Il Wall Street Consensus sbarca in Eurolandia

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di Andrea Guazzarotti*

Il Parlamento europeo ha appena approvato il nuovo Patto di stabilità (e crescita?) destinato, dopo la sospensione del vecchio Patto durante la pandemia, a vincolare i futuri piani di bilancio degli Stati dell’UE. Dopo lunghe negoziazioni – e nonostante il mea culpa della Commissione sui guasti prodotti dal vecchio – il nuovo Patto riproduce la stessa logica ispirata all’austerity e alla diffidenza di Germania e ‘frugali’ per gli investimenti pubblici a debito.

In questo orizzonte, il moltiplicatore keynesiano semplicemente non esiste e tutto ciò che si può fare è risparmiare, oggi, per prepararsi al peggio di domani. Il freno all’indebitamento costringe lo Stato a lasciar inasprire le crisi prima che possano essere prese misure di indebitamento [Märtin, Mühlbach]. L’esito è sconsolante: la Germania ha registrato un gap in investimenti pubblici infrastrutturali (ma anche in investimenti privati) non degno di quell’economia. Non si può investire a debito per prevenire le calamità, lo si può fare solo per riparare i danni, dopo che quelle calamità si saranno verificate!

La confederazione dei sindacati europei prevede che con le nuove regole fiscali europee (comunque meno rigide delle previgenti) solo tre Paesi saranno in grado di finanziarie gli investimenti di cui la stessa UE, per bocca dei tanti documenti prodotti in questi anni specie dalla Commissione, si professa bisognosa. Non stiamo parlando delle spese militari – la grande new entry negli atti dell’UE –, che i sindacati si guardano bene dall’invocare. Stiamo parlando di investimenti sociali (salute, istruzione e abitazione) e ambientali (c.d. green investments). Con le nuove regole, soltanto Danimarca, Svezia e Irlanda saranno in grado di compiere quegli investimenti con denaro pubblico. C’è da chiedersi, dunque, come mai uno Stato come la Francia (che risulta tra i più penalizzati dalle nuove regole sul debito) abbia finito per aderire alla logica dell’austerity. Ma forse nulla accade per caso!

Mentre i sindacati e altri meritori Think Thank europei si sgolavano in favore degli investimenti pubblici, ecco materializzarsi i due rapporti sulle future sorti della competitività europea. Se del rapporto Draghi è stato anticipato solo un abbozzo, quello di Enrico Letta è, nelle sue 150 pagine, bell’e fatto. Entrambi puntano sulla finanza privata per realizzare quei tanto invocati beni pubblici europei. Lo schema sembra ricalcare il modello del c.d. Wall Street Consensus (D. Gabor), in cui il ruolo dello Stato si riduce a quello di garante degli investimenti privati in progetti destinati a servizi pubblici gestiti, però, secondo logiche di profitto.  Anziché avere uno Stato (democratico) che, grazie all’imposizione progressiva e al debito pubblico, investe in servizi e infrastrutture da fornire ai cittadini al di fuori del mercato, abbiamo una finanza privata oligopolistica che, in parte o in toto, percepisce le tariffe pagate dagli utenti a seguito di investimenti ‘green’, la cui rischiosità è però garantita dagli Stati. Si tratta di «un progetto che cerca di estendere la dipendenza infrastrutturale dello Stato dalla finanza privata – e dunque [estendere] il potere di quest’ultima sulle infrastrutture» [ibidem, 436]. Una spudorata logica di privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite, insomma.

Ricorrendo al solito ricettario neoliberale di deregolamentazione e sgravi fiscali, il Piano Letta punta a mobilitare i 33 mila miliardi di euro di risparmi privati verso “i grandi gestori europei in modo da mobilitare risorse che gli Stati non hanno più” (Volpi). Ma meglio sarebbe dire, “che gli Stati non vogliono più avere”, a partire da quando le classi dirigenti e poi quelle politiche si sono convertite all’iper-liberalizzazione dei capitali (che neutralizza la tassazione progressiva) e all’indipendenza delle Banche centrali (che neutralizza il conflitto salariale e il sindacato). Più che rivitalizzare l’idea del debito comune europeo (pure presente nel Piano Letta, chiaramente subordinato alla finanza privata nel Piano Draghi), si punta al «rafforzamento delle capacità di investimento dei grandi player finanziari europei. A vantaggio dei quali dovrà essere costruita anche una normativa in grado di rendere meno onerosa per i loro bilanci la ponderazione dei rischi assunti» (Volpi). Come se le bolle finanziarie non fossero mai esistite, la ricetta di Letta è ancora una volta quella delle cartolarizzazioni spinte, al sedicente fine di “distribuire il rischio” (ibidem).

Dietro al Piano Letta si intravede la realizzazione del vecchio sogno francese di puntare sulla finanza per conquistare l’egemonia in Europa. Impossibile il confronto con la Germania sul piano produttivo-industriale, la Francia di Delors aveva progettato l’euro (anche) come un dispositivo per egemonizzare l’UE di 40 anni fa ricorrendo alla finanza (Bellofiore, Garibaldo, p. 34s.). Dopo anni in cui il concreto funzionamento dell’Eurozona ha chiaramente attribuito l’egemonia alla Germania (soprattutto grazie all’integrazione con la periferia Est dell’UE), oggi la crisi del modello mercantilista tedesco sembra riaprire spiragli al progetto egemonico francese. Il risparmio europeo agli europei! Cioè al più grande gestore di risparmio privato in Europa, il francese Amundi (Volpi), del cui advisory board Letta è stato membro.

Il piano Letta si spinge in terreni urticanti, per chi è ancora affezionato allo Stato sociale: anziché lamentare il degrado delle istituzioni scolastiche pubbliche e invocarne il rifinanziamento da parte dello Stato, il piano punta il faro sulla necessità di fornire un’educazione finanziaria alle scolare e agli scolari di Eurolandia. Loro sarà la responsabilità di saper compiere le giuste scelte di risparmio privato e, così facendo, contribuire agli investimenti in beni pubblici di cui tanto abbiamo bisogno, privilegiando i fondi privati euro-francesi contro quelli amerikani (Volpi). Ma al di là del confronto geopolitico, quel che più colpisce è l’impudicizia con cui ormai i paladini della finanza privata esibiscono la più intima natura del progetto egemonico neoliberale: più che la finanziarizzazione dell’economia, alla radice della crisi sta «l’inclusione delle famiglie lavoratrici nel rango dei capitalisti», grazie all’illusione collettiva per cui il reddito sarebbe meglio garantito dalla rendita finanziaria che non da lavoro e sindacato (P. Leon). Una menzogna che si apprezza al meglio ponendo mente alla distribuzione fortemente diseguale di quei fantomatici 33 mila miliardi di risparmio europeo, la cui stragrande maggioranza è posseduta da un’esigua minoranza di rentiers (Ottolina, Volpi). E, però, è più facile unificare la scuola europea educando alla finanza, che non proponendo una comune versione della sanguinosa storia degli europei. E qui, del resto, stava e starà il segreto del successo dell’approccio funzionalista all’integrazione europea, lo stesso che ha permesso lo sciagurato ottimismo sull’effetto inducente dell’euro (Guazzarotti) e il matrimonio di convenienza tra federalisti e neoliberisti (Saraceno). Un successo che, prima o poi, presenta il conto alle classi e agli Stati subalterni…

È, comunque, assai improbabile che gli USA abbiano stroncato l’egemonia tedesca (soprattutto, con la strategia sull’Ucraina: Minolfi), per poi lasciare alla Francia la guida di un’UE antagonista alla finanza statunitense. È dalla nascita della moneta unica che è chiara l’indisponibilità degli USA a qualsiasi tolleranza verso un euro effettivamente alternativo al dollaro nella finanza globale (Di Gaspare); dollaro – e finanza americana – restano gli assi portanti del rapporto asimmetrico tra USA e UE, con il resto a fare da specchietto per le allodole (Chessa, p. 41ss.). È assai plausibile, del resto, che sia la finanza americana, se necessario, ad affossare in poche mosse il campione europeo Amundi, qualora gli USA ne percepiscano la pericolosità.

È probabilmente con questo (maggiore) realismo che l’altro cavaliere europeo senza macchia e senza paura ha anticipato i contenuti del suo Piano sulla competitività. Il piano Draghi, difatti, pur insistendo sulla necessità di sviluppare oligopoli europei per competere con quelli statunitensi e cinesi, lascia intendere di non disdegnare il contributo della finanza USA (Ottolina, Volpi). Sennonché, anche il piano Draghi rappresenta “l’accanimento di una terapia sbagliata – Ue come una copia degli USA” [Barca]. Un documento in cui “si mette il riarmo al centro del rilancio della domanda” e in cui la standardizzazione dei dati dei pazienti europei è pensata per maggiorare gli extra-profitti delle imprese farmaceutiche piuttosto che nell’interesse di tutta la società o per un’infrastruttura pubblica europea per la ricerca e lo sviluppo di farmaci [ibidem].

Entrambi i rapporti sono dedicati alla competitività. Competitività non è uguale a concorrenza [Schiattarella, 197ss.]: se quest’ultimo concetto può ancora avere qualcosa da spartire con la democrazia costituzionale (evitare la concentrazione di potere economico privato dovrebbe contribuire all’equa distribuzione di potere politico nella società), la competitività mira, invece, a favorire la nascita di pochi, grandi oligopoli privati, capaci di meglio sfruttare le economie di scala dell’unificazione dei mercati. Se questa è la strada che hanno da tempo intrapreso gli USA e la Cina, il destino europeo non può essere diverso. Ma l’UE non doveva servire proprio a distinguerci dal capitalismo anglo-americano, per non dire dal capitalismo di stato cinese? Chi controllerà i nuovi colossi finanziari privati europei cui il Piano Letta vuole affidare le magnifiche sorti e progressive dei risparmiatori europei? Meglio l’alternativa draghiana, di lasciare che i grandi fondi statunitensi si pappino il grosso del risparmio UE? Forse esistono altre opzioni.

Per non ridurci a brutte copie degli USA, la rivoluzione sociale cui puntare potrebbe ispirarsi a una radicalizzazione della keynesiana socializzazione degli investimenti, corrispondente a una “economia della produzione sociale” che deve accompagnarsi alla “costruzione di un protagonismo sociale del movimento della classe lavoratrice e delle soggettività potenzialmente anticapitalistiche”, al fine di “sradicare il dispotismo capitalista nei luoghi di lavoro (…) e il comando capitalistico sulla composizione della produzione” [Bellofiore, Garibaldo, p. 163ss.]

Per ora si tratta più di utopie che di progetti politici, ma a forza di reprimere le utopie rischiamo di degradarci a intelligenze artificiali, entità abitate da frammenti del pensiero dominante, chiamate solo a reagire – computeristicamente – a input esterni (Supiot, p. 173ss.), “come se le cose si fossero bloccate, (come) se non ci fosse più spazio per quell’animale del possibile che è l’uomo” (Cantaro).

* Contributo ripubblicato con il consenso di Fuoricollana.it

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