«Bilancio di carbonio» e diritti costituzionali

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di Luciana Cardelli

Nelle discussioni sulla tutela dei diritti umani di fronte all’emergenza climatica, un tema solitamente trascurato è quello del c.d. “bilancio di carbonio” (o Carbon Budget). La ragione di questa disattenzione si deve probabilmente al fatto che i giuristi, che si occupano di diritto climatico, non necessariamente leggono i Rapporti del Panel Intergovernativo delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (l’IPCC).

In particolare, non sembrano considerare soprattutto le “Sintesi per i decisori politici”, redatte d’intesa con i rappresentanti degli Stati, la quali contengono, com’è noto, le traduzioni in azioni politiche delle acquisizioni scientifiche sugli scenari di pericolo del sistema climatico nel breve e nel lungo periodo, in funzione dell’obiettivo di stabilizzazione del Pianeta, fissato dall’art. 2 della citata Convenzione Quadro delle Nazioni Unite del 1992.

Se lo facessero, scoprirebbero che il “bilancio di carbonio” è il più “utile strumento politico” (Van den Berg et al., Implications of various effort-sharing approaches for national carbon budgets and emission pathways, 2019) per decidere sul futuro della condizione umana e sull’effettività intertemporale e intergenerazionale dei diritti.

Conoscere e comprendere il “bilancio di carbonio”, in definitiva, è importante. Spendere qualche parola su di esso, appare utile.

Il “bilancio di carbonio” indica la quantità cumulativa di anidride carbonica (CO2) (e di altri gas serra antropogenici) che può ancora essere immessa in atmosfera se si intende mantenere il riscaldamento globale al di sotto di limiti specifici di aumento della temperatura media planetaria.

Com’è risaputo, questi limiti specifici sono stati tradotti in prescrizioni giuridiche dall’Accordo di Parigi e riaffermati nel c.d. Patto per il clima di Glasgow nel 2021. Essi consistono nel contenere il riscaldamento globale «ben al di sotto di 2°C» e, preferibilmente, a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.

Affinché ciò sia possibile, le emissioni antropogeniche di gas serra devono essere contenute al di sotto di una determinata soglia, limitando così l’esposizione umana ai rischi legati all’instabilità climatica e ai suoi cambiamenti degenerativi.

La soglia, dunque, traccia la linea di sicurezza da non oltrepassare per evitare il peggio. La sua quantificazione è denominata appunto “bilancio di carbonio”. Questa soglia, come si legge nell’art. 3 del cit. Patto per il clima di Glasgow, risulta «ormai ridotta e si sta rapidamente esaurendo». Essa, di conseguenza, consiste di fatto in una risorsa scarsa tanto sul piano quantitativo (essendo «ormai ridotta») quanto su quello temporale (dato che si sta «rapidamente esaurendo»). Il che significa che qualsiasi entità statale non può (non dovrebbe) ignorarla.

Proprio a questo scopo, il concetto di “bilancio di carbonio” è stato ufficialmente definito dall’IPCC, con l’avallo esplicito degli Stati.

Il suo inquadramento è fondato sulla distinzione tra “bilancio totale” – ovvero la quantità di carbonio a disposizione dell’umanità, a partire dal periodo preindustriale – e “bilancio rimanente” (c.d. RCB) – ovvero la quantità di carbonio che, ad oggi, resta da emettere in atmosfera per non superare il richiamato limite di sicurezza per la condizione umana (cfr. IPCC, AR6-WG1 Summary for Policy Makers 2021).

La differenza tra “totale” e “rimanente” serve a circoscrivere lo spazio di manovra di qualsiasi decisore politico senza recare danni. Detto in soldoni, se uno Stato quantifica la propria “quota” di “bilancio di carbonio rimanente”, esso è sicuro di operare nella legalità ossia nella conformità con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e del Patto di Glasgow.

Per facilitare questo compito, tra l’altro, il centro di ricerca berlinese Mercator Research Institute on Global Commons and Climate Change (MCC) ha realizzato il c.d. “Carbon Clock”: un timer per il conto alla rovescia di quanta CO2 può ancora essere rilasciata nell’atmosfera e del tempo rimanente per decidere senza sforare gli obiettivi di Parigi e Glasgow.

Insomma, il conteggio del “bilancio di carbonio”, da parte di ogni Stato, dovrebbe costituire la premessa necessaria di qualsiasi sua decisione. Più concretamente, i c.d. “Contributi Determinati a livello Nazionale” (NDCs), ossia i piani di abbattimento delle emissioni di gas serra, periodicamente formalizzati da ciascuno Stato in base agli artt. 3 e 4 dell’Accordo di Parigi, traducendosi di fatto in rivendicazioni di quote specifiche per paese del “bilancio di carbonio rimanente” (cfr. Williges et al. Fairness critically conditions the carbon budget allocation across countries 2022), dovrebbero basarsi, per essere verificabili e credibili, in una previa contabilizzazione del quantum si intende sottrarre a quella “rimanenza”.

Questo purtroppo non avviene nella maggioranza dei casi, come certificato e denunciato proprio dal Segretariato dell’UNFCCC (New Analysis of National Climate Plans: Insufficient Progress Made, 2023). Non avviene neppure per l’Italia, dove addirittura l’unica proposta di legge sul clima (Camera dei Deputati XIX Legislatura, Atto 1082, Disposizioni sulla protezione del clima, 6 aprile 2023) neppure menziona il “bilancio di carbonio”.

Il che spiega il fallimento delle politiche climatiche e l’aggravarsi sempre più rapido dell’emergenza climatica. Siamo quindi messi male sull’utilizzo effettivo ed efficace di questo “utile strumento politico”. Ma non è tutto.

Una seconda funzione “politica” del “bilancio di carbonio” riguarda il corretto inquadramento del c.d. approccio “net zero” da parte sempre dei decisori.

Pure su questo fronte, disattenzioni e confusioni hanno il sopravvento. Col termine “net zero” si indicano tre situazioni differenti, considerate fra loro fungibili: le “emissioni zero”; le “emissioni zero nette”; la “neutralità carbonica”.

Però, non è così. La prima espressione indica la capacità di una qualsiasi attività umana (produzione di un bene, erogazione di un servizio, spostamento ecc.) di non emettere gas serra nell’energia che utilizza, il che significa che l’attività dev’essere fornita da fonti rinnovabili e non più fossili. La seconda, invece, definisce un obiettivo di lungo termine e non semplicemente la pratica dell’energia rinnovabile, e consiste nel fatto che, poiché non tutte le emissioni antropogeniche potranno essere eliminate, si dovranno “compensare” le (poche e residue) emissioni con assorbimenti naturali (riforestazioni) o artificiali (c.d. “cattura del carbonio”), appunto per andare a un pareggio netto sempre. Il concetto di “neutralità carbonica”, infine, è quello più deviante di tutti, in quanto non ha nulla a che vedere con i primi due, consistendo nel postulato che si possa sempre e comunque emettere gas serra senza limiti (quindi persino aumentando la produzione energetica fossile invece che quella rinnovabile), purché ci si impegni a ricatturare il tutto attraverso compensazioni naturali o artificiali.

Com’è intuibile, solo le prime due espressioni riflettono concretamente la formula “net zero” nella logica del “bilancio di carbonio”. Entrambe, infatti, sono finalizzate a ridurre e controllare le emissioni antropogeniche di gas serra incidenti su tale “bilancio”, grazie appunto all’eliminazione dei fossili e la neutralizzazione delle emissioni residuali inevitabili. L’azzeramento, in poche parole, è lo strumento operativo di garanzie del rispetto del “bilancio di carbonio rimanente” (essendo finalizzato a non superarlo).

La terza declinazione del concetto “net zero”, al contrario, consuma la negazione totale del rispetto del “bilancio di carbonio”, per il banale motivo di non considerare che, una volta emessi, i gas fossili alimentano la loro concentrazione in atmosfera, anche se successivamente “catturati”, continuando così a incidere negativamente sulla quantità di carbonio ancora “rimanente” e accelerando i tempi di degenerazione del sistema climatico. Essa opera contra legem nella misura in cui ignora e compromette la soglia di sicurezza della condizione umana nel sistema climatico, garantita dall’Accordo di Parigi.

A questo punto, si dovrebbe comprendere quanto sia utile questo oggetto così trascurato dai giuristi. Per fare solo un esempio, si pensi alla sua rilevanza nella concettualizzazione del dovere di agire «anche nell’interesse delle generazioni future», come vuole il riformato art. 9 Cost.

Il “bilancio di carbonio” si rivela la cartina al tornasole non solo della conformità formale delle decisioni climatiche rispetto ai parametri legali dell’Accordo di Parigi e del Patto di Glasgow, ma anche del rispetto sostanziale della condizione umana nel tempo futuro del sistema terrestre. Nella sua quantificazione si racchiude il destino dei diritti umani in proiezione intertemporale e intergenerazionale (come in parte riconosciuto dalla storica decisione del Tribunale costituzionale tedesco sulla legge sul clima: cfr. Di Martino, Intertemporalità dei diritti e dintorni, 2023).

È proprio di questi giorni la non rassicurante notizia che il “bilancio di carbonio” sta precipitosamente finendo. Un nuovo studio, pubblicato su Nature Climate Change (Lamboll et al., Assessing the size and uncertainty of remaining carbon budgets, 2023), ha suonato il campanello d’allarme: l’umanità ha un arco temporale di soli sei anni per tentare di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, la soglia più sicura oltre la quale la condizione umana sarà destinata solo a peggiorare nella degenerazione intertemporale e intergenerazionale dell’esistenza dignitosa dei diritti di ciascuno.

Se è vero che si ha il dovere di «salvaguardare la vivibilità dell’ambiente e le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale» (Corte cost. Sent. n. 93/2017), quel campanello d’allarme dovrebbe essere ascoltato da tutti.

E se è pure vero che il concetto economico-finanziario di “bilancio” deve essere «correttamente inteso nel senso che è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere» su di esso e non viceversa (Corte cost. Sent. n. 275/2016), non si vede come quella medesima “incidenza” non possa (e debba) essere rivendicata per il rispetto del limite del “bilancio di carbonio rimanente”, ben più drasticamente e irreversibilmente condizionante la “incomprimibilità”, nel tempo, di quei diritti.   

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