Lo scorso novembre la Commissione ha finalmente presentato la propria proposta di riforma della governance economica dell’eurozona: niente modifica dei parametri di Maastricht (3% deficit/PIL; 60% debito PIL), niente “golden rule” a favore degli investimenti pubblici dei singoli Stati membri né, tantomeno, una capacità fiscale centralizzata. Senza preventivare anacronistiche riscritture dei Trattati, la proposta punta solo a ritoccare, principalmente, l’attuale Patto di stabilità e crescita (PSC), ricorrendo prevalentemente («on most aspects») alla procedura legislativa ordinaria, ove Consiglio e Parlamento europeo sono posti sullo stesso piano (p. 21 della Comunicazione della Commissione).
Credo, però, che l’aspetto più rilevante della proposta non potrà seguire la procedura legislativa ordinaria. Il cuore dell’innovazione avanzata dalla Commissione consiste nel superamento della regola – introdotta nel 2011 – della riduzione di un ventesimo all’anno del debito pubblico eccedente la soglia del 60% del PIL. Tale regola è accolta nel regolamento n. 1467/1997, il quale è stato approvato originariamente sulla base di una procedura speciale che contempla l’unanimità del Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo e della BCE (art. 104 C.14, comma 2, del Trattato di Maastricht, attuale art. 126.14, comma 2, del TFUE). Ogni volta che il regolamento n. 1467/1997 è stato modificato, tale procedura speciale è stata seguita. Dunque, anche oggi dovrà seguirsi tale procedura che contempla la marginalizzazione del Parlamento e l’unanimità del Consiglio.
La regola della riduzione di un ventesimo all’anno risulta, a giudizio della Commissione, una regola draconiana, che ignora la diversa posizione debitoria degli Stati membri, rendendo per alcuni di loro troppo oneroso – in termini di avanzi primari da raggiungere ogni anno – il percorso di rientro da un debito considerato eccessivo. Applicare rigorosamente quella regola avrebbe comportato politiche procicliche economicamente recessive. Pertanto, dal 2015, da quando cioè tale regola è entrata in vigore, i singoli Stati membri hanno sempre negoziato con la Commissione, anno dopo anno, le deroghe a tale vincolo draconiano.
Oltre a ciò, l’ulteriore vincolo del rispetto annuale dell’equilibrio di bilancio, basandosi sullo scorporo dal deficit nominale degli effetti negativi del ciclo economico, ha comportato l’introduzione di complicate misurazioni di grandezze virtuali, quali il PI potenziale e il divario tra questo e il PIL effettivo (output gap): misurazioni compiute ricorrendo a concetti fortemente contestati, su tutti quello di «disoccupazione strutturale». In pratica, si è finto di consentire all’introduzione di un concetto capace di fondare politiche anticicliche, per poi sterilizzarne ogni potenzialità in sede applicativa, ricorrendo a concetti colonizzati dalle ideologie anti-keynesiane per cui la spesa pubblica non può far nulla per abbassare la disoccupazione, se non temporaneamente e a prezzo di un sicuro rialzo dell’inflazione (Chessa).
Oggi si vorrebbe cambiare. Ed è apparentemente un bene. Ma la nuova regola, semplice semplice, che dovrebbe sostituire le vecchie regole cervellotiche e ideologiche non risulta perfettamente intellegibile.
Il famigerato limite del 60% del debito/PIL, come accennato, non scompare, per cui gli Stati membri “troppo indebitati” dovranno, come prima, convergervi. Ma tale convergenza avverrà con modalità flessibili, diverse per ciascuno Stato membro, secondo un principio di sostenibilità del debito pubblico da coniugarsi senza più far ricorso alle complicazioni dell’output gap e del PIL potenziale, bensì in base all’unico e più semplice indicatore della spesa pubblica. Dopo un adeguato piano di aggiustamento che copra un periodo compreso tra i 4 e i 7 anni, la spesa pubblica dovrà attestarsi stabilmente su livelli tali da rendere il debito pubblico sostenibile nel medio periodo. Più precisamente, la spesa pubblica dovrà garantire che l’andamento del debito su un orizzonte di dieci anni sia in costante e credibile riduzione, tenuto fermo il limite annuale del 3% del deficit/PIL. La spesa pubblica rilevante a tal fine sarà la spesa pubblica al netto del servizio del debito (spesa per interessi) e degli ammortizzatori automatici (indennità di disoccupazione), nonché delle spese discrezionali (finanziabili da entrate aggiuntive discrezionali, non preventivate nel piano di aggiustamento).
Il limite della spesa verrà concretamente fissato solo a seguito della negoziazione con la Commissione di un piano di aggiustamento almeno quadriennale, con cui, appunto, ciascuno Stato membro si impegna a rendere il proprio debito sostenibile nel medio periodo, attraverso un programma di riforme e investimenti.
Una volta negoziato il piano con la Commissione, quest’ultimo sarà approvato dal Consiglio e sarà praticamente blindato. Ogni scostamento dal piano, misurabile con la semplice regoletta della spesa pubblica, farà scattare l’automatica apertura del famigerato procedimento per deficit eccessivo, assistita da sanzioni pecuniarie, da minaccia di perdita dei fondi e finanziamenti europei (compreso il “Recovery Fund”) e sanzioni reputazionali (i ministri nazionali dovranno presentarsi dinanzi al Parlamento europeo). Certo, durante la procedura per deficit eccessivo la Commissione potrà anche verificare se per caso il piano originario non possa più ritenersi esigibile per sopravvenuta impossibilità, ma la semplice apertura della procedura sanzionatoria è tale da porre lo Stato in questione in una debolissima posizione contrattuale, ai fini della rinegoziazione del piano.
La semplice regoletta della spesa, però, tanto innocua non è, nella misura in cui essa è il precipitato di una più complessa procedura incentrata sulla valutazione, da parte della Commissione, della sostenibilità del debito pubblico del singolo Stato membro, con metodi che quest’ultimo non potrà in nessun caso negoziare, ma che saranno insindacabilmente definiti dalla Commissione, ricorrendo a tecniche stocastiche. In esito a tali valutazioni, gli Stati verranno suddivisi in tre gruppi: ad alto debito (e, dunque, a rischio implicito di insostenibilità), a medio debito e a basso debito.
A questa proposta, oltre che moderati plausi (Pisauro, Minenna), sono già state formulate alcune critiche (Saraceno, Piga, Salmoni), tra cui spicca quella dell’ex Ministro dell’economia Giovanni Tria, il quale ricorda che il Governo italiano del Conte I aveva lottato per escludere che nella riforma del MES finisse un meccanismo di valutazione della sostenibilità dei debiti «che avrebbe potuto innescare aspettative pericolose per la stabilità finanziaria dei singoli Stati, generando profezie che si autoavverano». Ora «si ha l’impressione che ci sia un tentativo di reintrodurre questo pericoloso meccanismo sotto altra forma». Insomma, l’applicazione della nuova regola sul rientro dal debito tanto innocua non pare, se è vero che essa minaccia di produrre un effetto stigma sui mercati per opera delle pagelle della Commissione.
Il dubbio che si pone al profano di valutazioni stocastiche della sostenibilità del debito pubblico, quale il sottoscritto, è però un altro. Come noto, John Rawls immaginò che principi di giustizia condivisibili da tutti i partecipanti a una comunità alla ricerca di un fondamento morale neutrale debbano negoziarsi dietro un “velo d’ignoranza”, ossia in modo che nessuno conosca la propria «posizione nella società né le sue doti naturali, e quindi nessuno si trov[i] nella condizione di adattare i principi a proprio vantaggio» (Rawls, cap. III, § 24).
La rinegoziazione delle regole del PSC avviene in assenza del rawlsiano “velo di ignoranza”: i negoziatori sanno bene quali sono gli Stati forti e quelli deboli e quali vantaggi produce o conserva agli Stati forti questa o quella regola, così come il mantenimento delle vecchie regole. Per compensare tale limite strutturale, la proposta della Commissione sembra proporci una versione subdola del velo d’ignoranza. Quando la regola del ventesimo di riduzione dell’eccesso di debito fu introdotta nel 2011 (regolamento n. 1177/2011), gli Stati debitori potevano valutarne a priori il relativo costo, in termini di avanzi primari (ossia, di austerity) da perseguire anno dopo anno, con tutte le approssimazioni del caso. Nel 2018 lo European Fiscal Board propose una regola della spesa congegnata in modo differente da quella attuale della Commissione, la quale consentiva però un’analoga valutazione degli avanzi primari necessari all’Italia per rispettarla (inizialmente leggeri, poi tremendamente pesanti: D’Antoni, Nocella). La nuova regola della spesa, che dovrebbe essere articolata in concreto nel piano negoziato con la Commissione, quali avanzi primari rende ipotizzabili per l’Italia e per quanti anni? Non si corre il rischio di approvare la riforma del PSC a occhi bendati, cioè senza sapere – fintanto che non venga negoziato il piano pluriennale con la Commissione – quali costi in termini di avanzi primari tale nuova disciplina comporti? Possiamo ragionevolmente confidare in una negoziazione con la Commissione tale da consentire al governo di uno Stato una forza negoziale minimamente decente, dopo che il suo debito è stato valutato come scarsamente sostenibile dalla stessa Commissione? Non si tratta, piuttosto, di un meccanismo volto ad abbassare le difese dei negoziatori degli Stati indebitati nella fase della introduzione della nuova regola sul debito, che altro non è che un rinvio alla negoziazione individualizzata con la Commissione, senza poter concretamente preventivare i costi del piano che verrà poi “suggerito” dalla Commissione, sotto la minaccia dei mercati e della BCE? Non si tratta, insomma, di una trappola per topi?