Riforme costituzionali per rafforzare l’esecutivo. Qualche riflessione

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di Roberto Bin*

La prima regola a cui dovrebbe attenersi chi avvia una riforma costituzionale è (a) chiarirne gli obiettivi e (b) individuare i congegni che ne impediscono il raggiungimento, e vanno perciò riformati. La Presidente del Consiglio ha dichiarato di aver ricevuto un preciso “mandato dagli italiani” per “dire basta ai governi costruiti in laboratorio, dentro il Palazzo” ed invece “legare chi governa al consenso popolare”. 

L’obiettivo dichiarato dalla Presidente del Consiglio sembra un po’ contraddittorio: se gli elettori le hanno affidato un mandato preciso, ciò significa che il Governo e il suo Presidente si sentono investiti da un voto diretto degli elettori. E così indubbiamente è: si può dire tutto il male che si vuole del sistema elettorale vigente, ma questo non ha impedito una chiara investitura elettorale del Governo attuale e del suo Presidente. Non c’è congegno da riformare, dunque, e perciò l’elezione diretta del vertice non è  necessaria a raggiungere questo obiettivo.

Ma c’è un altro obiettivo che viene di solito indicato come urgente, quello di assicurare la stabilità del Governo e l’efficacia della sua azione. Questo è un obiettivo del tutto condivisibile, ma significa spostare l’attenzione dai meccanismi che presiedono alla scelta di chi deve governare a quelli che rendono instabile e poco efficace il Governo, anche se indicato dal voto degli elettori. Ciò significa distogliere lo sguardo dal momento elettorale e concentrarlo sulla gestione degli affari di governo e sui congegni che la indeboliscono.

Bisogna quindi lasciare da parte le ipotesi di riforma in senso presidenziale o semi-presidenziale: tanto più che l’esperienza dei Paesi che la hanno adottata, e cioè gli USA e la Francia (ci sarebbero anche, per limitarci all’Europa, la Bielorussia e la Federazione russa, ma di solito non è così che funziona la comparazione), non è particolarmente edificante: né Biden né Macron vivono momenti facili e privi di ostacoli nella loro azione di governo. E non è una condizione contingente, ma strutturale: la “coabitazione” (l’espressione è francese, ma può adattarsi anche all’esperienza americana) di presidenti di un colore politico costretti a trattare con maggioranze politiche non omogenee è un problema ricorrente nei due paesi.

Che si può dire dell’ipotesi dell’elezione diretta del “Sindaco” o del “Governatore d’Italia”? Ipotesi non nuova (risale a Mario Segni, una trentina di anni fa), ma che deve fare i conti con un fatto: è un modello di “forma di governo” che non esiste in nessuna parte del mondo “conosciuto” (almeno a me). Israele la introdusse nel 1996 ma, visti i risultati prodotti, la abrogò nel 2002. Naturalmente si può dire che è il modello che regge i comuni e le regioni italiane, ma in nessuna parte è prescelto per governare uno Stato. E’ un modello da copiare, rectius, da inventare per la Repubblica italiana? No, per diverse ragioni. In primo luogo perché garantirebbe quello che oggi già può essere garantito, cioè la scelta elettorale del capo del governo. Non garantirebbe affatto però la “tenuta” della maggioranza e l’efficacia dell’azione dell’esecutivo. Da cosa dipendono questi due obiettivi che – ripeto – sono assolutamente condivisibili?

Il problema centrale e ineludibile è la coerenza della maggioranza politica che regge il Governo. La risposta dei fautori della formula “Sindaco d’Italia” indica subito la soluzione: introdurre a livello statale la clausola simul stabunt vel simul cadent, che tiene compatta la maggioranza con il ricatto dello scioglimento anticipato e di nuove elezioni. Ma se questa formula è stata efficace a livello locale (pur causando non pochi problemi) davvero consentirebbe al premier eletto direttamente di governare con una compagine governativa e una maggioranza compatte? Basta il ricatto di nuove elezioni per persuadere i politici a sostenere fedelmente il Governo? Non stimolerebbe invece la concorrenza tra potenziali leader a coagulare attorno a sé confraternite che, destituito il premier in carica, potrebbero a loro volta presentarsi a nuove elezioni? Chi terrebbe le forze politiche compatte e “fedeli” al capo?

E’ diffusa l’ammirazione per il sistema del “cancellierato” che vige in Germania. Ma occorre seriamente indagare quale siano le risorse che alimentano la proverbiale stabilità ed efficacia del governo tedesco, che è pur sempre una forma di governo parlamentare sorretta da un sistema elettorale proporzionale. Non bisogna soffermarsi alle apparenze e ai “simboli”. Il fatto che in Germania il cancelliere sia eletto (senza discussione!) dal Parlamento, su proposta del Presidente della Repubblica, e non nominato dal Presidente della Repubblica come in Italia e poi “fiduciato” dal Parlamento, è solo un fatto simbolico: Mattarella avrebbe potuto non nominare Giorgia Meloni visto il risultato delle elezioni? Che differenza ci sarebbe stata se fosse stata eletta, anziché “fiduciata”, dalle Camere?

Non è questo che segna la differenza, e neppure è decisiva la tanto lodata (in Italia) “sfiducia costruttiva”. Si sa che in Germania è stata usata una sola volta, ed anche in quella la sfiducia, che segnava il cambio della maggioranza, e stata seguita da un macchinoso quasi immediato scioglimento anticipato delle camere, voluto dal nuovo cancelliere (Khol) che, conscio di quale sia la regola aurea del governo parlamentare, volle subito avere il consenso degli elettori. Ma in Italia? 

Nella storia italiana il caso più recente di Governo battuto da una mozione di sfiducia risale al Governo Di Rudinì, nel 1892 (i due Governi Prodi caddero per una “questione” di fiducia posta dallo stesso Prodi per sfidare in campo aperto la sua maggioranza: un’altra storia). In tutte gli altri casi, i Presidenti del Consiglio rassegnarono le dimissioni per loro “spontanea” decisione. Anche il primo Governo Berlusconi si dimise “spontaneamente”, benché avesse giurato che mai lo avrebbe fatto. Quindi, a che servirebbe irrigidire la mozione di sfiducia?

Quello che rende il sistema del “cancellierato” tedesco stabile e perciò invidiabile sta altrove, non in questi congegni di “razionalizzazione” del sistema parlamentare. Sta nei partiti e, più precisamente, nella legge sui partiti (Parteiengesetz). Essa detta una disciplina molto analitica delle condizioni per cui un movimento politico può costituirsi in partito e come tale presentarsi alle elezioni: organi, procedure di formazione di essi, programmi, controlli e garanzie. I partiti, esordisce la legge, sono “una componente costituzionalmente necessaria di un ordinamento democratico e liberale”. Parole sante! E naturalmente devono essere finanziati con soldi pubblici, che si affiancano all’autofinanziamento. E’ appena il caso di ricordare che l’Italia è l’unico degli Stati UE che non finanzia i partiti politici: ne vediamo i risultati!

Solo i partiti che corrispondono alla disciplina legislativa possono presentarsi alle elezione: a loro sono richieste garanzie di “serietà” (Ernsthaftigkeit) nell’organizzazione, nel tesseramento e nei programmi. Ma c’è un di più: che i parlamentari eletti devono iscriversi nel gruppo parlamentare del loro partito; il sistema elettorale e il regolamento del Bundestag ostacolano la formazione di nuovi gruppi e, soprattutto, impongono a chi esce dal gruppo di appartenenza la perdita di status, servizi, uffici ecc. Insomma, è l’effetto opposto a quello prodotto dalla prassi interpretativa, e poi dalla riforma dei regolamenti delle Camere che hanno favorito e premiato lo sgretolamento dell’organizzazione dei gruppi parlamentari.

Ecco dove trae la sua stabilità il sistema del “cancelliere” tedesco! E poi si aggiunga, ovviamente, che in Germania non ci sono due Camere “politiche” e rappresentative: questo è un altra particolarità tutta italiana, purtroppo! Per rafforzare il Governo e potenziarne l’azione, l’eliminazione (o la trasformazione radicale) del Senato sarebbe senz’altro un passo necessario.

A parte il problema della seconda Camera, ecco la riforma costituzionale che mi sembrerebbe auspicabile: l’aggiunta all’art. 49 di un secondo comma in cui si dicesse che una legge “rinforzata” (come la legge che disciplina il bilancio, con un oggetto specifico e approvata con maggioranza assoluta) disciplina lo statuto, l’organizzazione e le procedure decisionali dei partiti e il loro finanziamento; e che solo i partiti che si presentano alle elezioni possono costituirsi in gruppo parlamentare. Ovviamente una riforma del genere, pur apparentemente così contenuta, troverebbe l’opposizione di tutte le “anime” politiche che popolano le aule parlamentari trasformandole nel vestito di arlecchino. Non si può pretendere che i tacchini fissino il giorno di Natale (lo scrivevo esattamente trent’anni fa a proposito delle riforme costituzionali di allora!), per cui ci vorrebbe un “patto costituente” che unisca i partiti maggiori, quelli “radicati”, quelli che rispondono ai requisiti di “serietà”.

Qualcosa si può certo fare anche sul piano delle procedure legislative, seguendo la “riforma Renzi” nel prevedere canali legislativi privilegiati per le proposte più importanti del Governo. E mi sembrerebbe utile e consigliabile anche prevedere che il disegno di legge di bilancio, presentato dal Governo, non sia emendabile dal Parlamento: le Camere lo discutono, suggeriscono modifiche che il Governo può accogliere in un testo modificato del suo ddl, e questo è sottoposto al voto. Il risultato sarebbe lo stesso che oggi si ottiene con la prassi scandalosa del maxi-emendamento approvato con voto di fiducia: ma almeno smetteremmo con l’abuso delle forme procedurali e la produzione di leggi in articolo unico e un migliaio di commi privi persino di intitolazione! E poi, naturalmente, questo non impedirebbe al Parlamento di modificare in seguito la legge di bilancio con singole leggi di settore né, anzi sarebbe auspicabile, stringere con maggior severità ciò che nel bilancio può essere inserito. Insomma, è uno strumento di governo che potrebbe essere molto utile e non difficile da progettare con la dovuta accuratezza.

* Il testo riproduce e sviluppa qualche considerazione svolta nel seminario Riforme costituzionali e forme di governo. Un confronto (CNEL, 17 maggio 2023). 
La vignetta è ovviamente di Altan
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3 commenti su “Riforme costituzionali per rafforzare l’esecutivo. Qualche riflessione”

  1. Il prof Bin propone di trasformare la democrazia parlamentare rappresentativa in una partitocrazia da modello tedesco. La partitocrazia tedesca si fonda sulla dottrina promossa negli anni 50 da Leibholz (allora giudice del BVerfG) per giustificare le liste bloccate (prima sentenza nel 1956 se ricordo bene), svuotando il principio del libero mandato, trasformandolo (seguendo Kelsen) in mandato di partito. Visto che siamo incapaci di creare la democrazia rappresentativa nel parlamento (Weimar insegnando), proviamo a creare almeno un simulacro di democrazia nei partiti, organizzazioni da regolare severamente, dalla fondazione (creando un regime di autorizzazione gestito magari dalla C costituzionale) al finanziamento (…), dalle elezioni (dove permettiamo liste bloccate e ordinate da qualcuno) al parlamento (dove gli eletti devono seguire una ferrea disciplina del loro gruppo legato a doppio filo attraverso la lista bloccata a coloro che di fatto comandano nel partito). E tutto questo … in Italia. In bocca a lupo! (PS sono abbastanza d’accordo con il resto dell’articolo).

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  2. Buongiorno al professor Roberto Bin ed ai lettori, la Repubblica Italiana dopo oltre 70 anni di sperimentazioni partitiche è giunta al limite del 50% della partecipazione Popolare talvolta anche sotto.
    All’art.64C. è definita la condizione minima per la validità d’assemblea rappresentativa ch’è poi la medesima dell’art.75C. inerente l’esercizio della Sovranità Popolare conseguendo, per banale gerarchia delle fonti, che qualsiasi altra assemblea Popolare o rappresentativa risulta NON valida se NON sono realizzate le condizioni minime di cvi sopra, tutte le altre maggioranze indicate in Costituzione sono “speciali” per l’art.148C. ad esempio: due terzi per l’assemblea delegata oppure 50+1 dei SI per la Promulgazione Popolare Sovrana.
    Umano sbagliare, è antica storia, esiste però un solo modo per emendare errori: trovarli, riconoscerli da chi pertiene e porvi rimedio, ho più volte segnalato anche altrove prima che in questo sito che nella Costituzione Italiana Originale NON esistono votazioni valide senza quorum minimo del 50+1 percento dei Componenti.
    Saluti e cordialità enzo bargellini Santarcangelo di Romagna 26 maggio 2023.

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