad altissima voce di restituire una volta per tutte lo scettro ai cittadini!

La vignetta è di Tullio Altan
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1 commento su “Tre ottime ragioni per introdurre il voto di preferenza”

  1. Giustissime le due modifiche proposte, preferenze e candidatura unica! È il minimo che si dovrebbe fare. Non bisogna inventare motivazioni troppo complicate: la scelta diretta e individuale di ogni parlamentare, in parte corollario della rappresentanza democratica e per il resto sancita espressamente dalla Costituzione (art. 48, 56, 58), è incompatibile con qualsiasi forma di lista bloccata (contrariamente alla giurisprudenza suprema del 2014 e del 2017) o di lista ordinata al di fuori del processo elettorale. La libera scelta dei rappresentanti dagli elettori è indispensabile per garantire la libertà e la responsabilità degli eletti titolari di un mandato molto particolare. Con liste bloccate i parlamentari rispondono ai pochi capi che li nominano; con un sistema di voto conforme rispondono agli elettori e all’opinione pubblica. Invece della preferenza (spesso depotenziata attraverso la facoltatività o un valore solo condizionale) si potrebbe optare per un sistema di voto unico per un/a candidata/o che varrebbe poi automaticamente anche per la sua lista; la soluzione si abbinerebbe perfettamente anche alla quota uninominale, perché quel voto, legato a quello della circoscrizione plurinominale, non è reale ma solo uno stratagemma di assegnazione di seggi. Invece di ridurre la discussione al manicheismo superficiale e abusato fra bianchi e neri, maggioritario e proporzionale, servirebbe – da parte dei costituzionalisti- un sobrio e attento ritorno alle radici della logica elettorale (invece di perdersi nelle valutazioni prudenziali e contingenti degli studi politici). Ma questo è forse chiedere troppo. PS: Siamo a 300 giorni dalle elezioni.

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