Puntuale, in vista della prossima tornata elettorale del 25 settembre, è riapparsa la flat tax, oggi riproposta dalla Lega (al 15%) e da Forza Italia (al 23%).
La proposta offre l’occasione per svolgere qualche ragionamento sulla scelta dei nostri costituenti di introdurre in Costituzione il principio di progressività dell’imposizione tributaria (ossia il principio per cui chi ha maggiori disponibilità sia tenuto a concorrere alla spesa pubblica più degli altri).
La premessa d’obbligo è che non c’è un regime fiscale perfetto. Sia la flat tax (un’imposta uguale per tutti che obbliga a compartecipare alla spesa pubblica in proporzione a ciò che si ha) che l’imposta progressiva presentano aspetti di vantaggio e aspetti controproducenti.
L’aliquota unica avrebbe sicuramente il pregio di semplificare il sistema, ma determinerebbe inevitabilmente un minor gettito fiscale, che lo Stato sarebbe costretto a colmare altrimenti: ricorrendo al debito pubblico o a un taglio della spesa pubblica.
Per molti autori la semplificazione del sistema che deriverebbe dall’aliquota unica comporterebbe anche una minore evasione fiscale, seppur in molti rilevino che, in realtà, l’evasore non faccia tanto i conti con il livello di imposizione, quanto con la probabilità di essere scoperto.
Va poi rilevato che in Italia non può certo dirsi che il sistema nel complesso sia informato al principio di progressività sancito dall’art. 53 Cost. (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”). Esistono infatti moltissimi redditi tassati con aliquota piatta.
Ad esempio, i redditi da capitale (interessi e dividendi) sono tassati con l’aliquota sostitutiva fissa del 26% (salvo che si tratti di titoli di Stato, risparmio postale e interessi dei project bond, per i quali l’aliquota è del 12,5%), mentre i redditi da locazione che beneficiano del regime della c.d. “cedolare secca” sono tassati con l’aliquota unica del 21%.
In sostanza, a subire l’imposizione progressiva sono rimasti i soli redditi da lavoro (dipendente e autonomo), di pensione e d’impresa esercitata individualmente.
Nonostante risulti attaccato da più fronti, il principio di progressività continua a rispondere ad una importante logica di equità. Esso mira anzitutto a realizzare quell’uguaglianza dei punti di partenza che la Costituzione si pone come obiettivo al secondo comma dell’art. 3 (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”). Come rilevò l’onorevole Salvatore Scoca, a cui si deve la stesura dell’art. 53 Cost., «lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a principî di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività» (Assemblea costituente, seduta del 23 maggio 1947).
Il principio di progressività è figlio delle teorie utilitaristiche che risalgono a Jeremy Bentham, per il quale l’utilità che ciascun individuo può trarre cresce con il reddito, ma con una utilità marginale positiva decrescente. Il che significa che il sacrificio del pagamento dell’imposta sarà tanto minore, quanto maggiore sia il reddito e viceversa.
Un’imposta proporzionale come la flat tax inciderà, pertanto, in misura crescente sui patrimoni dei soggetti meno abbienti, per i quali la frazione proporzionale di reddito prelevata dallo Stato ha un valore ben maggiore della corrispondente frazione prelevata dai soggetti più facoltosi. Per i soggetti meno abbienti, in altri termini, è maggiore il rischio che l’imposta proporzionale incida sulla parte di patrimonio destinata ai bisogni essenziali.
Per queste ragioni, anche Adam Smith prendeva in considerazione la possibilità di una imposizione progressiva: «Le cose indispensabili alla vita danno luogo alla grande spesa dei poveri. Eglino trovano difficile il procurarsi il vitto, ed in ottenere il medesimo è spesa la maggior
parte della loro piccola entrata. Le cose di lusso e di vanità formano la principale spesa dei ricchi, ed un magnifico palazzo abbellisce e mette in massimo rilievo tutte le altre cose di lusso e di vanità ch’ eglino posseggono. Così un’imposta sopra le rendite delle case graverebbe in generale più sopra i ricchi, ed in questa specie di ineguaglianza non vi sarebbe forse cosa alcuna d’assai irragionevole. Egli non è molto irragionevole che i ricchi contribuiscano alla pubblica spesa, non solamente in proporzione alla loro entrata, ma anco in qualche cosa al di più della proporzione medesima» (Adam Smith, Indagini sulle cause della ricchezza delle nazioni, Cugini Pomba editore, Torino, 1851, p. 580).
Si pronunciò a favore di una certa progressività dell’imposizione anche Condorcet, per il quale la proporzionalità sarebbe stata il necessario punto di partenza, ma, «al di sopra di un certo limite l’eccedente [reddito, n.d.r.] pagherà proporzionalmente un’altra contribuzione» (Mélanges d’économie politique, vol. I, Paris, Guillaumin, 1847, p. 566).
Nel 1862 Quintino Sella, da ministro delle Finanze del governo Rattazzi, ebbe modo di dire alla Camera dei deputati che «Noi vogliamo che l’imposta sia proporzionale al reddito, ma perché lo fosse evidentemente la semplice proporzione numerica non potrebbe bastare. Una tassa del 10 su tutti sembrerà affatto equa, perché domanda una lira a chi ne ha 10 e domanda 10 centesimi a chi possiede una lira; ma se l’unica lira del povero è destinata a salvarlo dalla fame e la decima lira del ricco serve perché egli entri in teatro, ciò che in entrambi chiamasi lira non ha una eguale importanza e il contribuire con una medesima parte di aliquota corrisponde a sacrifizi radicalmente diversi.»
Dovendo lo Stato rinvenire le risorse necessarie all’erogazione dei servizi pubblici, il principio di utilità marginale decrescente è anche ciò che in astratto rende più tollerabile una maggiore contribuzione per i più abbienti.
«È ovvio che per pagare l’imposta il primo contribuente [il più povero, n.d.r.] sopporta un sacrificio di gran lunga maggiore del secondo [il più ricco, n.d.r.], e che sarebbe equo alleggerire l’aggravio del primo e rendere un po’ meno leggero quello del secondo» (così ancora il deputato Salvatore Scoca).
Insomma, la progressività tende anzitutto a eguagliare il sacrificio marginale dei contribuenti, ponendosi così come uno dei principi tesi a salvaguardare il mantenimento della pace sociale.
Il principio di progressività ha poi anche un’altra ragione, che è quella di «correggere le iniquità derivanti dagli altri tributi, ed in particolare da quelli sui consumi, perché più dei tributi diretti rendono i tributi indiretti e questi attuano una progressione a rovescio, in quanto, essendo stabiliti prevalentemente sui consumi, gravano maggiormente sulle classi meno abbienti» (così ancora Salvatore Scoca nella stessa seduta del 23 maggio 1947).
La tassazione sui consumi come l’IVA, infatti (da cui deriva quasi la metà del gettito complessivo per lo Stato), colpisce trasversalmente in maniera indistinta ogni ceto, in maniera per l’appunto regressiva (ossia recessiva, pregiudizievole) per i meno abbienti. La progressività mitiga quindi la regressività delle imposte fisse che colpiscono in misura maggiore i ceti meno abbienti.
Il problema della progressività è l’arbitrio e l’irragionevolezza con cui la politica potrebbe tracciare gli scaglioni di aliquota, nonché l’eccessivo livello che la tassazione potrebbe raggiungere per i ceti più abbienti, disincentivando la produzione e lo sviluppo.
Un problema che però, nei moderni ordinamenti democratici, trova un presidio nel principio “no taxation without representation”.
Ottimo il richiamo ai pionieri del pensiero liberale Adam Smith e Condorcet; ottimo quello all’ingegnere e membro dell’Accademia dei Lincei Quintino Sella e al giurista Salvatore Scoca. Tre secoli di consenso sui principi Messi ora in discussione! È chiaro che il dibattito sulla flat tax e il principio di progressività fiscale sancita dalla Costituzione riguardano la tassazione del reddito delle persone fisiche, non l’imposta sui profitti delle società né la tassa sui consumi. Per le tasse immobiliari sarebbe facile introdurre un minimo di progressività prevedendo non l’esclusione della prima casa ma un importo esente per persone a carico. Anche le tasse successorie sono in tutti i paesi più o meno progressive. Non sarebbe perché si tratta di un’imposta sul reddito e non di un imposta patrimoniale? Un punto importante che l’eccellente articolo ignora è la definizione della progressività, marginale o assoluta. I fautori della flat tax vorrebbero farci credere – martellando l’opinione con semplificazioni fuorvianti diffuse dai media ingenui o conniventi- che con un importo esente anche la loro tassa percentuale diverrebbe progressiva e quindi che essa non sarebbe incostituzionale. Speriamo che i togati non ci caschino! Vera progressività è una diagonale nel piano cartesiano, non una curva che rapidamente si appiattisce come quella della flat tax con importo esente. Piuttosto che una scandalosa flat tax per l’IRPEF ci vorrebbe un aumento dell’importo esente e aliquote più alte sui redditi molto alti. Non una patrimoniale generale che più che ingiusta sarebbe pericolosa, né esenzioni per il reddito dei giovani o altri trucchetti da politicanti che non sanno più he pesce pigliare. Manca nello schieramento contrapposto a quello delle flat tax al ribasso una proposta ragionata per una riforma fiscale complessiva sotto il segno dell’equità e dell’efficacia. È peraltro una della riforme che l’UE aspetta dall’Italia da almeno un paio di decenni.