L’Italia davanti alla Corte EDU per le emissioni di gas serra

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di Luciana Cardelli*

è di questi giorni la notizia del superamento del filtro di ammissibilità, presso la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani, di due ricorsi “per saltum” (ossia senza aver esperito i procedimenti giudiziari interni) di quattro cittadine italiane nei confronti dell’Italia e di altri 31 Stati (“caso Uricchio”, ric. n. 14615/21, e “caso De Conto”, ric. 14620/21), per responsabilità per danni da cambiamento climatico (cfr. Cambiamenti climatici, due lucane e due bellunesi a un passo dall’impresa di inchiodare l’Italia).

Le due iniziative si inseriscono in un filone di azioni in costante crescita a Strasburgo (cfr. Status of climate applications before the European Court). Esse, però, presentano due caratteristiche peculiari, che richiedono attenzione.

In primo luogo, le azioni evocano in giudizio l’Italia in responsabilità solidale con altri Stati, come già sperimentato nella controversia “Duarte Agostinho e altri c. Portogallo e 32 altri Stati”, sicché fanno perno sul principio delle «responsabilità comuni», scandito degli articoli 3 n. 1 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico del 1992 (UNFCCC), e 2 n. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015.

In secondo luogo, esse lamentano l’omissione statale dei conteggi della c.d. “quota equa” di abbattimento delle emissioni di gas serra, secondo il criterio delle «responsabilità differenziate», specificato sempre dai due articoli citati, così sommandosi pure al noto caso italiano “Giudizio Universale”, pendente davanti al Tribunale civile di Roma, che tale omissione eccepisce.

In effetti, l’Italia non ha mai provveduto a formalizzare la procedura indicata dai due articoli, limitandosi semplicemente ad attuare quanto previsto dalle fonti europee (come risulta dall’assenza di conteggi in merito, nei dati di informazione ambientale dell’ISPRA e del CMCC, fonti di cognizione legale in materia climatica).

La “quota equa”, però, è una regola giuridica obbligatoria, per lungo tempo trascurata fino a quando non si è entrati in emergenza climatica ed è divenuto, giocoforza, necessario agire per scongiurare danni irreversibili. La “quota equa”, infatti, identifica l’unico metodo efficace di eliminazione del pericolo. Lo si desume proprio dai testi dell’UNFCCC e dell’Accordo di Parigi.

Il suo conteggio, in ossequio al criterio delle «responsabilità comuni ma differenziate», non è libero nel fine. Consiste in una divisione, giuridicamente delimitata da due parametri di intervallo per quantificare i divisori. Nel primo estremo di intervallo, si colloca il numero degli Stati aderenti all’UNFCCC (in ragione delle «responsabilità comuni»), per cui il divisore corrisponde semplicemente al loro totale. All’altro estremo, invece, si colloca un divisore differenziato per responsabilità storica di emissioni di ciascuno Stato (in ragione delle «responsabilità differenziate»), per cui l’operazione di divisione non sarà unica, ma appunto differente da Stato e Stato. Il dividendo, a sua volta, è fornito dal totale delle concentrazioni di gas serra maturate, o dal 1992 o dal 1970, e dal c.d. “Carbon Budget” residuo, cioè dal totale delle emissioni ancora disponibili per non sforare l’obiettivo dell’Accordo di Parigi sull’aumento della temperatura media globale a non più di 1,5° massimo 2°C.

Giova precisare che le date del 1992 e del 1972 non sono casuali, ma anch’esse giuridicamente significative in quanto che, la prima, corrisponde alla formalizzazione dell’UNFCCC, allorquando gli Stati si sono dichiarati ufficialmente responsabili delle emissioni antropogeniche dei gas serra (cfr. J. Hickel, Quantifying national responsibility for climate breakdown), mentre la seconda, il 1972, considera la Dichiarazione di Stoccolma del 1972, richiamata nel Preambolo dell’UNFCCC e contenente anch’essa assunzioni pubbliche di responsabilità (cfr. J. Hickel, National responsibility for ecological breakdown). Dentro questo intervallo, è obbligatorio procedere ai conteggi. Per i dettagli tecnici si fa riferimento ai Report di valutazione dell’IPCC (il Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico), a partire dal n. 5 del 2014 (AR5). Anche questo riferimento è un dovere: quei Report sono acconsentiti dagli Stati, per cui gli stessi non hanno titolo a proclamarsene estranei, ignari o inconsapevoli ai fini del conteggio, se non contravvenendo al canone della buona fede, imposto dalla Convenzione di Vienna sull’interpretazione dei Trattati del 1969 e pacificamente applicabile nella materia climatica (cfr. B. Mayer, Obligations of conduct in the international law on climate change: A defence e L. Rajamani, The 2015 Paris Agreement)

Del resto, in occasione del Synthesis Report 2023 dell’IPCC, sempre gli Stati hanno addirittura convenuto di qualificare il calcolo della “quota equa” come priorità necessaria per «evitare l’ingestibile» (ossia danni a catena irreversibili nelle trasformazioni degenerative del sistema climatico in emergenza) e per tutelare la salute della popolazione umana nel pianeta (secondo il paradigma scientifico One Health-Planetary Health anch’esso accolto dall’IPCC).

Ora, in virtù di questo percorso di giuridificazione sempre più dettagliata della “quota equa”, stanno  insorgendo nuovi contenziosi climatici, come l’italiano “Giudizio Universale” e i tre a Strasburgo (cfr. M.A. Tigre, The Meaning of “Fair Share” in Climate Ambition Litigation under the Paris Agreement). Si tratta di controversie diverse dalle precedenti, perché volte non a rivendicare semplicemente il dovere statale di diligenza sui diritti umani, sulla falsariga del celeberrimo “caso Urgenda”, bensì a pretendere o il risarcimento monetario dei danni già causati dall’omesso conteggio (come nei tre ricorsi alla Corte dei diritti umani) o la rimozione del pericolo rappresentato appunto dall’emergenza climatica, pur sempre causata dall’omesso conteggio (come per “Giudizio Universale”). In altre parole, i nuovi contenziosi eccepiscono l’inerzia statale sulla “quota equa” come colpa (o dolo) nella causazione dell’emergenza climatica e dei danni che compromettono la stabilizzazione “One Health-Planetary Health” del sistema climatico (cfr. M. Carducci, L’approccio One Health nel contenzioso climatico: un’analisi comparata).

D’altra parte, come il citato Synthesis Report chiarisce, solo quantificando la “quota equa” di abbattimento delle emissioni è possibile garantire l’effettivo controllo statale delle dinamiche territoriali del sistema climatico, nel senso di permettere allo Stato di liberarsi dall’imputazione a sé della volontaria produzione del pericolo e della negligenza nell’evitarlo.

Nel diritto italiano, contraddistinto dagli artt. 2043, 2045 e 2051 Cod. civ., (non presenti, come istituti, in altri contesti: cfr. P. Pacileo, Le fonti della responsabilità civile: esame comparato delle principali esperienza), questo significa che il calcolo della “quota equa” integra funzionalmente il dovere generale del neminem laedere. È nota, difatti, la costante giurisprudenza secondo cui qualsiasi attività di un potere pubblico, Stato incluso, «anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti dalla legge e dal principio primario del neminem laedere, codificato nell’art. 2043 c.c., per cui è consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato, da parte della stessa pubblica amministrazione, un comportamento doloso o colposo che, in violazione di tale norma e tale principio, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo» (da ultimo, cfr. Cass. civ. sez. III, ord. n. 5984/2023).

Il «limite posto dalla legge», combinato col nemimen laedere, è fatto derivare dall’art. 97 Cost. (così già Cass. civ. sez. III sent. n. 5120/2011) e non sembra dubbio che il criterio delle “responsabilità comuni-responsabilità differenziate” costituisca anch’esso un «limite posto» da legge (la legge di esecuzione degli obblighi internazionali di UNFCCC e Accordo di Parigi; obblighi coperti, tra l’altro, dall’art. 117 c. 1 Cost.).

Non solo: non sembrerebbe dubbio predicare la coerenza di quel «limite posto» con il riformato art. 9 Cost., contenente il dovere di tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi (i fattori Planetary Health del sistema climatico, a garanzia della One Health umana).

Insomma, se, a livello CEDU, l’obbligo della “quota equa” si rapporta ai doveri come interpretati dalla Corte di Strasburgo, in particolare per gli artt. 2 e 8 della Convenzione, esso, a livello nazionale, appare declinabile come adempimento rafforzato da principi e limiti costituzionali (artt. 9 e 97 Cost.), oltre che legali (artt. 2043, 2045 e 2051 Cod. civ.): un quadro che, in emergenza climatica, non può essere più pretermesso in nome, appunto, della Costituzione.

* dottoranda in Diritto ambientale internazionale e comparato

 

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