Squid game – Il veleno della meritocrazia nella Costituzione

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di Claudio Tani

Squid game, la serie coreana trasmessa da Netflix, con il simbolismo delle sue immagini, (le guardie che uccidono chi non supera la gara, gli indebitati concorrenti che si ammazzano tra loro per mettere le mani su un’inimmaginabile somma di denaro che dovrebbe porre fine a tutti i loro problemi) è l’allegoria più spietata e feroce della contemporaneità meritocratica.

Un nuovo darwinismo sociale si è imposto nella dialettica politica nelle nuove destre e nelle post-sinistre europee. La destra si è appropriata del lessico meritocratico del blairismo. Il Ministero dell’Istruzione ha cambiato nome, non più pubblica, ma “e del merito”. Nel più importante sistema organizzato per la crescita civile di una società, la morale aziendale ha sostituito l’etica pubblica, con effetti mai seriamente considerati in termini di rispetto dei diritti (libertà di insegnamento, libertà della scuola, diritto allo studio, istruzione gratuita e obbligatoria, autonomia universitaria) racchiusi negli articoli 33 e 34 della Costituzione.

La meritocrazia è un regime che assegna a ognuno il suo posto fisso nella scala dell’istruzione e nella scala sociale. Il potere è distribuito da una casta di “meritocrati” a capo di scuole e costosissime università private, dai saldi principi ereditari; su tutti il nepotismo delle università americane, vere e proprie stirpi di “meritevoli”, élites il cui scopo non è promuovere la mobilità sociale, ma prevenire i pericoli dell’indipendenza intellettuale (N. Chomski, Turning the tide, 1985, La quinta libertà, elèuthera, 1987, 367).

 La “terza via” tra capitalismo e socialismo, secondo l’idea di cui Blair è stato il più acclamato corifeo, ha trasformato il merito in un’attitudine esclusiva dell’individuo e non dello Stato. Friedrich Von Hayech (La via della schiavitù, 1944-1948, Ed. it. Rubettino, 2011) temeva la meritocrazia come società burocratizzata dove soccombono i migliori, antitetica al potere dei capitalisti di valutare il merito e il potenziale produttivo dei propri dipendenti. Blair ha riposizionato il concetto e ha imposto il nuovo significato, introiettato sia a sinistra che a destra. La meritocrazia non richiede l’intervento dello Stato. La competizione meritocratica va incoraggiata. Non vi è necessità di un’ideale distribuzione delle competenze, perché vi provvede il mercato che ha il potere di vita e di morte sugli individui.

L’illusione con cui il blairismo, dopo il crollo del socialismo reale, ha ingannato la sinistra è stata quella di scacciare l’incubo post-orwelliano di uno Stato totalitario. L’etica imposta al cittadino è quella di diventare “imprenditore di sé stesso” pronto a tutto per conquistare una posizione nel mercato, in uno squid game in cui quasi tutti finiscono nella massa caotica del moderno precariato.

Il dogma meritocratico sbandierato come panacea della disuguaglianza, ne è la causa principale. La variante autoritaria della cultura di impresa è entrata nel corpo sociale. Le logiche del profitto, anche le più sordide, hanno sostituito quelle su cui si era costruito l’assetto welfarista nel dopoguerra. Lo stato sociale ha resistito fino all’istituzione dell’Unione Europea, un moloc sovranazionale, con le caratteristiche dissimulate di un risorgente incubo orwelliano, non dominato da partiti totalitari, ma da poteri arbitrari convinti, sostenuti dalla forza persuasiva del denaro, di avere la moralità dalla loro parte. L’evoluzione dell’Europa dei mercati nell’Europa dei diritti, proclamata a Nizza nel 2000, sui diritti sociali si è risolta in un inganno. Il welfare ha perso quasi tutti i difensori che aveva negli Stati fondatori dell’Unione europea.

Anche in Italia ormai vige un sistema politico a partito unico, il partito degli affari, con due fazioni. La prima è quella di destra, che difende l’interesse dei super ricchi, i quali, anche con l’aiuto dei governi di centrosinistra, a partire dal 1974 hanno goduto di una forte flessione del prelievo sui redditi via via più alti, mentre contemporaneamente vi è stato un intollerabile aumento del prelievo (da quattro a otto volte  maggiore) sui redditi più bassi e medi per effetto dell’abbandono irresponsabile del principio di progressività preconizzato nel 1943 da Ezio Vanoni nel Codice di Camaldoli e confluito nell’art. 53 della Costituzione. Ma questo non sembra di interesse alcuno, perché nessuno vuole affrontare onestamente il problema politico dell’interdipendenza tra debito pubblico per mancato pagamento delle imposte e ingiustizia fiscale.  

La seconda fazione è quella dei democratici, diventati il partito dei professionisti benestanti e dei ceti medio-alti, consegnando i lavoratori al nemico di classe, che ha sfruttato meglio le caratteristiche fortemente antidemocratiche di sistemi elettorali che hanno avvantaggiato la base elettorale della destra. La borghesia della fazione democratica, incurante della lezione della storia (imprescindibile la lezione di Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, 1949), a furia di predicare “austerità”, unita alla versione ipocrita della solidarietà nazionale, ai ceti già impoveriti ha spianato la strada alla nuova destra, come negli anni venti all’alleanza tra liberali e fascisti (si veda la diffusa analisi di Clara E. Mattei, The capital order, Operazione austerità, Einaudi 2022).    

Nel rozzo lessico politico attuale si è perso ogni nesso dialettico tra educazione e politica, indispensabile per la diffusione dell’istruzione come emancipazione culturale e sviluppo di una società democratica, ossia per una realtà fondata sull’uguaglianza. “Meritocracy contradicts the principle of equality, of an equalitarian democracy, no less than any other oligarchy” (H. Arendt, Between Past and Future: Eight Exercises, in Political Thought, 1961, London: Penguin Books, 2006).

L’ideologia meritocratica ha vinto sull’idea di valorizzare una formazione integralmente umana, costruita su un umanesimo rivisitato sulle esigenze, individuali e collettive, delle nuove società di massa composte da individui drammaticamente isolati, sconnessi, psichicamente impacciati, violenti e depressi, in balìa di un massimalismo di folle amorfe, caotiche, senza coesione di spirito e prive di prospettive, preda dei nuovi populismi e quindi impotenti a tradurre la propria azione sul piano politico.

Il dogma meritocratico ripetuto a pappagallo è servito ad aprire la via a un nuovo totalitarismo, come nel celebre saggio-romanzo fantapolitico nel 1958 mise in luce un grande laburista (Michel Young, L’avvento della meritocrazia – The Rise of Meritocracy 1870-2033 An Essay on Education and Equality, lodevolmente ripubblicato nel 2014 e ora febbraio 2023 da Edizioni di Comunità). Young sbeffeggia il modello che fissa la posizione dell’individuo in base a test di intelligenza, il QI, somministrati ai bambini sin da tre anni e in prospettiva ai feti. “Come potevano gli uomini essere uguali davanti a Dio e tuttavia ineguali agli occhi dello Psicologo? ” (Young, cit. 81) . La ricchezza e il potere sono distribuiti da una casta di impuniti “meritocrati”, una nuova arrogante upper class, che sfrutta i privilegi nepotistici di più delle vecchie oligarchie ed espropria la ricchezza comune con la corruzione e la criminalità. Mentre i nuovi populisti, di qualsiasi tendenza, trattano le élites “con tutto il riguardo che si può desiderare” (Young, cit. 217).

Young rimandava il pensiero alla difesa del Governo Attlee, che aveva attivamente sostenuto. Prefigurando la variante del New Labour, che molti anni dopo sarebbe arrivata con Blair, immaginava orwellianamente il futuro disperante di questo capitalismo meritocratico nel 2033, quando il popolo si ribellerà.

Fino a qualche tempo fa, forse, si poteva sperare di riuscire a tenere fuori il cavallo di Troia con cui il neoliberismo stava ingannando le deboli difese delle post-sinistre europee e che fosse ancora vivo un sano scetticismo sufficiente per sgonfiare la bugia della scalata sociale per meriti, per cui “laburismo” è un macigno e “operaio” un tabù. E questa è ancora la speranza di Jo Littler (Against MeritocracyCulture, power and myths of mobility, Routledge, Londra 2018). Ma con l’allineamento progressivo della sinistra all’ideologia dei sociologi del potere (come Daniel Bell, La fine dell’ideologia, 1960, Ed.it. Sugar.Co,1991) la supremazia del neoliberismo, oltre Tatcher e Regan, era già salda. “Is equality a dream?” si chiedeva Young nel 1973 (Dissent Magazine Fall/1973, 415).

I ricchi, ricorda Jo Littler, sono bravi a dissimulare i propri privilegi, facendo credere di essere persone normali come le altre (anche la famiglia reale si è riabilitata come normale) che si trovano lì perché se lo sono meritato.  Ergo, chi è rimasto indietro nella scala sociale è perché se lo è meritato. Le differenze sociali sono rese glamour e legittimate dalla narrazione in serie televisive come Downton Abbey (J. Littler, cit. 115 ss.). Il merito è diventato, tramite film, format e narrazioni televisive di più o meno decente qualità, un luogo comune. E i luoghi comuni, se vestiti d’immagini, in ispecie in questo paesone che è l’Italia, hanno un’enorme capacità di diffusione. Il fascismo (non da solo) in Italia ci ha costruito e mantenuto un ventennio e oltre sui luoghi comuni.

Sarà troppo tardi quando sarà posto fine alla legittimazione da talent show della meritocrazia e delle differenze sociali attraverso l’espediente narrativo, grazie all’obbediente pressione dei media? Il futuro disperante di questo capitalismo, che sistematicamente distrugge l’economia reale, avrà lasciato sul terreno un disastro sociale che sfocerà nella rivolta del 2034? E la rivolta sarà repressa nel sangue, come nel 1819, a Manchester dove Young, andato per ascoltare i discorsi dalla grande tribuna di Peterloo, immagina di morire? Quale futuro sarà riservato alle classi inferiori?

Young aveva in mente la disuguaglianza fondata sulla violenza del dispotismo tirannico e autoritario descritto da Jack London (Il Tallone di ferro), George Orwell (1984), Aldous Huxley (Il mondo nuovo) e Ray Bradbury (Farenheit 451) e metteva in guardia da una nuova tirannia all’apparenza non violenta e da un dispotismo retto su un largo consenso legittimante le disuguaglianze sociali.

La meritocrazia non è ideologia utilitarista, è tracotanza classista, travestita da necessità politica “oggettiva” dell’età moderna (ognuno è “padrone” del proprio destino e la comunità nel tuo fallimento non ha alcun ruolo), che si esercita con il disprezzo del lavoro tradizionale, propagando l’idea che ricchezza e potere si possono ottenere anche senza (Michael Sandel, La tirannia del merito, Feltrinelli 2021). La meritocrazia è anche l’età della mediocrità e di spericolati e farseschi demagoghi che difendono i privilegi classisti, anche i più inconfessabili (Ash Narain Roy e Sophia Thomas, Meritocracy in the Age of Mediocrity, 2021, in http://moderndiplomacy.eu/2021/01/27meritocracy-in-the-age-of-mediocrity).     

L’esito tragico non è escluso se la sinistra (ma quale?) non cambia (ed è sempre più tardi) e non torna ai fondamentali della lotta sociale e di classe, recuperando la lezione gramsciana, in cui l’individuo e la società si costruiscono in una relazione storica, collettiva, produttiva in divenire, quale unico antidoto alle mutazioni del pensiero reazionario e unica alternativa democratica al populismo e alla violenza neoliberista.  

La supremazia dei regimi meritocratici attuali si fonda su due presupposti. Il primo è la pianificata incapacità dei parlamenti, assegnati a una funzione decorativa, di comprendere le complessità culturali e socio-economiche di ogni scelta politica su cui non hanno alcun potere. Il secondo è la variante tecnocratica che socialmente distrugge i corpi intermedi e sottomette chi non ha avuto accesso all’istruzione di qualità, rendendogli difficile sopravvivere.

Sono i presupposti delle tesi del manager di McKinsey (Roger Abravanel, Meritocrazia, Garzanti 2008), che ebbe influenza decisiva nell’elezione di Mitsotakis, un altro ex dirigente di Mc Kinsey, a capo del Governo greco. E’ la stessa tecnica di occupazione del potere politico attuata in Italia con i governi “tecnici”. Il che dimostra che neoliberismo non è affatto marginalizzazione dello Stato, ma utilizzo dello Stato in maniera selettiva, per spostare gli equilibri di potere in favore del capitale, rimuovendo ogni controllo sulle sue attività, che lo Stato però è chiamato a finanziare. E a questo serve il controllo monopolistico sulle banche centrali (N. Chomsky, Illegittimate AuthorityPoteri illegittimi, 2023, 154 ss. Ponte alle Grazie).

Nel campo dell’istruzione, l’accezione meritocratica (ribadita da R. Abravanel, Aristocrazia 2.0 – Una nuova élite per salvare l’Italia, Solferino, 2020) si è tradotta in alcune misure pratiche. Nelle università italiane, per esempio (l. n. 240/2010), si è introdotto il sistema “meritometrico”: le mediane, la classificazione delle riviste, la Valutazione di Qualità della Ricerca (VQR). Più che prassi di verifica della qualità della ricerca e della didattica, sembrano regole manageriali di misurazione di performance, con pretese di ottimizzazione della produttività, motivate con la retorica del merito e con un impianto analitico di impronta tipicamente neoliberista (Claudio De Flores, Il finanziamento degli atenei, in AIC, Osservatorio costituzionale, n.6/2021, 104); regole imposte per di più a un sistema che si colloca tra gli ultimi al mondo per spesa pubblica in università e ricerca. Nell’Europa a 27 la media di laureati tra i giovani da 25/34 anni è il 41,6%, in Italia è il 26,8%. (Eurostat). Per provenienza sociale, la media OCSE è del 32,3% di laureati fra i 30 e i 44 anni con genitori non laureati, la media italiana è del 13,9% (ISTAT 2021). Sono dati che ci dicono di un assecondato, quindi molto più preoccupante, allontanamento dei ceti popolari dai gradi alti dell’istruzione.

Ma questo non è un problema, secondo i più autorevoli maestri nostrani del neoliberismo (A. Alesina e F. Giavazzi in un risalente saggio dal folgorante titolo Il liberismo è di sinistra, il Saggiatore, Milano 2007, 36), perché avrebbe dovuto “essere ormai chiaro…che il difetto della nostra università, e della scuola in generale, non è la mancanza di fondi pubblici, ma l’impossibilità di creare incentivi corretti , licenziando  insegnanti, professori e ricercatori incapaci” e, va da sé, “spostando l’onere del finanziamento dei costi universitari dai contribuenti agli utenti”. L’istruzione universitaria, va da sé, non deve essere a carico della fiscalità generale e quindi dello Stato. Per dirla chiara, il diritto costituzionale ad “accedere ai gradi più alti degli studi”, appartiene, ça va sans dire, soltanto a chi ha il denaro per pagarselo.

Anche i figli di buona famiglia delle classi alte so’ pezzi e core, ma guai a pensare male se sono sempre promossi nella scala meritocratica. Anche quando sono stupidi sono più “meritevoli” dei figli delle classi inferiori.

Per finire, leviamoci la falsa idea e non cediamo all’insinuazione che merito di cui terzo comma dell’art. 34 e altri valori costituzionali, come quelli di solidarietà e fiducia, siano confliggenti. I secondi sono i presupposti per la tutela del merito nel significato della norma costituzionale. Altri criteri, come il sistema del concorso e l’imparzialità nell’accesso agli impieghi pubblici, destinati a rafforzare il valore del merito nel senso costituzionalmente corretto, operano su un altro piano, soltanto dopo che la discriminazione sociale che a monte ostacola il raggiungimento dei gradi più alti degli studi è stata eliminata. La tutela del “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” dipende dalla verifica delle due condizioni (capacità e merito e mancanza di mezzi), che fanno scattare il diritto individuale e l’obbligo del legislatore di provvedere e della pubblica amministrazione di attuare. Ma, per esempio, come si tutela il diritto dei capaci e meritevoli privi di mezzi, se nel PNNR è stata cancellata l’ipotesi stessa dell’accesso gratuito all’università e si è dimezzato lo stanziamento da 900 a 500 milioni per le borse di studio?

Le università cosiddette di eccellenza caldeggiate da Abravanel, e dai corifei di casa nostra, sono quelle private e la garanzia del diritto di cui al terzo comma dell’art. 34 non è la loro mission.  Questa deve essere perseguita dal sistema universitario pubblico, con adeguato finanziamento. E lo Stato non è tenuto a sottrarre risorse al sistema pubblico per sopperire all’insufficienza di mezzi dei singoli per soddisfare quella che diventa una “pretesa” individuale di iscriversi a una “prestigiosa” università privata. Tuttavia alcune di tali università sono parte di una rete che può offrire maggiore probabilità un impiego al termine degli studi, essendo sostenute dal mondo economico-finanziario, che attraverso di esse attua il reclutamento “meritocratico” di uomini educati alle proprie finalità, quasi sempre divergenti dall’interesse pubblico. Capita poi che alcuni degli uomini così selezionati siano scelti per guidare le istituzioni pubbliche e finanche gli Stati.

Il guaio è che con l’avvento di questo sistema meritocratico, emarginante e classista, il diritto dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi è stato abbandonato anche dalla “fazione” politica democratica, con effetti distruttivi che sembrano insanabili, ai quali, a modesto parere di chi ha scritto queste considerazioni, il mondo del diritto non presta sufficiente attenzione. Lo squid game continuerà sino alla sconfitta definitiva dei disperati senza futuro?

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2 commenti su “Squid game – Il veleno della meritocrazia nella Costituzione”

  1. Claudio Tani scrive “Nel più importante sistema organizzato per la crescita civile di una società, la morale aziendale ha sostituito l’etica pubblica, con effetti MAI SERIAMENTE considerati in termini di rispetto dei diritti (libertà di insegnamento, libertà della scuola, diritto allo studio, istruzione gratuita e obbligatoria, autonomia universitaria) racchiusi negli articoli 33 e 34 della Costituzione”. Vorrei dire sommessamente all’A., visto che segnala un problema così importante e a me caro, essendo tra quei tanti che invece da dieci anni a questa parte ne hanno scritto in libri, riviste scientifiche e anche in sedi divulgative, che il problema è stato considerato, e parecchio (l’associazione italiana dei costituzionalisti ha dedicato un intero convegno all’autonomia universitaria ad es. nel 2021), ma ciò non basta di fronte all’acquiescenza della politica ad un modello culturale ed una filosofia acriticamente fatte proprie da un’intera classe dirigente per ormai quattro decenni.. La competizione è stata interiorizzata nella psicologia di collettiva come principale metodo in qualsiasi ambito collettivo, l’aziendalizzazione di scuola e università hanno visto acquiescenti ed anzi protagonisti partiti, grandi sindacati, think tank. Con la pandemia si era palesato per un attimo quanto queste idee avessero lavorato nel tempo, andando a minare dall’interno il sistema sanitario nazionale e la scuola, ma ciò che era emerso sembra essere stato subito dimenticato. Continuiamo a parlarne, forse prima o poi qualcuno ascolterà.

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  2. Leggo soltanto ora il commento della Professoressa Roberta Calvano, che ringrazio per l’attenzione. Ma certo, era inteso che chi “non ha mai seriamente considerato” gli effetti della vittoria della moralità aziendale sull’etica pubblica e sui diritti fondamentali è quel sistema che entrambi contestiamo, non certo gli studiosi che come Lei si adoperano ogni giorno in ambito didattico, di ricerca e divulgativo per segnalarne i rischi. Su questo, come su altri argomenti, e l’elenco potrebbe essere lungo, ciò che manca è che il discorso accademico non riesce a trasformarsi in discorso pubblico. E la responsabilità principale è ovviamente della politica. Grazie per gli ulteriori spunti e per la segnalazione dei Suoi studi sul tema, in aggiunta a quelli che già sono apprezzati su questa Rivista. Claudio Tani

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