La malattia dell’Europa – Un punto di vista fuori dalla cronaca

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di Claudio Tani

   « La maladie de l’Europe est de ne croire à rien et de prétendre tout savoir. Mais elle ne sait pas tout, il s’en faut, et, à juger par la révolte et espérance où nous sommes, elle croit à quelque chose : elle croit que l’extrême misère de l’homme, sur une limite mystérieuse, touche à son extrême grandeur. La foi, pour la majorité des Européens est perdue.» (Albert Camus, Réflexions sur la guillotine, in Réflexions sur la peine capitale, con Arthur Koestler, 1957, Calmann-Lévi, 1979, 166 ss.).

 

1. Razzismo, religione e politicaDouglass, cristiano ed ex schiavo liberato, sfidava il razzismo scientifico del suo tempo e contestava l’esclusione “ellenomaniacale” dell’Africa dalla narrazione occidentale sulla storia della civiltà. La sua appartenenza religiosa non lo rendeva cieco di fronte alla complicità del cristianesimo con la pratica della schiavitù: “Se dovessi mai tornare alla condizione di schiavo, la calamità più grande che potrebbe capitarmi, dopo questo, sarebbe di diventare schiavo di un padrone religioso. Perché, di tutti i padroni di schiavi che abbia mai incontrato, quelli religiosi sono i peggiori.“ (F. Douglass, 1855, My Bondage and My Freedom, cit. da P. Gilroy in The Black Atlantic, Ed. it. 2019, Meltemi, 152).

    Quel “divertimento tutto particolare” che sono le missioni religiose, con i preti e i vescovi “ricchi e orgogliosi… grossi pedanti, molto istruiti” che credono “con importanza e serietà nella dignità della loro ottusa morale, nel loro diritto di fare prediche”, al seguito di colonizzatori, “si diffondono per tutta la terra, penetrano nelle profondità dell’Africa per convertire anche un solo selvaggio, e a Londra si dimenticano di milioni di selvaggi per il fatto che questi non hanno di che ripagarli” (F. Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, 1863, Ed. it. 1993, cap. V). Dostoevskij, sul suo viaggio in Europa che lo avrebbe portato a Parigi, Milano, Venezia e Vienna, qui scriveva di Londra e quindi dei preti e dei vescovi anglicani.

   Vista sotto questa luce la relazione tra cristianesimo e colonialismo, viene in mente Hegel:“Religione e politica hanno fatto di nascosto uno stesso gioco: e la prima ha insegnato ciò che il dispotismo voleva, il disprezzo per il genere umano” (Hegel a Schelling, 16 aprile 1795, in Lettere, G.W.F. Hegel, 1972, Bari, Laterza 1972, vol. I, 15 ss).

  

2. Oggetti anonimiMarlow (J. Conrad, Cuore di tenebra, 1899), esperto capitano di marina, partito dall’Europa per risalire il fiume Congo con idee di onestà, onore, rispetto per la persona umana, si era ritrovato a fare i conti con la corrotta e brutale società dei bianchi e la mostruosità del colonialismo, che non stava soltanto nello sfruttamento degli indigeni, gente fiera e tutt’altro che “poveri negri”, ridotti a rottami in un massacrante lavoro dal cinismo dei bianchi, il cui unico scopo era di fare carriera e di arricchirsi a qualsiasi prezzo. Marlow avrebbe scoperto che quella “mostruosa” terra non era abitata da “inumani”. Gli inumani erano i colonizzatori che si spartivano il “Grande corpo dell’Africa”. La stessa sofferenza di Flory, angloindiano, commerciante di legname (George Orwell, Giorni di Birmania, 1934) contro la violenza razzista e l’ottusa, ipocrita società colonialista.

    Oggi i rottami, che se fossimo onesti chiameremmo “nemici”, restituendo loro almeno la dignità di persone (nel bello e sentito reportage di Maurizio Pagliassotti, La guerra invisibile-Un viaggio sul fronte dell’odio contro i migranti, Torino 2023), fuggono dai loro mondi devastati e arrivano, decimati lungo il viaggio, in Europa. E l’Europa cosa fa di questa umanità che non sa nemmeno dove si trova e dove la stanno portando? Fa accordi sulla spartizione dei corpi.

    Gli Stati membri si rimpallano i richiedenti asilo, “in orbita”, con lo scopo di contrastare il cosiddetto “asylum shopping”, o aggirano il divieto di respingimenti collettivi, inventando l’“esternalizzazione” delle frontiere. Per il diritto europeo i migranti non sono soggetti giuridici, ma oggetti di scambio.

    I migranti sono portatori di culture e di pratiche che, secondo i concetti di libertà e di cittadinanza delle nostre presunte democrazie europee, non possono essere autorizzate.

    I migranti per tutti noi sono per definizione non giuridica, ma propagandistica, “clandestini” e “illegali” già prima di uscire dalle loro case e prima di imbarcarsi. Li chiamiamo così senza pensarci. Viene in mente Roland Barthes nella Lezione inaugurale al College de France, 1977: “La lingua è fascista non perché impedisce di dire, ma perché obbliga a dire”.   

   Sull’acqua non ci sono soltanto piccoli gommoni o barconi malmessi. A livello mondiale, siamo passati dalla logistica delle navi negriere a quella dei container. Chi è sull’acqua è un oggetto confinato nello stesso anonimo spazio giuridico un tempo occupato dagli schiavi, ossia da persone che sono nella condizione di non poter trovare identità in nessun territorio di uno Stato nazionale.

    Senza documenti che ne attestino l’identità il migrante è un oggetto anonimo, senza diritti, senza un suo posto nel mondo.

    In Occidente tutta la politica, di destra e di sinistra, manifesta la stessa cultura della modernità coloniale, espressione di un’economia politica basata su una costituzione fondamentalmente razziale.

    Anche la Giustizia fallisce. L’art. 2, l’art.3 e l’art. 10 della Costituzione, l’art.33 della Convenzione di Ginevra e l’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sono ridotti a illusioni per i preamboli politici degli accordi internazionali e per qualche sentenza destinata a essere ignorata dalla politica.

    L’Unione europea paga tutti, i buoni e i cattivi, per contrastare il diritto, per noi occidentali sacro, di libertà di movimento. Ovviamente il risultato è contrario allo scopo illecito dell’accordo. Sono soldi che non servono a sostenere le economie fallite degli Stati di partenza e di transito. Tutti sappiamo che sono soldi rubati dai politici locali, gli unici “aiutati a casa loro”.

3. L’arrogante pretesa di uguaglianzaLa patria del diritto si autocompiace per stabilire come restituire i rottami al mare o al porto da dove sono partiti, qual è l’interpretazione di porto “più vicino” o “non troppo lontano” verso cui dirottare quelli tratti in salvo; quanti soccorsi al giorno si possono fare, pena in caso di disobbedienza il fermo amministrativo della nave (come se fosse un’automobile per cui non è stata pagata la tassa regionale), per quanto tempo tenerli sotto sorveglianza, meglio se lontano dai confini europei, oppure in centri di prima accoglienza, raccolta o rimpatrio, o altra denominazione. Ma, come nel resto dell’Europa, non si fa materialmente nulla per rendere meno indecente la loro condizione e meno difficile e ostile quella delle comunità locali ospitanti.

   Si tace sulle migliaia di migranti provenienti dall’Asia minore, che si avvicinano via terra al cuore dell’Europa, portando lo stesso esercito di rottami umani, aprendo una guerra interna all’Europa, combattuta costringendoli a vivere nascosti e braccati, o in campi di detenzione.

   Come per quelli provenienti dall’Africa, la verità è che ci rifiutiamo di riconoscerli come degni di vivere tra noi. La politica è infestata da slogan dove, oltre a razzismo puro e semplice e discriminazione religiosa, tutto si confonde tranne il fatto che, come per i cittadini ebrei era giudicata una pretesa arrogante il tentativo di equipararsi ai cristiani, oggi è giudicata arrogante la pretesa dei migranti di essere equiparati a noi, di essere trattati secondo il principio di uguaglianza che non ammette discriminazioni.

   La preoccupazione principale del gruppo di Stati che va sotto il nome di Unione Europea è di salvare gli interessi di tutti i “sovranismi” di destra e di sinistra di diversa gradazione, che non si combattono tra di loro, ma si integrano.

   L’Europa, che sa sempre tutto, non tenta nemmeno di immaginare una diversa prospettiva politica per affrontare il problema sociale più grande lasciato dal capitalismo, questa “religione di puro culto, senza dogma” (W. Benjamin, Capitalismo come religione, 1921, in Sul concetto di storia, Ed. It. 1997, parte settima, 284 ss.) che “in occidente si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo e in modo tale che alla fine nell’essenziale la sua storia è quella del suo parassita, del capitalismo.”, perché “il cristianesimo dell’età della Riforma non ha favorito il sorgere del capitalismo, bensì si è tramutato in capitalismo” (W. Benjamin, ivi, 286).

4. La schiuma della terra – Il razzismo e il fascismo sono strutturali al sistema, non sono un trascurabile retaggio ideologico, non hanno bisogno di intenzionalità per manifestarsi, perché fanno parte della struttura sociale.

   Angela Davis (Donne, Razza e Classe, 1981) scriveva che non basta dire “io non sono razzista” ma si deve dire “io sono antirazzista”, pochi anni dopo che in Italia Pasolini (Lettere luterane, 1975) aveva scritto che non basta dire “io non sono fascista”, ma si deve dire “io sono antifascista”.  

    Si versava in ben più serio contesto culturale e politico al confronto con le attuali inadeguate polemiche di giornata; tutt’altro che trascurabili, ben inteso, considerato che sono rivelatrici, e non sottotraccia, di un Paese che non ha mai fatto il processo al fascismo, mentre non ha mai smesso di farlo all’antifascismo e alla Resistenza, e alla Costituzione.

   L’attivista e filosofa americana aveva letto Frantz Fanon (Pelle nera, maschere bianche, 1952) quando spiegava che un nero non riesce a liberarsi dal circolo oppressivo e dal senso di inferiorità in cui il bianco lo ha incastrato e si sente diverso non perché lo sia, ma perché qualcuno gli ha inculcato lo stereotipo, spogliandolo della sua stessa umanità, riducendolo ad oggetto. 

   Con le migrazioni di massa si replica lo stesso comportamento che caratterizzò l’Europa nella vicenda dei profughi ebrei, descritto da Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo,1951) nelle pagine dedicate ai profughi di tutto il mondo.

   L’allieva di Karl Jaspers aveva in mente Arthur Koestler, (La schiuma della terra, 1941) per dare un nome alla nuova specie umana che poteva essere impunemente perseguitata e decimata.

   L’emigrazione è una diaspora mondiale che preme ai confini degli Stati di quell’Occidente del quale i popoli ricordano le umiliazioni e gli orrori subiti in passato e per questo, a poco più di un secolo e mezzo dall’approvazione del XIII emendamento della Costituzione americana e a poco più di sessant’anni dalla fine dell’occupazione coloniale francese dell’Algeria, chiedono una giustizia riparatrice.

    Non chiedono mera accoglienza, o carità cristiana, ma giustizia, vale a dire molto di più, ossia uguaglianza.  

   La schiuma della terra descritta dallo scrittore ungherese erano i senza patria, gli apolidi e i rifugiati, che avrebbero trovato protezione nella Convenzione del 1951, ai quali oggi si aggiunge una nuova specie di esseri umani: i migranti economici e ambientali, schiacciati tra le frontiere nazionali, in appositi campi di detenzione, dove lo Stato entra soltanto per motivi di repressione.

    La schiuma della terra sono gli indesiderabili, indegni di vivere tra noi, per i quali non c’è posto nell’ordine mondiale, destinati alla morte sociale.

   All’afgano al quale è stata bombardata la casa, sono stati uccisi i figli e poi lo abbiamo riconsegnato ai talebani, al siriano al quale hanno distrutto la città, sterminato la famiglia e ridotto alla fame, all’africano al quale è stato raso al suolo il villaggio e sono state industrialmente depredate le risorse della terra e attraversa il deserto, non abbiamo niente da dire e ancora meno da offrire. Speriamo soltanto di poterli riconsegnare al corrotto Stato di transito o di provenienza.

     La questione migratoria mondiale sta dimostrando che la differenza tra democrazie e dittature è soltanto una differenza di gradazione. Il principio sostanziale di uguaglianza in Europa ha perso molte posizioni. Hannah Arendt oggi constaterebbe l’attualità di quanto scriveva nel 1943 a conclusione di “Noi rifugiati”: “Il consesso dei popoli europei è andato in frantumi quando si è consentito che i membri più deboli venissero esclusi e perseguitati”.

5. La testa nella sabbia – E’ dagli anni settanta che la sinistra istituzionale ha bloccato lo scenario politico arroccandosi su quello che aveva conquistato. E’ stata una tragedia. Per decenni i partiti della sinistra storica hanno ignorato, o contrastato, tutto ciò che accadeva fuori dal loro orizzonte istituzionale.

   Le due fazioni di destra e di sinistra del partito unico che riempie gli spazi parlamentari nazionali ed europeo continuano a mettere la testa nella sabbia come lo struzzo. Sembra che non sappiano fare altro che rinfacciarsi i record di numero di sbarchi.  

    La sinistra europea occidentale, nelle sue principali componenti storiche “socialdemocratica” e “comunista”, di fronte al mondo che stava cambiando, si è fermata alle conquiste del “secolo breve”, rifiutando di vedere il vasto “cambiamento dello stato di cose presenti”, che stava avvenendo sotto i suoi occhi.

   La degenerazione etico-politica dell’Europa è seguita perché non soltanto la sinistra “socialista” e “comunista”, ma tutte le “sinistre”, includendovi con una certa forzatura, anche la sinistra “liberale” classica, “democratica” o “liberal-democratica”, non hanno capito che il fenomeno dell’emigrazione, per restare al tema di queste riflessioni, forniva strumenti enormi per riesaminare i problemi della nazionalità, della localizzazione, dell’identità e della stessa memoria storica delle forze che erano state le radici della democrazia politica e sociale moderna.

    Il risultato è che anche le conquiste sociali, economiche, civili e politiche del “secolo breve” da quarant’anni sono sotto attacco in tutta Europa.

   E’ stata persa l’occasione per gettare le fondamenta su cui costruire una nuova cultura politica, come, invece, fu a partire da quando Friedrich Engels, tra il 1844 e il 1845, a poco più di vent’anni, prima di Marx, scrivendo su “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, inventava il materialismo storico e il marxismo

6. L’assenza degli intellettuali – Quella era anche un’epoca in cui grandi scrittori scrivevano reportage e romanzi sulla miseria del proletariato: i “negri bianchi”, come Dostoevskij, sconvolto dalla miseria senza speranza né redenzione, definì il proletariato di Londra dell’epoca vittoriana (F. Dostoevskij, Note invernali su impressioni estive, cit.).

   Charles Dickens, Eugène Sue, Victor Hugo, per citare i più celebri, fecero vedere, ai loro contemporanei e a noi, la realtà: i miserabili, vittime passive e impotenti di una società ingiusta, il cui destino dipende soltanto dalla compassione e dalla carità cristiane del borghese.

    Per il borghese “la fede che ha in sé stesso è sconfinata: sprezzante e tranquillo, giusto per levarsi di torno un impiccio, concede una carità organizzata, e perciò non è possibile far vacillare questa sua sicurezza…La povertà, la sofferenza, il malcontento e l’abbruttimento non lo preoccupano affatto” (F. Dostoevskij, cit.). Sentimenti ancora oggi praticati con lo stesso spirito, fingendo di dare un qualche decoro cristiano alla miseria, per permetterci di “coesistere accanto alla sua vita, vicino ad essa alla luce del giorno” (ivi).

   Ma questi sentimenti, che oggi si esercitano in forma organizzata nelle istituzioni caritatevoli, non interrompono il corso naturale della vita sia degli europei poveri, sempre di più, che della nuova massa di miserabili. Sono sentimenti che non sono mai serviti a dare ai miserabili la dignità di persone, ma soltanto a dare tranquillità al borghese: le tiers état c’est tout!” (Dostoevskij, ivi, 78).

   Ai tempi di Dostoevskij il marxismo iniziava ad aprire una via per far conquistare la dignità di working class al proletariato, facendolo irrompere sulla scena della storia. Il marxismo si univa idealmente all’arte universale di quegli scrittori, che diede impulso decisivo per conquistare la prima presa di coscienza dell’ingiustizia non soltanto morale, ma sociale e politica della condizione in cui versava il proletariato dell’epoca.  

  Gilroy (The Black Atlantic, cit. 85) ricorda il famoso dipinto di Turner “La nave negriera” (1840), che per la potenza evocativa del terrore razziale e del commercio di uomini ha testimoniato la degenerazione etico-politica dell’Inghilterra e ha dato al suo tempo la possibilità di prefigurare lo scontro culturale e politico che quella storia avrebbe generato.

   Oggi l’Europa, di fronte alla “questione africana” e dei profughi asiatici, alle migliaia di morti nel Mediterraneo “nero” e sulle rotte balcaniche, una tragedia moltiplicata di morti senza nome, sta attraversando una degenerazione etico-politica di maggiore profondità ed estensione. E non ci sono la trasfigurazione e la forza evocativa dell’arte. Non ci sono Dostoevskij, Dickens, Sue, Hugo, Turner, non ci sono Conrad, Orwell e Koestler a dare vita duratura a quei corpi, a quella parte del mondo offesa e a farci riflettere sulla politica attuale dell’Occidente. Anche per queste assenze tutto è molto più difficile.

    In maggioranza l’intellettuale di questi tempi è “… un manzoniano che tira quattro paghe per il lesso”.

   La politica continua a rimuovere e rifiutare, invece di studiare e capire le ragioni dell’Odio per l’Occidente (Jean Ziegler, 2008) che vive nella memoria storica dei popoli colonizzati. La saccente Europa, di destra e di sinistra, è vittima della propria malattia. Camus e Koestler dialogavano sulla pena di morte, ma la malattia dell’Europa è la stessa: non credere a niente e pretendere di sapere tutto.

   Continuiamo comunque a sperare. “Madama Storia e Madama Natura hanno sempre qualche sorpresa da riservarci. La Storia non finisce.” Così Federico Caffè, citando D. H. Robertson, concludeva un’intervista con Valentino Parlato del 14.11.1979, intitolata “Siamo già nel 1929” (Federico Caffè, Scritti quotidiani, a cura di Roberta Carlini e Pierluigi Ciocca, manifesto libri, 2007, 123 ss.).

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