Forse la volta buona? Istruzioni scettiche per riforme costituzionali (e non solo) finalmente condivise

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di Salvatore Prisco

Una premessa. Il giorno 17 maggio 2023 si è tenuto presso il CNEL un incontro tra costituzionalisti, organizzato dalla rivista Federalismi.it e la cui registrazione si può vedere e ascoltare grazie a Radio Radicale, dopo la recente ripresa di iniziativa in materia da parte della presidente del Consiglio e mentre si sviluppano analoghe attività di ascolto e proposta, da parte sia della ministra per le Riforme Costituzionali e la Semplificazione, sia del ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, in quest’ultimo caso ai fini dell’attuazione dell’art. 116, III comma della Costituzione, su richiesta di alcune regioni ordinarie.

Un primo appuntamento era stato chiesto dalla leader e dai segretari dei partiti di maggioranza (evito di precisarne i rispettivi incarichi istituzionali, essendo la materia toccata squisitamente parlamentare e del resto la sede prescelta allo scopo era correttamente la Camera dei Deputati) per ascoltare le idee delle opposizioni in proposito, mentre in questa occasione hanno potuto esprimersi autorevoli studiosi, portatori in passato di posizioni diverse, confermate peraltro anche ora, su Riforme costituzionali e forma di governo. Un confronto.

Chi scrive era assente, non essendone stato informato, ma poco male: non si sarebbe certo potuto invitare e ascoltare tutti gli esperti ―  i soli iscritti all’associazione di settore sono ormai tanti ― e d’altra parte il (periodico) dibattito è appena agli inizi, in questa sua nuova stagione. Tanto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Mantovano, che ha introdotto la discussione, quanto il professore Pitruzzella, che ne era il moderatore “tecnico”, hanno del resto invitato ad arricchire il quadro delle riflessioni sul tema posto all’attenzione, ossia quello di come riformare la forma di governo.

Raccolgo perciò la sollecitazione a intervenire, con una duplice avvertenza: per uniformarmi a quanto era stato richiesto ai  partecipanti all’incontro romano, mi sono auto-assegnato il limite dell’essenzialità argomentativa e dunque della brevità del testo, che (ove fossi stato chiamato a un intervento orale in quella sede), avrei comunque sintetizzato; questo ne spiega anche la sostanziale mancanza di rinvii dottrinali e il mero richiamo ― non compiutamente precisato ― dei pochi che invece è stato necessario effettuare in una forma sintetica, che peraltro consente a chi lo desideri di reperirli facilmente.

1. Pare che sia stato lo zar Nicola I a definire a metà Ottocento, in un colloquio con l’ambasciatore britannico in Russia sir Georges Seymour, il declinante impero turco come «un homme malade, un homme très malade». Doveva trattarsi anche allora di una pandemia con molte varianti se, a partire da un articolo apparso sul New York Times il 12 maggio 1860, con l’aggiunta «dell’Europa», ne sono stati via via dichiarati affetti anche molti Paesi del nostro continente.

Che l’Italia ci avesse messo del suo per trovarsi in cattiva salute fin dalla rinascita repubblicana era stato il sospetto di molti, alla lettura della nuova Costituzione: una testa piena di grandi principi, rivolta al futuro,  con dentro una ben nota “polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione”; un corpo organizzativo che però guardava indietro, per il peso della storia recente e per diffidenze reciproche contingenti fra le forze politiche (in sostanza: se i comunisti vanno al governo, lo lasceranno poi, allorché fossero sconfitti in nuove elezioni?), dunque non in grado di tenere dietro ai sogni; organi di garanzia disegnati a maglie tanto larghe che in futuro si sarebbero potuti adattare a ruoli non solo di controllo, ma attivi e propulsivi, com’è poi effettivamente accaduto; un regionalismo asfittico, a direzione centralista, il che era allora indispensabile a tenere assieme tutto. Al di sotto della Carta, si portava lealtà a partiti e sindacati forti, più che a uno Stato che fosse avvertito come legittimo e vicino, protetto comunque da una magistratura conservatrice e formalista. Se il Governo fu nella prima stagione repubblicana stabile (non lo si dice di singole compagini, ma di una formula politica), questo avvenne perché i rapporti di forza tra i partiti e l’ombrello statunitense lo proteggevano, con in più una guida salda. Le preoccupazioni di un suo rafforzamento attraverso strumenti istituzionalizzati, che alla Costituente avevano ispirato l’approvazione dell’ordine del giorno Perassi, svaporarono così rapidamente, ma sapevamo tutto, fin da subito, dei punti di forza e di debolezza, benché ogni tanto sia utile che qualcuno lo ricordi, soprattutto perché il succedersi delle generazioni rende necessario raccontarlo ai più giovani (come da ultimo fa Raffaele Romanelli, L’Italia e la sua Costituzione. Una storia, Laterza, 2023).

Quando perciò alla nutrita assemblea romana di professori il sottosegretario ricordava che un qualunque titolare pro tempore del vertice dell’Esecutivo che vada all’estero sente aleggiare attorno a sé lo scetticismo dei suoi colleghi di rango, disposti a credere solo per cortesia personale che dopo uno o due anni lo ritroveranno allo stesso posto, non diceva agli studiosi nulla che essi non conoscano già bene e su cui non siano ormai  trasversalmente disposti (ecco forse la novità) a convenire.

Essendo perciò tutti concordi a rafforzarne formalmente la posizione, come pare, potrà ripartire da qui il vecchio gioco del “riformiamo la Costituzione”, con la speranza che l’obbiettivo sia finalmente raggiunto?

2. Piano. Ci è stato da tempo ricordato da Massimo Luciani, in un saggio del 2001, che l’oggi visibile crisi della rappresentanza è in realtà preceduta da quella del rappresentato: nel Paese si registra ormai ― e si noti che lo scritto risale a più di vent’anni fa ― “la perdita delle identità collettive e (addirittura) individuali; lo smarrimento del senso del legame sociale; la volatilità dei ruoli sociali, tutto rende problematica la stessa identificazione del soggetto da rappresentare. Il difficile, insomma, è comprendere ‘ chi’ e ‘cosa’ viene rappresentato, una   volta che lo si rappresenta, perché la stessa identità del demos è labile (…). Proprio questa crisi, tuttavia, rafforza — paradossalmente — la necessità della rappresentanza, poiché, nello sfaldamento del rappresentato, la sede parlamentare diventa il luogo in cui si tenta, in qualche modo, di ridurre ad unità i dispersi brandelli di un pluralismo troppo disarticolato”.

Oltre quattro lustri dopo queste parole, occorre riflettere bene su come rafforzare la posizione costituzionale di guida del Governo nelle presenti condizioni storiche, ossia con partiti ― la prima sede di mediazione fra interessi frazionali, per proiettarli verso la definizione di un indirizzo politico generale negli organi rappresentativi ai quali compete farlo ― evaporati e sempre più “personali”, di cui sono ad esempio perlopiù chiusi (o non sono mai stati aperti) i luoghi di aggregazione in cui i rispettivi militanti si incontravano in passato fisicamente, chiamando a rapporto i loro eletti e accalorandosi nelle discussioni, esempio trasposto e parziale del modo originario di sentirsi membri di una polis.

Si è esaltato all’opposto in questi anni l’esercizio della democrazia im-mediata e successivamente esultato per la possibilità di indire assemblee di attivisti anche meramente virtuali o almeno in modalità “mista”. Come ognuno peraltro sa e come attestano le statistiche, in Italia si stampano molti libri, ma se ne leggono pochi e quelli meglio collocati nella classifica delle vendite sono sovente i più evasivi, mentre anche trovare un’edicola è diventata un’impresa; i giornali e le informazioni ricevute online, dal loro canto, puntano a colpire l’emotività con titoli ad effetto e notizie fornite in forma semplificata, sacrificando più meditati contributi di riflessione, per loro natura non adatti al mezzo e a una sua mera scorsa rapida e superficiale. Il nostro è del resto il tempo in cui si scambia per partecipazione consapevole il dire sì o no a proposte che vengono somministrate dall’alto, il che da qualche tempo si può fare perfino con un semplice clic dal computer di casa, nell’illusione di tornare all’antica Atene attraverso le risorse dell’elettronica.

In un celebre passo della Dottrina della Costituzione, cent’anni fa (a pag. 322 della traduzione italiana del 1984 da Giuffrè), Carl Schmitt aveva ― com’è noto ― con stupefacente, lucida preveggenza già prefigurato questa possibilità tecnica, aggiungendo che la somma algebrica di pareri così sondati non rende peraltro il risultato una decisione politica in senso proprio. Nello stesso anno uscì da noi anche la traduzione de La vita e i tempi della democrazia liberale del politologo canadese Crawford Brough Macpherson, che da posizioni marxiste formulava una profezia analoga, per lui in ogni caso più facile, atteso che le prime applicazioni tecnologiche in tale senso erano ormai già alle viste.

In siffatto contesto, in definitiva, è facile rischiare di fare plebiscitare come capo il demagogo di turno da parte di individui isolati, che non sono più frazioni di un popolo organizzato che “cresce” politicamente (questa la funzione pedagogica che i partiti una volta svolgevano nelle classiche “sezioni”), ma acritici e voraci compulsatori di sondaggi e spesso consumatori di fake news prese per buone, che inoltre ― al momento di recarsi alle urne ― si astengono dal farlo in una misura ormai allarmante, per sfiducia nella rilevanza del proprio voto.

Ai costituzionalisti incombe dunque innanzitutto l’obbligo (io direi l’impegno civile) di tenere presente tale sconfortante panorama, senza arrendersi all’idea che esso sia ineluttabile, cioè rassegnarsi a una tendenza della quale si pensa pessimisticamente che non possa più essere invertito il corso.

Rivitalizzare la buona politica: questa la prima e vera urgenza. Perciò occorre innanzitutto una legge elettorale stabile, che non venga cambiata secondo le convenienze del momento di chi la manipola per adattarla ai guadagni a breve sperati: una proporzionale che assecondi identità collettive da ritrovare, ma con soglia di sbarramento sufficientemente alta per sottrarsi ai condizionamenti determinanti di piccoli partiti, o con modesto premio di maggioranza, non però con tutt’e due insieme. Bisogna scegliere, la somma di entrambi gli espedienti distorcerebbe in misura eccessiva la fotografia politica di un Paese nel momento in cui essa fosse scattata. Né va bene, ad esempio, che, come rimedio alla declinante crisi della partecipazione elettorale, si decida che un sindaco sia eletto al primo turno se raggiunga la quota del quaranta per cento dei voti validi, come prevede la legge siciliana per gli enti locali, soluzione che alcune forze politiche vorrebbero trasporre nella corrispondente legge elettorale comunale dell’intero Paese, eliminando il successivo, eventuale ballottaggio: sarebbe come dire che, in assenza di atleti che superino i due metri, basta truccare le misure, stabilendo che quella di un metro equivale al doppio, così che vi siano molti più campioni di salto in alto.

Quanto ai partiti, occorre attrarre al loro interno ― e dunque non usarle contro di essi ― le possibilità strumentali offerte dalla tecnica: la virtualità delle riunioni ne potenzia la forza di emersione di uno spirito comune se è un’eccezione, come le lezioni universitarie sono veramente tali solo se tenute in presenza, non quando abitualmente svolte da remoto. In entrambi i casi, ritrovarsi in un afflato comune è l’effetto dal convergere di tante voci nello sforzo dialogico del momento: come dicevo sempre ai miei studenti, l’umore e le curiosità dell’aula sono decisivi nel tono di una lezione, perciò quelle registrate e poi somministrate alla bisogna, come cibi surgelati o precotti, da scongelare e riscaldare nel forno a micro onde, sono inefficaci.

Fondamentali, ancora, una legge di attuazione dell’art. 49 per controllare la correttezza della loro democrazia interna, disciplinata in primis dai rispettivi statuti e una sulla disciplina dei gruppi di pressione, giacché la fattispecie del “traffico di influenze illecite” è evanescente e rischiosa, se non si conosce quali siano invece quelle lecite (se posso rimandare a me stesso, ho trattato tali aspetti in un mio contributo che si trova negli Scritti in onore di Pietro Ciarlo) e la rivisitazione ulteriore dei regolamenti parlamentari, imposta giocoforza dal taglio del numero dei componenti delle assemblee.

Alla fine, tutto questo può condurre a stabilizzare e semplificare il quadro politico, con formazioni che si riconoscano una legittimazione reciproca nei ruoli di volta in volta scambievoli di maggioranza e opposizioni, ossia realizzando un possibile bipolarismo non primitivo, come quello che abbiamo sperimentato nel recente passato e riassorbendo il populismo, almeno nel medio periodo.

L’ulteriore conseguenza virtuosa che si potrebbe ragionevolmente attendersene sarebbe quella di recuperare almeno in parte l’attuale troppo alto tasso di astensionismo, facendo ritrovare il perduto o almeno depresso stimolo a testimoniare un impegno di cittadinanza attiva. Tale obiettivo potrà essere approssimato anche assicurando di potere scegliere tra i candidati della propria circoscrizione di residenza (naturalmente con garanzia di personalità e segretezza, dunque di libertà del voto) a chi fosse in un luogo diverso e lontano da essa al momento di una consultazione: si potrebbe ad esempio prevedere allo scopo che chi intende esercitare tale diritto lo faccia nella sede comunale del luogo in cui si trova temporaneamente, il cui ufficio trasmetterebbe ― senza conoscerne il tenore ― l’espressione di voto a quello che deve riceverlo.

Scrivo questa nota mentre i telegiornali trasmettono più volte le immagini della fatica in cooperazione di tanti giovani sui luoghi dell’alluvione in Romagna, che mi ricordano un’analoga loro fattiva presenza a Firenze, quando avevo quattordici anni e non ero lì, perché troppo piccolo, ma fummo sorpresi e vivemmo disagi, coi genitori e mio fratello, nel ritorno a casa da una vacanza toscana. Per un motivo nobile e concreto, cioè per tornare a un ambiente vivibile e per solidarietà umana, non per astratte fumisterie ideologiche, essi sanno dunque ancora mobilitarsi e questa è una buona notizia: sono appunto loro la generazione che ― quando modifiche costituzionali fossero in ipotesi state approvate e si sedimentassero ― dovrebbero gestirne una nuova stagione di applicazione.

Il diritto non può sostituirsi all’innesco dei processi politici reali, ma concorrere a incentivarne alcuni e a scoraggiarne altri sì. La vera causa dell’instabilità dei governi, quando sono necessariamente di coalizione per una storia politico-costituzionale qui sì innegabile e non superabile con atti di volontà, è insomma ― ecco il punto essenziale dal quale deve partire una riflessione in merito ― la loro mobilità interna, perché vi operano due pulsioni opposte: quella coesiva, per prevalere sulle coalizioni avverse e quella concorrenziale nei confronti degli alleati, perché per ciascuna forza è vitale posizionarsi al meglio in attesa del prossimo appuntamento con gli elettori. Occorre allora, a tenerle insieme, una personalità capace di usare alternativamente il bastone e la carota, di esercitare insomma effettiva leadership: ma quelli si possono comprare al supermercato, questa no, giacché piuttosto emerge nel vivo del cimento e non è auto-attribuita, ma frutto del riconoscimento altrui.

3. Solo a questo punto, o comunque senza dimenticare siffatto piano logicamente e nella sostanza preliminare di intervento, si potrà mettere mano a rivedere la forma di governo, ma senza il barocchismo e le superfetazioni di commissioni speciali, che in passato non ha portato fortuna e senza riconvocare una Costituente, perché ogni inciampo del processo riformatore in tale organo si ripercuoterebbe su quelli ai quali restasse affidata l’ordinaria gestione della vita politica e viceversa. L’art. 138 basta, quando si fosse raggiunto finalmente sulle priorità sostanziali un idem sentire de Re Publica; e se invece esso non emergesse, di che cosa ― ancora una volta vanamente convocati ― parleremmo?

Detto questo, il presidenzialismo statunitense è una bandiera che qualcuno agita per propaganda, ma sospetto che nessuno ― o forse solo qualche astratto elucubratore da scrivania ― lo creda davvero trapiantabile da noi: un Paese ancora aspramente diviso dalla polemica politica quotidiana ha bisogno semmai di un arbitro saggio e del resto eleggere un Capo dello Stato governante ne implicherebbe non solo un’investitura popolare diretta, da sola non significativa (si veda subito oltre), ma anche altri interventi di ridisegno del ruolo assai incisivi, dalla necessaria sottrazione a lui del potere di nomina di parte dei giudici costituzionali a quella di presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura. La mera sua elezione diretta, però con la contemporanea previsione della nomina a premier della personalità più votata dall’elettorato, alla quale trasferire altresì il potere di decidere lo scioglimento anticipato delle Camere (il vero piatto ricco della tavola imbandita, cui alcuni puntano) farebbe invece regredire l’inquilino del Quirinale alla patetica figura del maggiordomo di palazzo che alla Costituente paventò Vittorio Emanuele Orlando, o innescherebbe potenziali conflitti col Presidente del Consiglio, se a questo impallidimento il primo si ribellasse.

L’obiezione di una sua difficile esportabilità al di fuori dell’ambiente in cui è nata vale anche a proposito dell’introduzione in diritto (nei fatti peraltro talora da noi rasentata, ma a concretarla in situazioni eccezionali basta l’elasticità dell’attuale figura, senza irrigidirne i caratteri) della variante semipresidenziale, solo la prima possibile soluzione “francese” che taluno vorrebbe oggi esplorare; presidenzialismo statunitense e semipresidenzialismo francese sono del resto entrambi oggi in affanno, perché nei rispettivi Paesi l’establishment tradizionale o resta sul chi vive per respingere nuovi assalti populisti dei sostenitori rabbiosi del presidente sconfitto che medita la rivincita o resta affidato a un presidente con un partito vago che si difende con crescente difficoltà dalle estreme ormai parlamentarizzate, sulle quali non ha dunque giocato l’effetto centripeto e solitamente per loro penalizzante del doppio turno elettorale, nonché  dai movimenti di piazza, riprova ulteriore che anche altrove la malattia delle istituzioni è solo il riflesso della crisi della rappresentanza.  

Pure di conio originario transalpino è infatti l’altra opzione, che avrebbero voluto a suo tempo il Club Jean Moulin, Pierre Mendès France e il primo Maurice Duverger, in opposizione al disegno poi prevalso per la V Repubblica di Charles De Gaulle e di Michel Debré. Non pare invece che la variante britannica di tale modello sia su questo punto decisivo sostanzialmente coincidente con essa, come pensa al contrario qualcuno: il premier può qui mutare senza passare per nuove elezioni, giacché quello che è essenziale davvero a Londra  è conquistare il ruolo di controllo del partito di maggioranza e, una volta che questo fosse stato perso in favore di un altro suo esponente, questi sarà automaticamente il nuovo primo ministro, senza dunque una previa, necessaria investitura elettorale.

La pubblicistica comune e alcuni colleghi, memori appunto del nostro attuale modo di eleggere il primo cittadino nei comuni, hanno “tradotto” da noi lo schema all’epoca sconfitto a Parigi sotto l’etichetta del “sindaco d’Italia”, essendo dunque favorevoli a nazionalizzarlo. Il punto essenziale cui si mira in questo neo-parlamentarismo è l’abbassamento del baricentro fiduciario, per così dire: prima di essere sancito nella sede assembleare, esso è frutto di un collegamento tra primo ministro e corpo elettorale, di cui il Parlamento prende atto e che formalizza.

Se però questa è la preoccupazione, eccessiva ne sarebbe la conseguenza: una depressione della rappresentanza, alla quale infatti negli enti locali rimane davvero poco da fare e che può sfogarsi solo suicidandosi, ossi facendo tornare a casa il primo cittadino, ma assieme  ― l’ossessione è il simul stabunt, simul cadent ― azzerando se stessa.

Sia chiaro: nei comuni questo va anche bene, per stabilizzarli, il negativo è nel cattivo rendimento del modello alla crescita di scala. Viene fatto di ricordare al riguardo l’ironia di Giovanni Sartori, in un articolo sull’argomento del 2003 sui “riformatori costituzionali del terzo piano” (nel senso di non partire dal basso e dalla radice dei problemi, ossia appunto dall’assetto dei partiti e dal sistema elettorale) e del resto ci sarà pure una ragione se l’unico tentativo concreto in tale direzione, quello israeliano, venne rapidamente abbandonato.

Si può invece ottenere tale effetto di collegamento tra impulso politico da parte degli elettori e sua traduzione in un indirizzo dalla durata meglio protetta in modo più morbido e in maggiore accordo con la nostra storia costituzionale, evolutivamente considerata.

Si potrebbe infatti introdurre un investimento fiduciario a Camere riunite (previo incarico da parte del Presidente della Repubblica, dopo le consultazioni, così raccogliendo l’indicazione sostanziale di forze politiche orientate a garantirle una base di sostegno) unicamente della personalità emersa dai risultati elettorali quale potenziale candidato a formare il Governo, accompagnato dalla possibilità che avrebbe di nominare e revocare ministri e dalla previsione della sfiducia costruttiva, come garanzia di prevenzione di “ribaltoni” tramati senza assumerne la responsabilità e quindi l’eventuale costo verso l’elettorato. Questa soluzione troverebbe un’eco cronologicamente lontana, ma sistematicamente coerente, nella proposta originaria avanzata in tema, alla Costituente, da Egidio Tosato, ancorché, come noto, egli avesse poi sostenuto in tema di forma di governo anche una variante più forte, che prevedeva addirittura l’intervento del corpo elettorale per eleggere il Presidente della Repubblica, in caso di stallo protratto dell’elezione parlamentare dell’organo. In questo senso, comunque, non è certo abusivo vedere in tale soluzione una prefigurazione del modello tedesco del Grundgesetz del 1949, piuttosto che sentircene noi tributarî.

Ha ragione Roberto Bin nel suo ultimo intervento: il sistema dei partiti tedesco è ben altrimenti assestato e razionalizzato rispetto al nostro. Il senso delle sue riflessioni al riguardo concorda dunque con quanto suggerivo sopra, ossia che occorra allora appunto rafforzarlo e disciplinare la vita interna delle forze che lo compongono, mentre  ― a proposito del ricorso lì solo eccezionale alla sfiducia costruttiva ― mi pare di potere dire che un’arma si detiene per difesa personale sperando di non doversene servire: anche la consapevolezza che tale eventualità esiste come minaccia concorre cioè alla prudenza dei comportamenti degli attori politici.

4. Concludo su un punto al quale tengo particolarmente, perché gli eventi dell’ultimo triennio hanno imposto a tutti di pensarci e personalmente credo di avere intuito e scritto tempestivamente che quanto intendo adesso richiamare in breve all’attenzione avrebbe costituito un problema di non poco peso, perdipiù destinato a cronicizzarsi. Se si riapre una stagione di riforme costituzionali, occorrerebbe cioè tenere presente anche un aspetto diventato purtroppo ineludibile nel momento storico in cui ci troviamo a vivere.

Siamo appena usciti da una pandemia, della quale notizie di stampa provenienti dall’Oriente inducono peraltro a immaginare una coda ancora pericolosa e osserviamo inondazioni, frane, vittime, distruzioni di beni pubblici e privati e un’economia disastrata in un territorio localizzato del Paese, con regioni confinanti coinvolte, sia pure in parte minore e altre ancora che temono (e tremano) di potere fare la stessa fine. I conflitti in proposito del recentissimo passato tra Governo e poteri regionali e locali si riproducono oggi, nel calcolo che forze politiche di segno diverso fanno ― tra Centro e periferia ― sui futuri dividendi politici che figure commissariali espresse dall’una o dall’altra di esse potrebbero trarre dall’impiego di ingenti risorse economiche da investire, per fronteggiare, come ieri l’emergenza sanitaria, ora quella ambientale.

Siccome questo sarà purtroppo il prevedibile contesto anche del nostro avvenire, non possiamo più esimerci dal considerare seriamente la necessità di introdurre in Costituzione un modello di gestione delle emergenze ambientali e sanitarie simile a quelli di cui del resto dispongono altre democrazie costituzionali mature a figurino parlamentare, con autonomie territoriali e funzionali costituzionalmente garantite, come è il nostro. Inevitabilmente, un assetto del genere finisce con l’accentrare e tendenzialmente semplificare (per esigenze di immediatezza di reazione agli eventi avversi) la catena di comando / esecuzione degli interventi e potrebbe dunque sembrare che si stia qui contraddicendo il discorso finora svolto, che non andava nella direzione di rafforzare in modo tranchant il vertice monocratico dell’Esecutivo, anche se da ultimo ho suggerito come si potrebbe farlo invece in modo non troppo traumatico, rispetto alla nostra storia costituzionale.

A ben vedere, è vero però il contrario: proprio la torsione monocratica e l’accelerazione delle azioni di contrasto a catastrofi in corso che giocoforza si produrrebbero impongono di identificare anche forme, modi, tempi e controlli, ossia bilanciamenti essenziali in situazioni del genere; solo uno schema di cooperazione tra organi e livelli istituzionali, in primis ovviamente quelli della protezione civile e dei corpi militari coinvolgibili a protezione delle popolazioni in ragione della loro specializzazione, nonché tra apparati pubblici e volontariato da organizzare, con commissioni parlamentari speciali riunite in permanenza o convocabili ad horas e prontezza di sindacato giudiziario e costituzionale di atti impugnati, rassicurerebbero di non fuoriuscire, anche in condizioni estreme, dalla logica e dalla pratica della democrazia, che in definitiva è esercizio di diritti in un quadro complessivo di adempimento di doveri, vale a dire solidaristico, alla bisogna.

Non basta tuttavia affidarsi per tale obiettivo alla buona disposizione degli animi: su questi aspetti occorre ormai un’attenta ed equilibrata legge costituzionale. Anche quest’ottica è un modo per discutere di forma di governo da salvaguardare, perché è da come una Costituzione organizza preventivamente il contrasto a eventi in apparenza improvvisi, che investono la comunità in guisa accelerata e tumultuosa, che si capisce in quale modo intenda il governo nella normalità.

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